Sabato 26 febbraio, alle 16 nella sala multimediale di via Bassi, l’Amministrazione comunale e la Biblioteca Civica di Ormea organizzano l’anteprima della presentazione nazionale di un libro appena finito di stampare che verrà successivamente presentato al “Salone del libro” di Torino.
«Si tratta della traduzione italiana della biografia di Roberto Arlt, vissuto tra il 1900 e il 1942 e considerato, insieme al suo contemporaneo Borges, uno dei padri della letteratura argentina – spiega Giorgio Ferraris, sindaco di Ormea -. Nato a Buenos Aires, nei suoi romanzi, racconti e articoli di giornale, per primo scrisse del popolo e sul popolo, sul suo ambiente, i suburbi di Buenos Aires, le fabbriche, la pampa, delle sue difficoltà e delle sue lotte. La biografia di Arlt di Sylvia Saitta intreccia la travagliata vita dello scrittore con le sue opere e i suoi personaggi».
«Il libro – spiega ancora Ferraris – è opera della ricercatrice e scrittrice argentina Saitta, che sarà collegata in videoconferenza alla presentazione, dove saranno presenti i due traduttori italiani dell’opera, Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, oltre al viceconsole argentino in Italia, Manrique Altavista».
Il sindaco di Ormea conclude: «Ringraziamo lo scrittore Marino Magliani che ha scelto Ormea per l’anteprima della presentazione di questa importante opera; lo consideriamo un omaggio e un ricordo delle tante persone che agli inizi del secolo scorso sono state costrette ad emigrare».
Sabato 26 febbraio, alle 16 nella sala multimediale di via Bassi, l’Amministrazione comunale e la Biblioteca di Ormea organizzano l’anteprima della presentazione nazionale del libro “Arlt, lo scrittore nel bosco di mattoni. Una biografia”, che verrà poi presentato al “Salone del libro” di Torino. Si tratta della traduzione italiana della biografia dello scrittore, drammaturgo e giornalista argentino Roberto Godofredo Christophersen Arlt, vissuto tra il 1900 e il 1942 e considerato, insieme al suo contemporaneo Borges, uno dei padri della letteratura argentina. Arlt, nei suoi romanzi, racconti e articoli di giornale, scrisse per primo del popolo e sul popolo, del suo ambiente (i barrios di Buenos Aires, le fabbriche, la pampa), delle sue difficoltà e delle sue lotte.
Il volume è opera della ricercatrice e scrittrice argentina Sylvia Saitta che intreccia la travagliata vita dello scrittore alle sue opere e ai suoi personaggi. L’autrice sabato sarà collegata in video-conferenza. In sala: i due traduttori italiani del volume, Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, oltre al vice console argentino in Italia Manrique Altavista. «Colgo l’occasione per ringraziare lo scrittore Marino Magliani che ha scelto Ormea per l’anteprima della presentazione dell’importante opera – anticipa il sindaco Giorgio Ferraris –, un fatto che consideriamo omaggio e ricordo delle tante persone che agli inizi del secolo scorso sono state costrette a emigrare e hanno scelto la terra argentina per cercare un futuro migliore».
Nella sala multimedia delle ex scuole di via Bassi, il Comune e la Biblioteca civica di Ormea organizzano l’anteprima della presentazione nazionale di un libro, fresco di stampa, che sarà poi presentato al Salone del libro di Torino. È la traduzione italiana della biografia di Roberto Arlt, vissuto tra il 1900 e il 1942, ritenuto insieme al contemporaneo Borges uno dei padri della letteratura argentina. Nato a Buenos Aires, in romanzi, racconti e articoli di giornale per primo scrisse del popolo, del suo ambiente (suburbi di Buenos Aires, fabbriche, pampa), delle sue difficoltà e lotte.
«Arlt, lo scrittore nel bosco di mattoni. Una biografia» è opera della ricercatrice e scrittrice argentina Sylvia Saitta, che sarà collegata in videoconferenza. Alla presentazione di sabato a Ormea saranno presenti i traduttori italiani, Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, oltre al viceconsole argentino in Italia, Manrique Altavista. P.S.
Revelli e Magliani spiegano il mondo di Roberto Arlt
Incontro letterario lo scorso 27 febbraio al bar Ligure di Arma di Taggia promosso da Casa Balestra, di Molini di Triora, che scende così, per una volta, in riva al mare.
Ci saranno gli scrittori Giacomo Revelli e Marino Magliani, che ha appena tradotto (con Riccardo Ferrazzi) la biografia del collega argentino Roberto Arlt. Si soffermeranno inizialmente su questo testo. Toccherà quindi alla presentazione del libro «Arlt-Lo scrittore nel bosco di mattoni» di Sylvia Saitta (Miraggi Edizioni, Torino). Opera pubblicata nell’ambito del programma Sur di supporto alle traduzioni del Ministero degli Esteri. Conclusione con il libro «Il cannocchiale del tenente Dumont», uno delle rivelazioni dello scorso anno, scritto dallo stesso Marino Magliani. Quest’ultimo, scrittore di Prelà che si divide fra l’Italia e l’Olanda, sta vivendo un momento felice negli Stati Uniti dove i suoi libri sono saliti nella Top 20 dei più venduti. E, nelle versioni in inglese, sono venduti in Cina. Il suo ultimo libro è stato recensito, un termini molto favorevoli, da tutti i maggiori organi di informazione. M.C.
Presentazione letteraria in trasferta per l’associazione Casa Balestra
Evento letterario speciale ad Arma di Taggia, Marino Magliani dialogherà con lo scrittore Giacomo Revelli oggi alle 18 al bar Ligure, in piazza Tiziano Chierotti, organizzato dall’Associazione culturale Casa Balestra (in trasferta nell’occasione dalla sede di Molini di Triora).
In “Officina Magliani” i due protagonisti presenteranno la biografia dello scrittore argentino Robert Arlt tradotta da Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi; si concentrerà poi l’attenzione sull’ultimo libro di Magliani. L’ingresso al bar Ligure potrà avvenire con Green pass, con consumazione obbligatoria. Si comincerà con il volume “Arlt-Lo scrittore nel bosco di mattoni” di Sylvia Saitta (Miraggi edizioni Torino), opera pubblicata nell’ambito del programma Sun di supporto alle traduzioni del ministero degli affari esteri, del commercio internazionale e del culto della Repubblica Argentina. Roberto Godofredo Christophersen Arlt, nato nel 1900 e deceduto nel 1942 a Buenos Aires, in Argentina, era uno scrittore, drammaturgo e giornalista. Figlio di un immigrato prussiano, KarlArlt, e di Ekatherine Iobstraibitzer, originaria di Trieste e di lingua italiana, ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1926, “El juguete rabioso” (Il giocattolo rabbioso), la storia autobiografica di un ragazzino che fugge da scuola e si trova coinvolto in avventure di ogni tipo cercando di intraprendere una scalata sociale. Il secondo romanzo di Arlt, è stato “Los siete locos” (I sette pazzi) nel 1929, il terzo “Los Lanzallamas” (I lanciafiamme) nel 1931.
Al bar Ligure Marino Magliani presenterà il suo ultimo romanzo, “Il cannocchiale del tenente Dumont” (L’Orma editore). «Perché disertare non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare è qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera. Un grado. A uno dovrebbero scriverlo sulla pietra». Marino Magliani vive tra la sua Liguria e la costa olandese, dove scrive e traduce. E’ autore di numerosi libri tra cui “Quella notte a Dolcedo” (Longanesi 2008), “L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi” (Exorma 2017) e “Prima che te lo dicano altri” ( Chiare lettere 2018).
Porta la firma di Marino Magliani, insieme a quella di Riccardo Ferrazzi, la traduzione dallo spagnolo del libro di Sylvia Saitta appena pubblicato da Miraggi Edizioni.
Il libro intitolato “Arlt. Lo scrittore nel bosco di mattoni. Una biografia” racconta la storia dello scrittore e giornalista di Buenos Aires, in principio incompreso, ma oggi considerato uno dei padri della letteratura argentina. Magliani, apprezzato narratore, è da sempre attivo anche come traduttore, sia dallo spagnolo che dall’olandese. Noè Jitrik, Haroldo Conti, José Luis Cancho e lo stesso Arlt sono alcuni degli scrittori tradotti dall’autore di Prelà.
Dopo una lite il protagonista del romanzo riceve una telefonata:”Chiamo dal quinto Distretto di Polizia….”
“E?”
“E c’è che abbiamo un verbale del 2008 a suo nome…Lei sa di cosa si tratta?
“Non ne ho idea “
“ Il verbale che ho qui notifica il suo decesso…qui c’è scritto che lei è morto “
Così viene comunicata la notizia della propria scomparsa. Di più: questa sua dipartita è cosa ormai datata e possiede tutta la veridicità dell’atto certificato.
Il fatto, anomalo in sé, richiede una spiegazione che sia plausibile e convincente: anche perché chi scompare, oltre a essere il protagonista del romanzo, porta anche il nome del suo autore: Joao Paulo Cuenca.
Per risolvere questo mistero il protagonista si muove attraverso Rio de Janeiro, tra le macerie di quella che la città fu, nuove costruzioni in vista delle Olimpiadi, salotti e feste di giornalisti, scrittori, teatranti, attrici di soap opera, favelas guardiane di ogni orizzonte, arroccate sulle colline, alla ricerca della donna che ha denunciato la sua morte.Procedendo nella narrazione ci si accorge che il mistero diventa sempre più fitto, ci si perde di frequente, insieme all’io narrante, che oltre a quella della sua morte ha pure l’angoscia di non riuscire a finire il suo romanzo, il blocco della pagina bianca.
Personaggio fittizio e reale, il J.P. Cuenca accompagna il lettore attraverso i cantieri aperti della metropoli carioca, è un essere vivo, diretto e feroce. Anche verso la storia del proprio Paese dal quale spesso vola via “Questo posto è un cazzo di Poltergeist. Ogni volta che c’è un cantiere qui nel Centro, e ne avete aperti un sacco a causa delle Olimpiadi, si trovano spessissimo cadaveri e ossa spezzate, come nel Cimitero dei Nuovi Neri nella zona del porto.”
Questa dichiarata morte, non porta di fatto all’esito più scontato, ossia la scelta di scrivere un thriller o un noir, nonostante l’ambientazione sia nelle atmosfere dense di una Rio de Janeiro in fermento , vivissima di voci e corpi giovani in perenne movimento – che ben si presterebbe alle vicende poliziesche e ne occupa invece giusto le prime pagine.
La comunicazione della sua scomparsa gli impone di intraprendere un viaggio in cerca di chiarezza: è solo attraverso la sua” morte” che potrà (ri)costruire la propria identità come uomo e come scrittore. Inizia quindi un suo pellegrinaggio che lo porterà attraverso corridoi di archivi metallici” polverosi antri di enti assortiti di ripetuto squallore, “Tutti quegli archivi, che circondavano tavoli e sedie lasciando poche pareti a vista, contenevano racconti il cui ingrediente comune erano i dissapori tra gli esseri umani della mia città”.
Tanto più cha la ricerca del sé dipartito deve tener presente la vita che va avanti, con gli impegni del presente.
All’epoca di questa morte presunta lui era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni”.
È un rompicapo che lo perseguita e dal quale tenta di fuggire smodatamente.
È c’è pure un romanzo che deve finire.
Una scrittura avvincente e molto interessante quella di Cuenca, una storia intrigante che fa tenere l’attenzione fino alla fine.
Del compianto Roberto Bolaño, lo scrittore Rodrigo Fresán ricorda la frenesia della scrittura sempre ai margini dell’abisso, sempre lanciata dall’ultima frontiera: quella voglia di raccontare l’utopia che solo nella letteratura può diventare reale. Alan Pauls ne decanta la poetica dell’assenza: riuscire a raccontare e fare poesia parlando di presunti poeti particolarmente impegnati, politicamente impegnati, umanamente impegnati (I detective selvaggi) senza che di loro esista nemmeno un’opera. Si tratta di un’overdose prima ancora di un’intossicazione. Bolaño riesce attraverso i suoi racconti a creare una vera etnografia di personaggi inesistenti, di quadri e di possibili vite, nelle quali si è frammentato e suddiviso. L’amico e scrittore Enrique Vila-Matas, azzardando paragoni con Franz Kafka, Marguerite Duras e George Perec, ricorda l’attività fervida e ricca del Bolaño narratore che riesce a servirci le sue storie come un piatto forte della Cina distrutta, cioè con la stessa voracità che abbiamo di solito quando consumiamo un piatto originale, forte, serio e senza mezze tinte: bisogna conoscere e raccontare la tristezza della vita, ma saperla apprezzare ed amare anche con quella intensità così forte da farci dire che abbiamo davvero vissuto…
Roberto Bolaño è stato uno degli scrittori cileni, sudamericani, latini e mondiali più importanti della fine del XX secolo: nato in Cile, vissuto in Messico, esploso in Spagna, ha racchiuso nella sua scrittura la frenesia di chi ha fatto della letteratura un campo di sopravvivenza oltre ogni limite umano e fisico: “La letteratura somiglia molto alla lotta dei samurai, ma un samurai non combatte contro un altro samurai: combatte contro un mostro. Generalmente, poi, sa che sarà sconfitto. Avere il coraggio, sapendo fin da prima che sarai sconfitto, e uscire a combattere: questo è la letteratura”. Nella sua scrittura l’impossibile prende corpo e con lui tutte le nostre paure, i pregiudizi, le imperfezioni, le passioni ed i desideri che nel mondo cosiddetto normale non siamo in grado di concepire. Il volume, corposo, composto da quasi 500 pagine, raccoglie più di 25 contributi, un’amplia bibliografia sulle opere dello scrittore cileno e di tutte le opere citate. Dopo la presentazione di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, i contributi sono divisi in quattro sezioni: la percezione del mondo, la sua politica, la poetica e le sue altre genealogie. Difficile, se non impossibile da catalogare, Roberto Bolaño sfugge ad ogni tentativo di critica positivistica: come dimostra eloquentemente nel Discorso di Caracas (introduzione al volume come sezione Le sue parole, I) e nell’intervista inedita che chiude l’intera raccolta (sezione Le sue parole, II), l’artista cileno non ha interesse a trovare una collocazione nella storia della letteratura, non ha interesse ad essere misurato con modelli, antecedenti o correnti letterarie, ha come obiettivo esprimere ed esprimersi nel modo più diretto possibile, nel tentativo di realizzare una narrazione che parli intanto a se stesso, quindi ai suoi lettori. L’iniziativa edita da Miraggi è importante e meritoria, perché permette all’apprendista lettore di avere sottomano tutti gli strumenti utili per sapersi orientare nella “galassia Roberto Bolaño”, ma anche al lettore di culto di potersi confrontare con interpretazioni delle più svariate su quell’arte di raccontare che oggi tanto manca a molti.
Scongiurare la fine. Vita estetica e parola etica in Roberto Bolaño
E nonostante tutto, le parole praticavano più l’arte di nascondere che l’arte di svelare. O forse svelavano qualcosa. Che cosa?, le confesso che non lo so.
Roberto Bolaño, 2666
I. Uno scrittore di transizione
Roberto Bolaño è ormai universalmente riconosciuto come uno dei massimi scrittori della narrativa contemporanea mondiale. Negli ultimi trent’anni la scena letteraria internazionale ha visto crescere esponenzialmente la fama dello scrittore cileno che si è imposto come pilastro della letteratura globale del XXI secolo. Infatti, pur avendo vissuto nel nuovo millennio per poco più di tre anni (muore nel 2003, poco più che cinquantenne, per insufficienza epatica mentre era in attesa per un trapianto di fegato), Bolaño continua ad influenzare prepotentemente l’immaginario dei lettori e degli scrittori dei giorni nostri. Quest’influenza negli anni ha assunto la forma di una vera e propria mitografia para-istituzionale: stencil, murales, volumi celebrativi, foto e interviste inedite, hanno iniziato a proliferare dopo la sua morte, alimentando l’immaginario etico ed estetico che già lo scrittore aveva contribuito a fondare e che, forse troppo spesso, ha deformato molti aspetti delle implicazioni esegetiche delle sue opere. Quando la mitografia popolare, infatti, si istituzionalizza, diventa allora banalizzabile e il senso ne viene distorto. Di conseguenza, per compiere una lucida analisi del corpus letterario di questo autore, imprescindibile per la comprensione della letteratura di fine millennio (e dell’inizio di quello successivo), bisogna incrinare il più possibile la stratificazione mitografica che lo avvolge e confrontarsi con gli aspetti più nudi dei suoi testi; ovviamente, fin quando ciò è possibile, fin quando cioè, mitologia etica e creazione estetica non risultino totalmente indissolubili all’interno della riflessione poetica. Probabilmente, per iniziare a parlare dell’opera di Bolaño, si può considerare l’operazione che Raffaele Donnarumma compie nel suo studio intitolato Ipermodernità, con la quale colloca il cileno, insieme a David Foster Wallace, in una «zona di transito»[1] che segna il passaggio dalle modalità artistiche postmoderne ormai in esaurimento, alle tendenze del nuovo millennio. In effetti, il ruolo di “scrittore di transizione” ben si addice a descrivere la valenza culturale di Bolaño, soprattutto se si considera, da un lato, la robusta tendenza alla derealizzazione e all’utilizzo di quelle che Donnarumma chiama «strategie di irrisione del senso»[2] e, dall’altro, l’inesauribile necessità di sperimentazione narrativa, tramite la quale Bolaño ha cercato di innovare la duratura lezione dei grandi maestri sudamericani, Borges e Cortázar, non individuando però il principio ordinatore dei sui testi nella costruzione di vorticosi universi labirintici, volti alla testualizzazione del mondo circostante, bensì nell’indagine ostinata della realtà, nonostante l’ormai evidente impossibilità di sintesi. Nel solco tracciato da questa prospettiva, lo scopo di questo saggio è, quindi, quello di soffermarsi sulla funzione traghettatrice svolta da Bolaño, rapportandone la produzione all’ambiente socio-culturale di fine secolo, saturato da un senso di esaurimento imminente, cercando di individuare quale ruolo può occupare la letteratura nella percezione del mondo di uno scrittore che si sente ai confini ultimi della storia, e mostrare che proprio l’esercizio della letteratura risulta essere il mezzo per saltare il vuoto della fine e proiettarsi verso ciò che c’è dopo.
II. Fine della storia, postdittatura e letteratura dell’apocalisse
Della fine, del fatto che qualcosa si sta gradualmente esaurendo, nell’esperienza letteraria di Bolaño si può parlare in diversi modi. Il primo, e più immediato, è la sua biografia. Infatti, pur essendo stato principalmente un poeta per gran parte della sua vita (dell’avanguardia infrarealista della metà degli anni Settanta, alle poesie della permanenza catalana scritte tra gli anni Ottanta e il 1998, confluite nella raccolta I cani romantici, che rappresentano una vera e propria fucina di temi e spunti per I detective selvaggi) Bolaño si è imposto al pubblico e alla critica per la sua produzione narrativa, la quale ha occupato unicamente gli ultimi dieci anni della sua vita. Questo dato è indicativo poiché ci costringe a priori a tenere in conto che, il Bolaño che più ha influito sul panorama culturale è un uomo malato (la cirrosi epatica gli era stata diagnosticata nel 1992), che ha ormai familiarizzato con l’idea che la sua vita stia per concludersi. Ciò, quindi, ci permette di compiere alcune considerazioni riguardo le opere che occuparono gli ultimi anni della sua vita, rilevando l’aura da messaggio definitivo ma intrinsecamente incompleto che le attraversa, o ad esempio, interpretando catarticamente l’uscita di scena di Arturo Belano, alter ego ricorrente dell’autore, alla fine della seconda sezione de I detective selvaggi. Ma di certo più interessante è discutere del contesto storico che partorisce le due opere che caleranno il sipario sulla sua carriera letteraria, nonché sulla sua vita. In questo senso non si può ignorare il dittico “fine del secolo/fine della dittatura” che percorre e sottende tutta la produzione di Bolaño. Per il primo termine del sistema, bisogna considerare che il crepuscolo del secolo che sta finendo getta gli ultimi raggi di luce su un intero millennio di storia umana: Fukuyama teorizza la fine della storia, il raggiungimento del culmine della società umana, del suo assetto politico-sociale, un limite invalicabile oltre il quale non si può più andare, un limite che significa esaurimento o regressione. Nonostante questo mito sia stato prontamente smentito dal corso degli eventi (probabilmente anche prima del fatidico 11 Settembre), difficilmente può essere trascurato in un bilancio generale del periodo storico e della consapevolezza generalizzata della necessità di confrontarsi con la fine di un’era. Per parlare del secondo, bisogna ricordare che nel 1990 termina il regime dittatoriale di Pinochet in Cile, ponendo il problema di una riflessione approfondita sulla memoria e sulla narrazione di un periodo storico che ha sfigurato un paese e milioni di esistenze. Il connubio di questi due aspetti genera un clima culturale di diffusa malinconia che, secondo una dinamica tratteggiata da Paula Aguilar, diventa una posizione intellettuale, presentandosi «come possibilità estetica incarnata nella percezione disincantata di congetture storiche e racconti della storia, come visione del mondo segnata dalle cadute di fine secolo/fine dittatura»[3], dalla quale deriva inesorabilmente «il rovescio di una letteratura ottimista dalle tonalità eroiche, […] una narrativa di fine secolo attraversata dal fallimento delle grandi narrazioni: il notturno, la malinconia e il crepuscolo come simboli del presente»[4]. Allora, è solo davanti alla fine della società, alla dissoluzione di ogni sistema socio-politico in un vortice di violenza e malinconia, che possiamo spiegarci perché Edmundo Paz Soldán parla di «letteratura e apocalisse»[5], ponendo l’attenzione sull’apocalisse culturale che sottende l’opera di Bolaño, il cui esito più immediato è l’articolazione di un mondo scosso da una sorta di violenza congenita, come se questa fosse stata l’unica cosa in grado di resistere alla disgregazione della realtà. Simulacro della marcescenza del mondo, può essere considerata la città di Santa Teresa, luogo simbolicamente importante de I detective selvaggi e perno intorno alla quale ruota tutta la struttura di 2666. Le cinque parti indipendenti che compongono l’enorme romanzo, infatti, vedono ruotare una serie di personaggi di varia natura – poliziotti, giornalisti, critici letterari, intellettuali, operai e prostitute – intorno a due assi fondamentali: la ricerca di uno sfuggente scrittore tedesco conosciuto con il nome d’arte di Benno von Arcimboldi, considerato come uno dei più grandi geni letterari del Novecento e l’assassinio seriale di oltre duecento donne nel corso degli anni Novanta nella città di Santa Teresa, luogo nel quale tutte le storie andranno a congiungersi. Posta in un luogo simbolico, come il confine tra Stati Uniti e Messico, nel quale avviene una brusca transizione, nel giro di pochi chilometri, tra primo e terzo mondo, evidenziando lo squilibrio costante della realtà che si cerca di rappresentare, e delineandosi come una sorta di spazio selvaggio nel quale non vige alcuna legge morale, Santa Teresa è completamente in balia di quella parte d’umanità spregevole il cui «modo di concepire il mondo è la morte della società contemporanea»[6], ma che sembra effettivamente l’unica rimasta. Un tipo di umanità che decreta la «sconfitta della legge, della civiltà»[7] – dal momento che «l’impossibilità di sottrarsi ai pregiudizi sessisti e razzisti ha una relazione diretta con l’impossibilità di risolvere i crimini»[8] – diventando, di conseguenza, lo sbocco ideologico di tutto il XX secolo. Ciò è lampante in alcune pagine perturbanti della quarta sezione dell’opera (La parte dei delitti), come quella nella quale un manipolo di poliziotti si raduna in una tavola calda per la colazione dopo una notte di indagini, intrattenendosi con una lunga serie di barzellette sessiste (enumerate in modo quasi cinico dall’autore per provocare un forte senso di disgusto), o come quella che descrive la violenza di gruppo che, ancora una volta, dei poliziotti compiono nei confronti di alcune prostitute arrestate: distinguere i poliziotti dagli assassini, la legge dal crimine, il bene dal male, non è più possibile:
Nelle altre celle i poliziotti stavano violentando le puttane della Riviera. Ciao, Lalito, disse Epifanio, ti unisci alla baldoria? No disse Lalo Cura, e tu? Nemmeno io disse Epifanio. Quando si stancarono di guardare uscirono tutti e due a prendere il fresco in strada. Cos’hanno fatto quelle puttane, chiese Lalo. Sembra che abbiano liquidato una compagna, disse Epifanio. Lalo rimase in silenzio. La brezza che soffiava a quell’ora per le strade di Santa Teresa era davvero fresca. La luna, piena di cicatrici, splendeva ancora nel cielo.[9]
Quello che vede e rappresenta Bolaño, quindi, è un mondo polimorfo, di confini sfumati e indistinzioni. Un mondo che, sulla soglia della fine, vede le sue certezze disperdersi in un vortice di significati inafferrabili e sensi discordanti.
III. Vita artistica e detective
Interrogandoci riguardo la funzione effettiva che Bolaño attribuisce alla letteratura (e alla scrittura), è utile partire da uno spunto critico che permette di compiere alcune considerazioni interessanti. Rodrigo Fresán, in un saggio intitolato Il samurai romantico, riporta un passaggio di un’intervista in cui Bolaño espone la sua visione della letteratura con una delle iperboliche metafore che gli sono proprie.
La letteratura somiglia molto alla lotta dei samurai, ma un samurai non combatte contro un altro samurai: combatte contro un mostro. Generalmente, poi, sa che sarà sconfitto. Avere il coraggio, sapendo fin da prima che sarai sconfitto, e uscire a combattere: questa è letteratura.[10]
Successivamente Fresán riflette su questa citazione:
l’opera di Bolaño […] è una di quelle che meglio obbliga […] a una quasi irrefrenabile necessità di leggere, scrivere e intendere questo lavoro come un estremo combattimento, un viaggio definitivo, un’avventura dalla quale non c’è ritorno, perché termina solo quando si esala l’ultimo respiro e si annota l’ultima parola.[11]
A questo punto bisogna considerare che, per quanto i due passi siano contaminati dall’aura mitica creatasi intorno alla figura di Bolaño, o che comunque offrano una visione poetica della scrittura all’estremo dell’autore, oltrepassando la coltre di mitografia è possibile evidenziare un dato sensibile: l’inscindibilità della componente etica da quella estetica in un’analisi della letteratura del cileno. Istituire un rapporto dialogico fra queste due istanze, capire come lavorano e come interagiscono è, infatti, la chiave per svelare i significati più profondi dell’operazione poetica di Bolaño e comprenderne gli aspetti più moderni. Dall’opera di Bolaño, emerge prepotentemente l’idea che l’arte estendendosi, estremizzandosi, inglobando qualsiasi cosa e connotandosi come unico motore della vita dei personaggi, paradossalmente perda qualsiasi autoreferenzialità: diventa un modo di stare al mondo e processare la realtà. La vita viene concepita principalmente come “vita artistica”, intesa non come chiusura estetica esclusiva, alla maniera del dandy o dell’esteta, bensì come via per aprire un’indagine sul mondo del più ampio raggio possibile. Bolaño nei suoi scritti parla di arte, ma soprattutto di letteratura, ricercando l’essenza del reale per interpretarlo e, difatti, non è possibile limitare le lunghe digressioni di natura quasi saggistica, strabordanti di nomi di opere e autori di qualsiasi provenienza geografica o culturale, ad un mero gioco di specchi, ma parlare di letteratura diventa un modo per parlare di esseri umani. Basti pensare a due passi chiarificatori de I detective selvaggi. Nel primo, l’eccentrico poeta omosessuale Ernesto San Epifanio riscrive un canone poetico transnazionale nel quale confluiscono anche diversi poeti italiani (Pavese, Sanguineti, Leopardi, Montale, per citarne alcuni), usando categorie molto peculiari che, evidentemente, valicano il semplice giudizio estetico per ricercare significati di altra matrice.
Nell’immenso oceano della poesia distingueva varie correnti: frocioni, froci, frocetti, checche, culi, finocchi, efebi e narcisi. Le due correnti maggiori, tuttavia, erano quelle dei frocioni e dei froci. Walt Whitman, per esempio, era un poeta frocione. Pablo Neruda, un poeta frocio. William Blake era, senz’ombra di dubbio, un frocione, e Octavio Paz un frocio. Borges era un efebo, cioè poteva diventare all’improvviso frocione e all’improvviso rivelarsi semplicemente asessuale.[12]
Nel secondo, Bolaño dedica un intero capitolo della sezione mediana dell’opera (nella quale vengono raccolte quasi cinquecento pagine di testimonianze fittizie che ricostruiscono asistematicamente la vita dei due protagonisti, Arturo Belano e Ulises Lima) alla voce di un manipolo di scrittori, esponenti di diverse correnti, presenti alla Fiera del libro di Madrid del 1994, riflettendo sullo stato di asservimento alle regole del mercato della letteratura e degli intellettuali del tempo: in uno scenario del genere, anche il poeta Pelayo Barrendoain, affetto da diversi disturbi psichici, riflette sul fatto che sia la sua stessa malattia a dargli successo e guadagno, poiché è ciò che attira i suoi lettori, «quelli a pezzi, quelli massacrati»[13] e alimentati dalla sua follia. Bolaño quindi, parla molto spesso di letteratura, ma soprattutto di vita letteraria. Nelle sue opere assistiamo ad un proliferare di personaggi artisti, spesso posti ai limiti della società, che come modo di vivere conoscono soltanto la vita artistica. Inseguendo l’arte, inseguendo quel sogno che l’autore esplica nella poesia I cani romantici[14], che apre la raccolta omonima, essi fanno esperienza del mondo, indagano e riflettono su dinamiche che trascendono l’ambito artistico. I due protagonisti de I detective selvaggi si mettono in viaggio per le aride strade del deserto del Sonora alla ricerca della fantomatica Cesárea Tinajero, poetessa fondatrice del movimento realvisceralista, di cui i due si proclamano nuovi pionieri. Quando la trovano ne causano la morte e rimangono condannati a vagare per il resto delle loro vite orfani di un riferimento, poetico ed etico, e di un sogno. Infatti con la morte di Cesárea (posta nell’ultima sezione, cronologicamente precedente alla seconda, come chiave di lettura finale di tutto ciò che verrà dopo), ma più probabilmente con la visione dell’oceano di solitudine e rimpianti in cui si è arenata la rivoluzione che essa ha tentato, svanisce anche l’utopia poetica che avevano costruito. La morte della poetessa sarà l’evento che darà il via al lungo vagabondare dei due realvisceralisti, che continueranno a inseguire per anni qualcosa che sanno non esistere, consapevoli della vanità della loro ricerca. Sulla falsa riga di Arturo Belano e Ulises Lima, i quattro critici protagonisti de La parte dei critici, prima sezione di 2666, dedicano tutta la loro carriera accademica, ma anche tutta la loro vita, allo studio della produzione di Benno von Arcimboldi. Per caso, grazie alle informazioni di uno studente messicano, riescono a capire che lo scrittore si trova proprio a Santa Teresa e, tre di loro, decidono di intraprendere un viaggio alla volta del paese centroamericano. Dopo svariati mesi di permanenza, in cui la ricerca infruttuosa della sfuggente personalità di Arcimboldi passa in secondo piano, sopraffatta dal vortice di esperienze in cui vengono avviluppati i protagonisti, una di loro, Liz Norton, decide di andare via, capendo di essere innamorata del critico rimasto a casa, Piero Morini, e i due reduci, Pellettier e Espinoza, in procinto di ripartire per l’Europa, si fermano davanti alla consapevolezza del fallimento della loro ricerca; ci sono andati vicino, non ci andranno mai più vicino, e questo deve bastargli. «Arcimboldi è qua», disse Pellettier, «e noi siamo qua, e non gli arriveremo mai più vicino di così»[15]. Proprio come Lima e Belano, i due critici devono arrendersi davanti all’insolvenza (o alla riuscita misera) della loro inchiesta, la quale non li vedrà mai arrivare al raggiungimento della verità. In quest’ottica, assume allora un ruolo rilevante la costruzione da detective story che hanno i testi di Bolaño, i quali ruotano spesso intorno ad un enigma da risolvere, facendo emergere la figura tutta concettuale del detective, poiché quasi sempre a rivestirla sono dei letterati. Il detective, colui che ricerca e indaga sulla verità in una realtà che assume dei connotati sempre più opachi, si sovrappone all’artista (secondo una dinamica non completamente nuova, tanto che volendo è possibile riscontrarne un archetipo addirittura nel componimento di Baudelaire Una martire, nel quale il poeta descrive una sorta di scena del crimine, metaforizzando la degenerazione della nuova realtà di cui egli è testimone). Da elemento unificante, nei meccanismi del giallo classico, il detective diventa colui che assiste alla dissoluzione e ne prende atto, l’enigma del suo tempo non può essere risolto, tutto ciò che rimane è lo sforzo dell’indagine; ed è significativo che a compierlo siano proprio degli intellettuali, molto spesso proprio degli scrittori.
IV. La parola per quello che viene dopo
Avviandoci verso la conclusione, è interessante notare che la ricaduta formale di questo sostrato morale volto all’indagine perenne del mondo, prenda corpo nella produzione di quelli che potremmo definire veri e propri romanzi-fiume, delle macchine narrative rizomatiche che si protraggono per svariate centinaia di pagine, capaci di inglobare una quantità impressionante di materiali e modalità narrative. Le creature di Bolaño, infatti, sono scandite da un’incessante necessità di ricerca che si esplica nella costante tendenza alla digressione. Come suggerisce Carlo Tirinanzi De Medici,
in questi romanzi la lunghezza è un elemento essenziale per permettere di rappresentare il mondo in cui ci muoviamo: un mondo enorme e dispersivo, entro cui i personaggi si perdono, in cui le storie si moltiplicano e s’intrecciano secondo un principio di pluralità e coesistenza sincrona.[16]
Di conseguenza, stride ma non risulta inadeguato passare, nel giro di poche pagine, dalla descrizione cronachistica di decine di omicidi ai consigli per una sana alimentazione impartiti da una cartomante in un programma televisivo, o da paragrafi dominati dalle informazioni riguardanti Animali e piante del litorale europeo (il primo libro mai letto da Arcimboldi), alla descrizione della seconda guerra mondiale. Veri e propri disegni geometrici che tentano di ordinare il canone filosofico europeo o riflessioni riguardanti i ready made di Duchamp (entrambi in La parte di Amalfitano), convivono con inserti metanarrativi e lunghe narrazioni che si incastrano all’interno dell’esoscheletro principale, come quella riguardante lo scrittore fittizio Boris Ansky. Massimalisticamente, la scrittura di Bolaño tende a saturare l’orizzonte del lettore con la parola, l’unico strumento adattato a scandagliare le pieghe della realtà. La parola consente l’esplorazione di un mondo ormai disorganico, quindi non stupisce che il soggetto della rappresentazione risulti ineluttabilmente deformato. I personaggi, soprattutto quelli di 2666, vivono una realtà costantemente esposta al rischio di rarefarsi, in cui si aprono sistematicamente squarci onirici che sembrano trascenderla. I connotati si deturpano, le azioni si estremizzano (come quella del pittore Edwin Johns, che si amputa la mano con cui dipinge e la pone sulla sua ultima opera per raggiungere gloria e denaro) e nel reale si formano spazi di illogicità pura, basti pensare alla voce con cui Amalfitano dialoga per gran parte della sezione dedicatagli, o ai sogni e alle visioni che assalgono tanti altri personaggi. Come nota, infatti, Peter Elmore, il realismo di Bolaño si muove «su un piano che non è meramente empirico, ma anche simbolico e psichico»[17] e di conseguenza «il mostruoso non è una deformazione soggettiva del reale, ma la sua forma più arcana e terribile»[18]. Testualizzare il mondo allora, non è più, alla maniera postmoderna, un meccanismo deformante concepito intrinsecamente alla rappresentazione, volto alla creazione di strutture labirintiche che esauriscono in loro stesse il proprio senso, ma è rappresentazione pura: presa di coscienza di una realtà polimorfa sino alla radice. Dunque, è quest’indagine ostinata, al cui servizio pone tutta la sua opera, ad essere l’aspetto più significativo nell’ambito di una proiezione dell’esperienza letteraria di Bolaño verso il terzo millennio, «è in questa ricerca incessante, vana e necessaria che sta il vero senso della sua modernità»[19]. La valenza culturale di Bolaño, in conclusione, sta nell’essersi riuscito a confrontare con la dissoluzione di una realtà ormai impossibile da circoscrivere, non approdando a conclusioni nichiliste, ma anzi, trovando nello sforzo di sintetizzare ciò che è ormai definitivamente franto, una via da percorrere, un modo di esplorare l’apocalisse nel tentativo stesso di scongiurarla.
Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, Bologna, il Mulino, 2014, p. 109. ↑
Paula Aguilar, «Povera memoria la mia». Letteratura e malinconia nel contesto della postdittatura cilena, in Bolaño selvaggio, a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, traduzioni di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni, Torino, Miraggi, 2019, p. 105. ↑
Riporto qui i versi più significativi ai fini della presente trattazione: «A quel tempo avevo vent’anni | ed ero pazzo. | Avevo perso un paese | ma guadagnato un sogno». (Id., I cani romantici, traduzione di I. Carmignani, Roma, SUR, 2018, p. 7). ↑
Carlo Tirinanzi De Medici, Mondo epico e mondo romanzesco nel sistema narrativo contemporaneo, in L’epica dopo il moderno (1945 – 2015), a cura di Francesco de Cristofaro, Pisa, Pacini, 2017, p. 64. ↑
Peter Elmore, 2666: l’autorialità al tempo limite, in Bolaño selvaggio, cit., p. 232. ↑
Libri, dall’Argentina arriva una sfida avvincente: ‘La pianura degli scherzi’
“Muoveva all’attacco, prendeva fiato; apriva le gambe e la fessura vaginale si dilatava formando un cerchio che lasciava affiorare un uovo piuttosto appuntito, che era la testa del bambino. Dopo ogni spinta sembrava che la testa sarebbe uscita: minacciava, ma non usciva; arretrava come il rinculo di un fucile, il che per la partoriente significava il rinnovo centuplicato di ogni dolore. Allora, il Folle Rodríguez, nudo, con la terribile frusta attorno alla vita – il Folle Rodríguez, padre di quello sgorbio infingardo, precisiamo – piantava i suoi gomiti nel ventre della donna facendo sempre più forza. Eppure, Carla Greta Terón non partoriva. Ed era evidente che ogniqualvolta quello sgorbio attuava la sua agile ritirata, lacerava – in definitiva – le dolci viscere materne, la dolce pancia che lo conteneva, che non riusciva a vomitarlo. Veniva a crearsi una nuova lacerazione nel suo otre“.
Uscito per Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (progetto curato in collaborazione con Francesco Forlani e Francesco Ruggiero, che raccoglie traduzioni di autori di alta qualità letteraria che difficilmente arriverebbero al lettore italiano del mercato editoriale mainstream), La pianura degli scherzi, dell’argentino Osvaldo Lamborghini (a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto) è un testo (o meglio, una sequenza di testi da capogiro) complesso, a tratti difficile. Una sfida avvincente per un lettore. Un gioco infinito di nomi e parole, un linguaggio che passa dal formale all’informale con una naturalezza spiazzante, un registro gergale e un registro aulico che si ritrovano a battagliare, a lusingarsi l’un l’altro.
Ne La pianura degli scherzi convivono le innumerevoli influenze stilistiche che hanno formato lo stile originale e unico di Lamborghini, uno stile che sembra rifiutare la linearità della prosa tradizionale, e che trasforma la psicoanalisi freudiana, il post-strutturalismo di Lacan e il libertinismo del marchese de Sade in qualcosa di nuovo, gaudente, viscerale. Uno stile che assorbe il lettore. Leggendolo, tre autori mi sono venuti in mente, con le enormi e sostanziali differenze narrative e lessicologiche che li dividono, ma accomunati dallo stesso coraggio di arrogarsi il diritto di essere se stessi: Pedro Lemebel, Severo Sarduy e Louis-Ferdinand Céline.
“Perché il godimento era ormai stato decretato lì, per decreto, in quei pantaloncini sorretti da una sola bretella di un cencio grigio, lercio e sfilacciato. Esteban gliela strappò e restarono all’aria le natiche senza mutande amaramente malnutrite del bambino proletario. Il godimento era lì, ormai decretato, ed Esteban, Esteban con una sola manata strappò la lurida bretella. Ma fu Gustavo a gettarglisi addosso per primo, il primo ad avventarsi sul corpicino di Storpiani! Gustavo, che sarebbe poi stato il nostro leader nell’età matura, in tutti questi anni di fallita, storpia passione: lui per primo conficcò il vetro triangolare lì dove cominciava lo spacco del culo di Storpiani! e ne prolungò il taglio naturale. Schizzi di sangue si sparsero in ogni direzione, illuminati dal sole, e il buco dell’ano si inumidì senza fatica come per facilitare l’atto che preparavamo. E fu Gustavo, Gustavo a trafiggerlo per primo col suo fallo, enorme per la sua età, troppo affilato per l’amore“.
L’opera di Osvaldo Lamborghini non è facilmente raggruppabile in categorie generiche, poiché abbraccia e combina elementi di poesia, prosa e teatro. Figura radicale e a tratti clandestina nell’Argentina peronista e post-peronista, una delle anime delle avanguardie del Paese sudamericano prima che il regime militare devastasse un intero tessuto culturale e sociale e facesse diventare di gran moda i voli di sola andata sul Rio della Plata e sull’Oceano Atlantico, Lamborghini con il suo neobarocco per il volgo, le sue eccentricità linguistiche, le sue divertenti trovate, il ritmo forsennato delle sue parole è senza dubbio uno scrittore da scoprire, e La pianura degli scherzi un’opera che va senz’altro letta.
“In sospeso, il prezzo del pane. In sospeso, la quotazione del miele delle api del Libano, che non libano più. «Riso con latte? Vogliamo tornare a Treblinka!». Ai palestinesi manca qualcosa, è il Dottor Mengele che manca ai palestinesi? È terribile il dolore di (questo) amore. È terribile il fallimento di un’arte amata, per esempio questa. Ma niente di equiparabile all’espulsione dal partito. La porta si chiude, camminare, giungere fino all’angolo. E fino all’angolo si giunge, fino a quest’angolo. Punto: divieto, il semaforo rosso, di un rosso vivo, un fuoco che estrarrebbe nei dal nulla. Ogni neo sarebbe un nuovo principio (solare). In quest’angolo si mozzica il filtro della sigaretta. Una poltrona in un cinema: la guerra. La Germania intera si mobilita. È formidabile. L’Argentina (Argentina, Argentina!) specula sulla caduta dell’impero britannico. La Polonia schiacciata, così è la vita. Silenzio. Silenzio nell’oscurità, oscurità nel silenzio, una mano indifferente (…) I cingoli dei carrarmati e la lampo del pantalone lottano contro ostacoli simili, imprevedibili monticelli, fossi. Ma comunque: comunque. Qui il pene eretto, lì la svastica che sormonta l’Arco di Trionfo (di catrame). Lo stesso grido di ricchioni percorre tutto il pianeta. Stiamo trapiantando organi. Le Malvine nel cuore di Buenos Aires. Nel chilometro Zero. Il debito esterno in un bosco pietrificato“.
Di lui si è detto molto. E letto molto poco. Quel poco che ha scagliato come bordi di lametta lungo vent’anni di letteratura. Contenuti a stento nell’astuccio dei suoi quarantacinque. Osvaldo Lamborghini, scrittore argentino morto appena adulto nel 1985, ha generato brevi libri di brevi pagine. Che sono stati sufficienti per imbalsamare una leggenda pronta non solo a sopravvivergli, ma a guardarci ancora oggi con occhi saettanti, con quel lampo che sfugge alla caccia e che resta bestiale. La casa editrice Miraggi Edizioni, in un’epica avventura chiamata traduzione, ci ha di recente restituito una raccolta dei suoi testi migliori intitolata La Pianura degli scherzi (2019).
E la nota dei traduttori Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto ha da subito puntualizzato il rischio. Quello di affastellare dizionari, note biografiche, aneddoti e spunti come pietre insofferenti all’incastro. E restare tramortiti da cocci che s’ignorano. È possibile documentarsi, apprendere ciò che asseriva di lui César Aira, che lo ha conosciuto senza mai riuscire a circumnavigarlo, accettando il fatto che esistessero coste aliene e intemerate sepolte sotto le lenzuola dove Osvaldo mangiava, scriveva e stemperava le sue notti.
Sappiamo che si autodefiniva una “donna con il pene”, che verniciava di rossetto la sua etero-bocca con cui ingollava psicofarmaci e alcol per fornire al suo stomaco una trama di altri appetiti. E comunque non basta a tracciarne un contorno. Non rimane che affogarci nell’acquario dei suoi scritti. Sfiorare l’ipossia a poi tornare a prendere aria. E comunque non afferrarlo mai. Ricominciare all’infinito e stordirsi di magia.
Sì, perché Lamborghini è un autore molto poco “incantevole”, ma capace di sortilegi. Le sue frasi sono emissioni proteiformi, immediate e virulente, come reazioni organiche.
Un altro elemento raccontato di lui era che non correggesse mai quello che componeva, che la forma primigenia fosse soltanto la migliore possibile, la sola pensata e rovesciata sulla carta. Tradurlo ha significato avere a che fare con detonazioni continue. Materia piroclastica e non maneggiabile. E leggerlo vuol dire altrettanta fatica. Vuol dire scontrarsi con le schegge della sua lingua classica e infernale, in grado di attingere ad ogni tipo di registro per poi sbrecciarlo e vederlo tremare. Lamborghini erode le forme espressive, le intacca, le consuma, le lascia esplodere e si diverte a giocare con i suoi residui. Imbratta ogni stanza del dire con la mattanza della sua creazione.
Alcune parole vengono invertite, rivoltate, altre coniate, altre segate a metà per rendere autonome entrambe le parti. Per tranciare la coda alla lucertola e sapere che si muoverà ancora. Per questo non è affatto semplice offrire una sinossi dei suoi testi. A bordo dei quali ci si lascia fluttuare, perché non c’è quasi nulla che sia addomesticabile, che rientri nell’involucro di un riassunto lineare.
Si inizia con La causa giusta, forse quello con l’impianto narrativo più evidente da poter agganciare. La storia tragicomica, cruenta a paradossale di un povero impiegato condannato dalle sue enormi natiche a subire umiliazioni di ogni tipo. Ma è anche la storia assurda e disturbante di una partita di calcio tra colleghi d’azienda che si converte in disastro e omicidio, tutto a causa di uno scambio dialettico preso alla lettera.
Due dei giocatori si provocano in termini espliciti, promettendosi “scherzosamente” prestazioni sessuali omoerotiche e un terzo di loro, il giapponese Tokuro, non può comprendere che si pronunci un impegno e poi non lo si assolva, perché l’onore di un uomo passa attraverso la lealtà del suo fiato. Bisogna tenere fede a quanto affermato, una volta per tutte, altrimenti Tokuro, campione conclamato di karate, sarà costretto a ucciderli. E così si scatena il grottesco, lo sconcio, l’orrido e il meschino. Ma sotto un mantello di liquame e detriti, oltre il cencio oleoso di un paesaggio molesto, si nasconde un barlume superstite, un fondo d’amore irrisolto che resta protetto fino al sacrificio. Per non permettere che sia sacrificato.
Si prosegue poi con Il fiordo, narrazione indigeribile di un’orgia ostetrica. Una partoriente viene violentata dal Signore Padrone Rodriguez mentre gli altri partecipanti sprofondano nei corpi altrui con veemenza da guerriglieri. In questo caso, come anche in altri per Lamborghini, il sesso, ingrediente possente, mostruoso, indagato ed esposto ben oltre il turpe, viene impiegato come allegoria del potere. Ogni attante di questo baccanale (e su questo lemma Lamborghini si sarebbe divertito a inframettere un trattino) rappresenta un protagonista della compagine politica di quei suoi ultimi anni. Da cui è infattibile prescindere. Di cui le immagini s’impregnano come spugne a digiuno.
I riferimenti a Perón (di cui l’autore si professava sostenitore convinto), al sindacalista assassinato Vandor, alla base di militanza delusa che non riesce a godere dalla carne orbitante, diventano la filigrana con cui approcciarsi alla scena e assaggiare il potenziale della sua rivoluzione. La sua strattonata paradossale Argentina, la sua capitale con l’«aria buona» sono sempre lì, a scalciare sugli angoli. Come si evince in ogni passo di questa raccolta. Rimanendo costantemente sul filo tra il fastidio e lo sgomento. Tra l’oltraggio e la delizia.
Il bambino proletario è un’altra perla tagliente di questa collana. Vicenda devastante di un devastato. Un perenne sconfitto dalla sua povertà. Cavia eccellente per i fervori borghesi. Bersaglio da spogliare all’altare, eletto dal mondo alla sottomissione. Tre ragazzi si avventano su di lui, lo stuprano e lo massacrano frementi dell’estasi di chi sa che avrà sempre ragione, che è così che accade il destino.
Si schiude (perché non si apre mai) lo scrigno di Sebregondi retrocede. Personaggio inquietante e luciferino, brutalmente slegato da una logica sequenza dei fatti. Marchese cocainomane e affamato di uomini («pazienza, culo e terrore non mi sono mai mancati, dice»), con un membro «falangineo» e una mano ortopedica, è protagonista di un poema in prosa, altro intrepido atto di traduzione. Fu l’editore di Lamborghini a bandire la sua originaria forma poetica, a imbracarlo in una scatola che la sua lingua anguiforme rifugge e offende. Per quasi tutta la sua produzione si può dire che fiutarlo e assorbirlo come poeta permette non solo di aggirare l’illeggibile, ma di inalarlo come un vapore e assuefarsi alla sua suggestione.
«Questo cane che beve acqua dal mio bicchiere ha sulla faccia uno stupore che assomiglia alla mia faccia. Forse è un lampo del cane della mia faccia, un altro stupore del mio specchio in cui appare l’acqua (bevuta) e il cane cancellato per miracolo». Oppure «Io ero una donna giovane anche se con le tette un po’ mature. I miei capelli neri s’impigliavano nei miei capezzoli. La mia bocca maschile li succhiava. Si nutriva con tepore e lentezza. Anche se con un certo, un certo tocco di disperazione: il balenio rosso delle gengive e certe, certe finte come per conficcare i denti nelle terminazioni, capezzoli dei seni. Io, donna giovane, mi allattavo traboccando di tenerezza: non tanto riferita a me stessa, quanto al sogno che stavo sognando dall’età in cui il sogno mi aveva invaso».
Basterà questa manciata di righe per addentare una delle sue briciole? Basterà la polveriera di autori che lo hanno designato maestro o da cui lui stesso è stato influenzato, come per esempio Rodolfo Fogwill, Adolfo Bioy Casares o Horacio Quiroga?
È già certo, non sarà mai abbastanza. Ma pulseranno ancora queste gemme estreme, insopportabili e sfiancanti. Questo «romanzo che comincia qui o non comincia» mai, questa «musichetta» che scuote le ossa alla sua brevità. Questo lucido sventrare il senso delle cose. Che ci allena all’eccesso e alla sua strage. Per lasciarci sfiniti, sedotti e abusati, con il marchio sprezzante di una folgorazione.
Su certi autori, attraverso lenti procedimenti, si formano aureole di mitologia. Inizialmente accade per cortocircuito. Un titolo azzeccato. Una contingenza temporale. Ma poi subentra il passaparola fra i lettori, con la voglia di ricostruire, libro dopo libro, l’architettura totalizzante. Cosa che riguarda, fra i più recenti, Roberto Bolaño. Scrittore cileno cosmopolita, eppure radicato in un Sudamerica antico e violento di cui ha raccontato misfatti e solitudini, Bolaño è autore di culto di cui, in questi ultimi anni, sono stati pubblicati valanghe di libri. Il suo esaltante iter postumo (è morto a soli cinquant’anni) non è prodotto di un’operazione editoriale. Ma di un talento capace di attrarre il consenso di chi ama la letteratura vissuta in toto. Destino dei sognatori e dei costruttori di mondi. Bolaño non spiega, racconta. Un universo, il suo, che da Cile e Messico si espande all’Europa. Esule solitario e narratore incontinente, ha costruito trame autobiografiche che si rincorrono tra gioventù, bar, circoli artistici, avanguardie e fallimenti, biografie strambe e disperate, in una sorta di sconfinato labirinto di parole.
Recentemente l’editore Miraggi di Torino ha pubblicato – con la traduzione di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni – un monumento postumo, strumento indispensabile per gli amanti di Bolaño. Operazione congrua e coraggiosa, proporre in Italia una serie di studi di matrice ispanica come quelli raccolti in «Bolaño selvaggio» (pag. 427, 24 euro), spaccato di una letteratura sudamericana impura, imbevuta di radici europee (come non pensare a certo Perec?). Perfetta radiografia di un anti-maestro, di un inventore di mondi che si inabissano, tra tunnel narrativi e fantasmi apocalittici, affrescando quello che inoppugnabilmente Alessandro Raveggi ha definito, nella prefazione, come un irripetibile «realismo confidenziale».
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