Gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi
“Bolaño selvaggio” è un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo
Confesso, ho sempre fatto fatica con Roberto Bolaño. Il che non significa che io non abbia letto Roberto Bolaño, perché, giuro, l’ho letto. Ho letto numerosi romanzi di Roberto Bolaño, direi almeno cinque – verità che, non fosse tale, confesso che occulterei senza pensarci un attimo, negando fino alla morte e resistendo eroicamente alle inquisizioni sopraccigliari delle frotte dei bolañisti, i quali sono una setta di adepti che ti sbirciano in tralice mentre parli fino a indurti al balbettio (quando parlate con un bolañista fissatevi su un dettaglio del volto a caso e concentratevi su quello, solo così potrete sostenere il suo sguardo non sostenendolo) e ti sbirciano per vedere se hai detto la verità, sospettando che non l’hai detta, tu Roberto Bolaño l’hai letto poco, pochissimo, e ovviamente male. Come tutte le sette, sono pericolose e assassine, il che getta una luce di amara verità non solo sui bolañisti ma anche su tutti gli altri: sui cortazariani, i dostoevskiani, i pasolinisti, i thomasbernhardiani, i franzeniani, insomma, su chi siamo tutti noi, nessuno escluso, quando amiamo un autore. Siamo dei granitici detentori di culto, degli officianti permanenti, dei teppisti che si contengono per un pelo, degli stalinisti, dei mezzi mostri con l’alibi intero della passione, come se la passione sia mai riuscita ad affrancare qualcuno dalla propria condizione di aguzzino, macché, non c’è un solo caso al mondo, anzi, è vero il contrario, l’ha semmai nutrita e incrudelita, la passione, quella condizione di omicida con l’alibi profondo.
Io – sia chiaro – non sono da meno, e faccio parte di questa famiglia di fanatici feroci che suppongono il proprio gusto il più giusto possibile: quando sono io il portatore di un’inamovibile convinzione letteraria sono sempre nella verità, mentre i portatori di culti diversi erodono il mio terreno esclusivo, quindi mi urtano, mi ostacolano, mi innervosiscono con la loro ottusità. E quanto insistono! Tra l’altro è dalla mia vita cubana in poi che noto come, quando in ballo ci sono i latinoamericani (come se “scrittore latinoamericano” significasse davvero qualcosa), il culto prenda pieghe ancor più aggressive e l’amore assuma assurdi significati travalicanti. Quello che accade è che “scrittore latinoamericano” diventa automaticamente condizione morale e non solo estetica. E lo diventa al punto che criticare la qualità letteraria delle pagine di uno scrittore latinoamericano scarso ma di culto è pericolosissimo, è una spericolata attività portatrice di penose conseguenze, alimentate da sospetti di insensibilità politica del criticante, e di squallido cinismo occidentalista antindigenista (l’accusa non viene aggiornata dal 1967). Perché gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi? Perché, in nome di ciò che non esiste, ci assembriamo in contese ringhiose su un terreno ridicolo, in una notte in cui tutte le vacche sono nere, trascinandoci – nolenti – fin nel cuore delle selve amazzoniche, sospinti da una rossa brezza esoterico-allegorica?
“Bolaño selvaggio” (miraggi edizioni, 436 pp., € 24 euro) è un libro splendido, pubblicato da un editore tra i più ammirevoli in circolazione. Un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo, cioè da un rimasuglio di intervista ad oggi inedita in cui Bolaño risponde come spesso amava, con sferzante sarcasmo – il che è rivelatore perché la maggior parte degli scrittori che amano senza ironia Bolaño non hanno nemmeno un centesimo del suo sarcasmo e del suo disinteresse verso ciò che era conveniente dire, chi ha dei dubbi si rilegga la conferenza “Siviglia mi uccide” e avrà di che deludersi, in termini di secca sconfessione di militanze presunte.
Ma è leggendo “Bolaño epidemia” di Jorge Volpi che sopraggiunge l’epifania. Non solo perché epidemia è ormai la nostra parola chiave, ma perché, attraverso un gioco metabolañista, Volpi sveste Bolaño, sveste i bolañisti e la propria generazione di tutto il bolañismo deteriore, di tutto il bolañismo orfico, e consegna un saggio acuto, divertente e intelligentissimo sul Bolaño originario. E ci parla dell’utilità di non essere maniacali e settari quando si ama uno scrittore, perché poi si finisce a non capirlo. E a chi, in quel congresso di Siviglia, chiese che consiglio avrebbe dato a un giovane scrittore, Roberto Bolaño rispose: “Vi raccomando di vivere. E di essere felici.” La risposta meno bolañista possibile. La più bella. Quella fu l’ultima apparizione pubblica dello scrittore. Morì a Barcellona di lì a pochi mesi.
LA PIANURA DEGLI SCHERZI DI OSVALDO LAMBORGHINI: RISCOPRIRE UN MAESTRO TRA SESSO E VIOLENZA
Il nome di Osvaldo Lamborghini potrebbe non dire tanto al lettore medio italiano, ma dovrebbe suonare invece familiare agli indagatori più scrupolosi della letteratura sudamericana. Durante un’intervista ho avuto modo di chiedere ad Alan Pauls, uno dei massimi autori argentini dei nostri giorni, quali libri e quali autori gli avevano fatto capire come raccontare un Paese estremamente complesso come la sua Argentina. Tra le sue influenze personali, in mezzo a nomi e titoli più conosciuti, spiccò Il fiordo: un testo molto breve scritto proprio da Lamborghini.
Quel Fiordo che non era edito in Italia fino alla pubblicazione de La pianura degli scherzi, il libro con cui questo autore arriva nel nostro panorama grazie all’editore Miraggi e al lavoro di cura e traduzione di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montaldo. Una proposta editoriale non immediata, ostica, per alcuni aspetti scomoda, che necessita di essere contestualizzata, tanto coraggiosa quanto indispensabile. Una raccolta di quattro romanzi brevi di difficile classificazione, attraverso cui scoprire una delle voci più inafferrabili della seconda metà del secolo scorso.
Partiamo dal contesto storico: dobbiamo immaginare la Buenos Aires tra gli anni ’60 e ’80. Nel ‘73 Juan Perón era tornato dall’esilio ed era ritornato protagonista con un’efficace formula patriottica di stampo socialista. A una iniziale ricrescita economica seguì il suo tramonto definitivo ed ebbe inizio un marasma sotterraneo di sparizioni, continui golpe e giunte auto-incaricate per ristabilire un ordine politico-sociale sempre più precario. In questo clima Osvaldo Lamborghini raccontò la sua Argentina, la sua polveriera. Il fiordo, nel ’69, veniva venduto su richiesta in una sola libreria di Buenos Aires. Un testo che, oltre ad alimentare un vero e proprio mito, può essere considerato al tempo stesso l’esordio e l’apice più alto di tutta la scarna produzione di altissima qualità che Lamborghini produrrà nei 25 anni successivi.
«Un’orgia di sesso e violenza politica», questa la definizione di Alan Pauls. Definizione accurata, ma c’è dell’altro. Nel racconto violento di un’orgia frenetica, il fiordo riuscì ad anticipare tutta la letteratura politica che avrebbe caratterizzato l’Argentina nei decenni successivi. Solo un autore fu in grado di essere ancora più anticipatore tanto che, durante l’immersione lamborghiniana, non sarà difficile ripensare a Roberto Arlt (1900-1942) e alle sue narrazioni allegoriche.
Allora, il Folle Rodríguez, nudo, con la terribile frusta attorno alla vita – il Folle Rodríguez, padre di quello sgorbio infingardo, precisiamo –, piantava i suoi gomiti nel ventre della donna facendo sempre più forza. Eppure, Carla Greta Terón non partoriva.
L’immagine che apre Il fiordo è quella del parto di Carla Greta Terón, la compagna del Folle Rodríguez, un uomo sadico che sta favorendo la nascita del figlio. La violenza del Folle rispecchia il clima che la città respira fuori dalle finestre dell’appartamento in cui, nonostante le urla della donna, si sta verificando un’orgia.
In questa scrittura, in questa forma schizofrenica, il significato (così come il nascituro) non trova né luce immediata né vita facile. Tutto è metafora, tutto ha un significante distorto, mutilato, seviziato. Basti osservare la stessa Carla Greta Terón, le sue iniziali e l’acronimo che si andrà a formale: C.G.T., Confederación General del Trabajo de la República Argentina. Allo stesso modo il fiordo, l’insenatura costiera che il lettore osserverà sempre da quella finestra, si farà metafora e critica della società del tempo (tra grida e sevizie, così come spesso fu la politica di Perón). Questa pianura degli innumerevoli scherzi è una bandiera che viene conficcata in una spalla con fare sornione, senza nascondere l’onore di un gesto così estremo, capace di unire il dolore provato alla gioia, al simbolo della lotta. Inutile nasconderlo: la letteratura di Lamborghini è ostica, stratificata. È sua intenzione scrivere testi caratterizzati da architetture narrative definite in un sistema di spazi ristretti grazie a un lavoro di cesello, di precisione.
César Aira racconta di come Lamborghini avesse sempre sostenuto che i romanzi lunghi dessero come risultato una frase, un’esclusiva piccola frase molto bella. Evidentemente non abbastanza per osservare il mondo. Quel mondo descritto con una lingua caotica in cui forme dialettali e varianti alte e basse di uno o più idiomi sono pronte a coesistere nella scrittura di un autore abituato a riempire fogli e fogli di parole casuali per poi poter studiare i collegamenti nascosti tra di esse. Significativa anche la vicenda di Porchia contenuta in Sebregondi Retrocede, il testo più criptico dell’autore argentino. Romanzo breve del ’73, al cui centro figura un marchese omosessuale e cocainomane e i suoi incontri tra donne, bambini e personaggi eccentrici. Tra questi vi è anche l’enigmatico Porchia, un vecchio operaio in pensione dedito a scrivere un’opera costituita esclusivamente da frasi zen, del tipo «prima di seguire il mio cammino, io ero il mio cammino».
Il romanzo era nato come una raccolta poetica e fu modificato, dopo una lunga e combattuta discussione con l’editore, per allontanarlo dall’ermetismo proprio della poesia stessa, che però popola (forse) ancora questa trama di incontri indefinibili. Anche qui non manca l’anima politica, ma spicca con maggior chiarezza la violenza sessuale, la tradizione di De Sade unita ad alcune atmosfere kafkiane, senza dimenticare il vero e distintivo lato lamborghinano: quello psicologico. La psicologia e l’etica dell’uomo saranno anche le colonne portanti de La causa giusta. Ancora una volta una trama borderline: la vicenda di un culo grosso e di un discusso atto orale disputato tra uomini. Nel mezzo, la scala delle gerarchie politico-sociali tra amore e morte.
Tra queste pagine si ride, si ride tanto. In alcuni frangenti potrà sembrare di osservare un tavolo al quale Juan José Saer e Witold Gombrowicz discutono con naturalezza di bassifondi, così come dei massimi sistemi, fino ad arrivare a Hegel. Lamborghini è un papà di Saer, un fratello di sangue di Gombrowicz.
Ne Le figlie di Hegel, scritto da Lamborghini nel periodo della sua convalescenza a Mar de la Plata, prima della sua morte prematura (avvenuta nel novembre del 1985), ritorna anche il filosofo tedesco e lo fa in una sorta di testamento travestito da romanzo.
Quanto alla letteratura, io preferisco i limpidi turbinii di José Hernández (di nuovo: effettivamente sono maledetto e pazzo – come un pazzo – a tal punto). Sono effettivamente stregato e la pagherò presto e cara, con la mia stessa collottola. Quanto alla letteratura, preferisco il sistema di incisioni non programmato di Horacio Quiroga, non programmato, però, buco dopo buco, ogni gesto dà subito inizio a un movimento, si avvolge in un suicidio, salta come una molla e precipita, inesorabile, verso la sparizione di “un soggetto”; perché il suo eterno movimento vorticoso porti la piaga della risurrezione.
Questo dice la voce narrante, una voce sovrapponibile a Lamborghini stesso. Una prima persona che parla con sincerità partendo dalla sistematizzazione del reale di Hegel, secondo il quale la realtà si riduce a spirito in un continuo movimento. Nel delineare il suo ultimo racconto di pazzia e di prostituzione, Lamborghini crea una sua realtà composta proprio da quelle donne ai margini della società e dalla classe operaia. Non sarà quindi un caso veder figurare il 17 Ottobre in questa narrazione-testamento, la data della nascita del peronismo tanto sentita dagli operai argentini.
Tra il sesso e la violenza dell’autore argentino si inserisce l’attenzione alla politica, affrontata sempre con un taglio che arriva dai grandi filosofi e le grandi opere di spiccata argentinità lette in vita dall’autore. Penso al Facundo di Domingo Faustino Sarmiento o a Una excursión a los indios ranqueles, una cronaca giornalistica di una spedizione fatta dal generale Lucio V. Mansilla per negoziare un accordo di pace con gli indios ranqueles. Testi ottocenteschi con una spiccata componente politica, poco conosciuti in Italia ma indelebili nella formazione del Lamborghini lettore. I meccanismi politici vengono analizzati servendosi del lato famelico e violento del sesso. La violenza sessuale veicola queste narrazioni, i rapporti della società del tempo e solleva dagli uomini il mantello della bugia attraverso il gioco letterario.
Leggere Lamborghini significa scoprire una voce capace di muoversi tra poesia, teatro e prosa. Un uomo, forse distorto come tanti dal suo alone di maledettismo, che si assicurava con un fare approssimativo le minime condizioni di sopravvivenza, spostandosi come ospite indesiderato tra case di parenti e amici. Venne tacciato più volte di infantilismo, di essere un bohémien perso in una realtà che affrontava con troppa immaturità. L’infantilismo non faceva però parte di Lamborghini, a lui, come ai suoi personaggi, il racconto dell’infanzia e dell’innocenza non è mai appartenuto.
Con La pianura degli scherzi ci viene restituita la voce di un maestro, di chi è riuscito a forzare con il suo estremismo ogni confine letterario, agganciandosi con le sue provocazioni ai significati più nascosti della realtà che ha vissuto e che ancora oggi è di grande interesse. Il libro non ci restituisce solo l’Argentina del suo periodo, ma la combinazione per aprire la porta della letteratura più fine e disturbata del Novecento.
È in libreria l’edizione aggiornata del Bolaño selvaggio, la raccolta di saggi sullo scrittore cileno uscita per Miraggi. Di seguito pubblichiamo l’introduzione di Alessandro Raveggi, ringraziando editore e autore.
di Alessandro Raveggi
«La vita, sicuramente, che ci mette sotto il naso i libri necessari solo quando sono assolutamente necessari», si legge ne Los sinsabores del verdadero policía. E io dico così: «Perché proprio Bolaño?» – me lo sono chiesto spesso. Nel 2002 vivevo a Granada in Andalusia, e in una libreria di fiducia, suggestiva e tutta accatastata, che si illuminava come un fuocherello speranzoso nel gelido inverno offerto dalla Sierra Nevada, trovai per caso, in mezzo ad altri mille libri e autori in spagnolo, quella che sarebbe divenuta una delle mie bibbie: Los detectives salvajes di tale Bolaño Roberto, un autore mai sentito prima – in Italia era in realtà uscito in molta sordina per Sellerio già dal 1997.
In quella libreria spagnola in fondo non si celebrava alcun trionfo, nessuna fascetta eclatante, sebbene avesse vinto due tra i più importanti premi del mondo delle lettere spagnole – l’Herralde nel 1998 e il Rómulo Gallegos nel 1999 –, nessuno scaffale dedicato, nessuna feticizzazione della pallida faccia emaciata addolcita dall’occhiale dalla montatura rotonda, e da un crine corvino scompigliato stile Charlie Chaplin che ha perso il cappello, appena scampato a un disastro. Era lì tra gli altri romanzi Anagrama, docile e insignificante: Bolaño Roberto. Me lo confessò più tardi anche Juan Villoro, senza il minimo segno d’invidia: «Roberto era uno scrittore contemporaneo bravissimo, ma non era un mito, aveva avuto dei successi, sebbene in ritardo rispetto ad alcuni di noi. Era uno di noi, insomma», fu più o meno quello che mi disse.
Per me fu però, in lettura, una subitanea folgorazione, e ne rimasi anche stordito, complice forse la stufetta a gas della mia angusta stanza singola, o forse persino la mia conoscenza ancora mediocre della lingua spagnola. Era diverso da tutto quanto avessi letto prima, in quella casa condivisa vicino alla Gran Vía de Colón – indizio maligno di mie prossime peregrinazioni e anche di future diramazioni bolañane verso le Americhe? – la casa dove, ironia della sorte, avevo divorato Leopoldo María Panero, Octavio Paz, Pablo Neruda, Gabriela Mistral e tutti quei poeti che, seguendo il suo maestro Nicanor Parra, Roberto avrebbe forse dismesso o attaccato ferocemente. Certa spigliatezza, certa sagacia, la possibilità unica che ti dava la sua voce di seguire in una costante scorribanda a un tempo personaggi non sempre rotondi, non sempre dotati di quello che gli editor definiscono uno spessore psicologico completo (e chi se ne fregava!), e far loro passare cose buffe e a volte cacciarli in cose serissime e terrifiche, tenendo la corda sospesa a metà, sul bordo dell’annientamento e della morte; oppure ancora certe sue improvvise virate poeticissime che ricadevano anch’esse, si direbbe ancora con Parra, nell’antipoesia tipica de Los perros romanticos: tutto mi prese, anche nelle letture voraci successive di quello che era disponibile in libreria (ricordo in particolare Putas asesesinas e La pista de hielo).
Certo, in lui c’era di mezzo Borges, c’era di mezzo Cortázar, o anche Ernesto Sabato, ma loro si rubricavano/storicizzavano pur sempre nelle astrazioni di un’avanguardia, cristallina o ferina che fosse, o annacquati nella moda del boom. Non era in realtà un grande amante delle avanguardie, Roberto, a mio parere: «Preferisco i paracadutisti che scendono avvolti dalle fiamme, o direttamente, quelli a cui non si apre il paracadute», disse una volta. Era più un situazionista melancolico.
Accadeva poi che con Bolaño si potesse andare oltre le facili categorie del modernismo e del postmodernismo: la voce dell’Autore immaginario – che non è solo la voce dimessa e scanzonata, dall’accento cileno smorzato ma mai compromesso dal messicano o dal catalano – mi si era appiccicata alle orecchie per giorni, inventiva, ma mai spaccona. La voce unica persa nelle sue decine di trasfigurazioni e maschere. Ogni opera in fondo contiene la voce dolente del proprio autore, disse pressappoco così a Carmen Boullosa in quella che è la cosiddetta sua Ultima conversación.
Avete però mai letto lo stesso Los detectives salvajes, che io lessi in quel lontano 2002 a Granada, guardandolo con occhi disinnamorati, o da detrattori?
Impresa oggi oramai difficile. Ma in fondo, chiedetevelo: che ne capisce il lettore italiano di tutto quel crogiolo di vite ingenue e perse, strade affastellate di vizio e poesia, cantinas y calles del centro storico di Città del Messico, nomi e cognomi iberici, poeti spagnoli esiliati, o eccentrici giovani poetastri e poetesse cileni e uruguaiane, riferimenti letterari remoti o spesso inventati, e ricerche piene di vicoli ciechi? Poco, o niente. Perché Bolaño non è un Gogol’ o un Dostoevskij, nei quali poco importa se a volte certi nomi e cognomi sono ardui da pronunciare (e non son sempre molti). In lui, invece, credere nella toponomastica e nell’onomastica è tutto, proprio fondamentale, così come si crede all’amore assoluto da giovani (come quello di Roberto per Lisa) e lo si confonde con una passione momentanea. A volte si ha l’impressione che vi faccia persino illudere di abbracciare a volo d’uccello tutta la storia della letteratura ibero-americana, o almeno tutto quello che va da Ruben Darío ai suoi stessi contemporanei (amici spesso citati e adorati), o di permettervi di giocare con essa come nello straordinario gioco de La literatura nazi en America.
È uno dei pochi autori del tardo Novecento che pretende e ottiene per i suoi lettori un Universo completo e sussistente, per quanto fragile e dai bordi sfrangiati, ripetitivo a tratti. Un Universo di senso che non include solo i suoi personaggi ricorrenti (Belano, Lalo Cura, Amalfitano), ma anche la città di Santa Teresa o la Universidad Nacional Autónoma de México come posti reali e immaginari assieme, le bizzarre teorie poetiche infrarealiste, il mondo delle mille riviste underground che nascono e muoiono ogni mezzora (come la rivista «Caborca»), le notti con le puttane o con le studentesse o le albe assonate, o ancora la passione per i giochi di ruolo (mai investita di postmodernismo), il rincorrere costante delle vite di scrittori fittizi e la riscrittura della vita di quelli veri (fin dal César Vallejo morente di Monsieur Pain)… ed ecco, Bolaño, che in questo Universo ci ficca dentro idealmente anche una Biblioteca personalissima: immagine perfetta del Paradiso, direbbe Borges, ma anche «una sala di lettura dell’Inferno» – per fare il calco ad un verso bolañano in veste di giovane poeta e vago. Universo completo con bibliografia inclusa, che genio!
Essere un genio scrittore poeta y vago è d’altronde questo: farci abboccare continuamente anche rispetto a cose remote e insignificanti, oppure illuderci di poter sapere noi tutto senza saperlo. E, soprattutto, dare l’impressione di cianciare sul bordo dell’Abisso, del Mostruoso, davanti alla Legge kafkiana. Direte che questo d’altronde ha a che fare con la famosa suspension of disbelief di Coleridge, che rende il lettore tanto disposto a divertirsi nella trama dell’autore quanto totipotente. Certo, ma in Bolaño, complice quel suo tono fresco e in fondo amichevole di cui ho già parlato – che contribuisce a quella che come ha detto Ignacio Echevarría si può chiamare una epica de la tristeza che diventa mitopoietica –, tutto ciò mi pare si ponga all’ennesima potenza. Perché non c’è nessuna concessione al real maravilloso, come si chiamava in realtà il tanto abusato realismo mágico: siamo in una realtà che al maravilloso sostituisce una cruda confidenzialità (un fragilissimo confidenziale), e mai l’esagerato.
Realismo confidenziale, qui propongo la definizione: lo scrittore vi porta familiarmente, sottobraccio, a vedere cose segrete e terribili: «saper ficcare la testa nel buio», avrebbe detto Roberto, e non tirarsi indietro, è scrivere davvero.
Così, per questo Bolaño è definito l’eccentrico, Bolaño l’arrischiato di una nuova letteratura-mondo, del romanzo massimalista (per riprendere una definizione dello studioso Stefano Ercolino) che si esprime non solo con i tomoni come 2666, ma anche in libri brevissimi, e altrettanto colossali – o in racconti-romanzi splendidi, come l’incantato racconto russo «La nieve» oppure l’oramai classico «Sensini», o chissà anche la «Prefiguración de Lalo Cura», solo per citarne tra i migliori, almeno per quanto mi riguarda.
Bolaño ahinoi anche l’outsider, che a causa della morte troppo precoce – appena un anno dopo il mio soggiorno a Granada, cioè a luglio del 2003 – si è trasformato in un autore maledetto, il cileno scoppiato che derapa fino a morire per una malattia al fegato, povero, dimenticato (una costruzione spacciata a tavolino da certa editoria americana). Maledetto per cosa, però? Certo non per la sua vita, passata e finita nel non esilio della brutta cittadina marina catalana di Blanes, o a Girona, a fare mille lavoretti miserrimi, spesso a fare la fame, o a mandare testi a iosa ai concorsi letterari di provincia, oppure la vita rarefatta in una gioventù messicana che si perde oramai nel mito dei caffè amarissimi del Café de L’Habana, una vita che non doveva essere stata comunque facile né gloriosa. Maudit, quindi, siamo sicuri? Forse solo perché in lui ci sono accenti da Poe e Rimbaud, ma molto digeriti.
Anzi, trovate in realtà una serie di qualità che annullano ogni possibilità di confonderlo con un’icona dello scrittore trasgressivo a buon mercato, quello che si lancia in avventure gonzo o che fa del degrado anarchico quotidiano quasi una forma di venerazione mistica che spesso sconfina nell’egolatria. Cercherò di elencare, in ordine sparso, le cose che invece di Bolaño, mi paiono essenziali per capire la sua grandezza, non tanto la sua maledizione.
Uno
In primis, Bolaño riesce a raccontare al meglio quel tipo di stato affettivo tutto particolare e tutto intellettuale dell’essere studenti: studenti in quanto apprendisti della vita, del sesso, dell’amore e anche se vogliamo del saper vivere la vita adulta. Qualunque altro scrittore si coprirebbe di ridicolo nel raccontare certe cose. I suoi romanzi sono anche questo: negano e usano l’impossibile coming of age di un’intera popolazione di giovani (da El espiritu de la ciencia ficción fino ai Detectives, ovvio), quella in particolare latinoamericana, che storicamente ha sempre vissuto la propria inferiorità come un limite e un’utopia allo stesso tempo – anche perché il loro cammino è stato martoriato dalla violenza. Il binomio studenti-violenza: sappiamo ahinoi quanto rappresenti l’America Latina oggi come in passato. Lui però ha reso questa condizione dolente – le nottate passate a inseguire non sequitur, le feste interminabili e atemporali, oppure i consessi cisposi degli studenti cileni all’università, e certo anche il terrore inflitto ai desaparecidos e agli esiliati – come una condizione universale, senza retorica alcuna. Qualcuno ha detto che etica ed estetica in lui convivono perfettamente. Io dico: senza che si facciano beccare in giro a braccetto.
Due
Inoltre, Bolaño ci parla spesso della complicità della finzione letteraria col male più metafisico, e ci dice forse anche che solo attraverso la finzione possiamo in qualche modo sanarlo, o quanto meno avvicinarlo per comprenderlo («la violencia» d’altronde «es como la poesia: no se corrige», scrisse nella poesia Patricia Pons). In una prospettiva anti-ideologica, l’autore ci racconta cioè l’orrore della dittatura o del nazismo (si prenda il concetto in senso lato) attraverso l’esperienza di intellettuali spesso conniventi – come, ovviamente, in Estrella distante e Nocturno de Chile. La dittatura: sia quella cilena, sia quella messicana che si esprime nel massacro degli studenti a Tlatelolco, sia quella quotidiana alla frontiera con gli Stati Uniti, che modifica e falcia le vite di chi vi si trova nel mezzo. Magari politicamente si sarebbe detto pure comunista, sebbene terrorizzato da quello che chiamava il discorso vuoto di certa sinistra. Fu trockijsta e poi infine anarchico, per sua stessa definizione. Era schivo sicuramente nei confronti del consenso, perché conosceva l’idiozia feroce che può celarvisi dietro.
Tre
Bolaño ci fa capire poi il senso di quello stupido coraggio che ci vuole a essere scrittori, senza pedanteria o senza rischiare di cadere nella metafiction noiosa. Ovviamente in lui si sentono spesso echi metaletterari, ovviamente nei suoi romanzi la letteratura, i libri, la voracità e l’insensatezza con la quale veneriamo parole stampate su carta o declamate ai reading poetici la fanno da padrone. Ma tutto è fatto con una disinvoltura unica – altrimenti non sarebbe così amato da lettori non professionalmente legati ai libri, o meno pedantemente raffinati – pari a quella di quel giovane studente cileno di El espiritu de la ciencia ficción, ulteriore alter ego e vertigine dell’autore, che manda lettere strampalate e visionarie ai maestri della fantascienza da un bugigattolo di Calle Insurgentes. Disinvoltura che non significa nonchalance, disinteresse snob, né enfasi di un mondo letterario incantato: “la letteratura ti porta all’Inferno, stanne certo, amico lettore”, si ode nei suoi libri, e noi scrittori non possiamo che continuare a crederci, mandando lettere a mittenti irraggiungibili, che mai in fondo saranno considerate o ricevute.
Quattro
Bolaño procede poi spavaldo e senza remore nella riscrittura del canone (o nella sua ironica dissoluzione?), portandoselo con sé come una bandiera arruffata. E non a caso anche questo libro che state per leggere, questa raccolta di saggi che prendono da vari punti di vista, da quello più accademico a quello più slacciato, i mille aspetti della produzione del cileno, si parla di un suo chiaro stravolgimento del canone: amava minori come Rodolfo Wilcock (che grazie a Bolaño è stato riportato in auge, a mio avviso, in Italia), il raccontista Felisberto Hernández, o scrittori ancora da noi poco considerati come il grande Daniel Sada, o un autentico selvaggio e indecifrabile come Osvaldo Lamborghini; sbeffeggiava i monumenti a Paz, Fuentes e Márquez o certi Sepúlveda e Pérez-Reverte. Bolaño l’outsider, si diceva, che cambia il canone dall’esterno verso l’interno. E allo stesso vi si pone in modo ironico e scomposto al centro.
Difficile per me capire quindi, ritornando all’inizio di questo testo, che cosa tutto sommato riservi Bolaño per il lettore italiano, se non quanto ho sommariamente elencato (un piacevolissimo disorientamento, una confidenza assoluta degli abissi che la letteratura deve spalancare).
Ma forse un certo grado di vicinanza tra noi italiani e Roberto può essere compreso dalla definizione di paradiso che lo stesso Bolaño consegnò a «Playboy»:
Playboy: Com’è il paradiso?
Bolaño: Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e italiani.
E come si sta da italiani a Venezia forse lo sapete.
Bolaño, un florilegio di scritti per ricostruire le influenze continentali
Critica latinoamericana. Contributi saggistici e accademici sullo scrittore cileno: «Bolaño selvaggio», da Miraggi
In un memorabile passaggio dei Detective selvaggi uno dei due protagonisti, Arturito Belano – giovane poeta invischiato nelle prime, focose battaglie stilistiche ed esistenziali – sfida alla sciabola un critico letterario che forse vuole dire male del suo ultimo libro. L’esito del duello, su una spiaggia isolata di Barcellona verso sera, è incerto.
Non è dato sapere se la lama del poeta abbia raggiunto l’insoddisfatto recensore, tuttavia ben altri sentimenti avrebbero animato Roberto Bolaño se avesse potuto tenere tra le mani il florilegio di scritti che lo riguardano e che ora arrivano in Italia tradotti da Marino Magliani e Giovanni Agnoloni per Miraggi.
È una raccolta pubblicata in spagnolo nel 2008 e rivista nel 2013, sotto il titolo Bolaño selvaggio (pp. 437, euro 24,00) a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, studiosi e scrittori sudamericani di formazione accademica statunitense; un volume che cerca di dare conto della vastità dell’influenza dell’opera di Bolaño mettendo assieme testi tra loro molto disomogenei, organizzati con un criterio improntato più alla suggestione che non a un vero rigore espositivo.
Apre un’illuminante introduzione di Paz Soldán, mirabile nel chiamare in causa Julio Cortázar e il suo racconto seminale Apocalisse a Solentiname per collocare Bolaño nella «tradizione apocalittica» della letteratura sudamericana. Il primo e l’ultimo testo della raccolta riportano parole dello stesso autore cileno («Discorso di Caracas» e un’intervista inedita di Sónia Harnández e Marta Puig). Nel mezzo, alcuni studi inediti (non tutti significativi) danno un saggio dei nuovi percorsi che la critica accademica – in America latina, in Spagna e negli Stati Uniti – ha intrapreso nello studio di un corpus letterario che va acquisendo, negli anni, una forma sempre più consistente.
Molti lavori di natura saggistica guardano allo scrittore cileno da prospettive biografiche e bibliografiche non convenzionali: alcuni inediti, ma anche molti testi già noti, a firma di scrittori e critici, in alcuni casi autori vicini a Bolaño o più spesso appassionati conoscitori della sua opera. Tra i più significativi, il saggio dello stesso Faverón Patriau sul rapporto dell’autore di Puttane assassine con la tradizione letteraria argentina, e lo scritto di Enrique Vila-Matas tra ricordo personale e sovrapposizioni Bolaño-Perec. E, ancora, i testi di Jorge Volpi, di Juan Villoro, e soprattutto del cileno Carlos Franz sulla malinconia in Bolaño. Allucinato dai «poeti senza opera» dei Detective selvaggi, Alan Pauls dichiara anch’egli la sua ammirazione.
Di certo utile, Bolaño selvaggio restituisce bene la tentazione di canonizzare in fretta uno scrittore che forse non lo avrebbe gradito: non al punto di arrivare a brandire la sciabola, certo, anche se a un intervistatore secondo lui troppo generoso con la sua opera, rispose, mimando Breton: «Chi sono io»?
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