Maledetti francesi – recensione di Andrea Pedrinelli su Dasapere.it
Saranno anche “maledetti”, questi francesi, però certo la loro cultura musicale è notevole: e la loro storia sul fronte cantautorale talmente densa e significativa che fa sempre bene, ripassarne i capisaldi, magari pure scoprendovi sfumature nel tempo un poco -ingiustamente- perdutesi. Dunque “benedetti” Monti e Marini: che con classe, cultura e garbo offrono a orecchie, cuore e cervello un magistrale viaggio dentro la storia della “chanson” più autorale -a tratti anche teatrale- d’Oltralpe; Monti fra l’altro non è nuovo a certi exploit cultural-musicali, e del resto il disco si collega a un suo bel libro, omonimo, edito nel 2018 da Miraggi, e lui nel tempo ha saputo costruirsi un solido e credibile repertorio da interprete-studioso-autore capace di spaziare in profondità tra cabaret, cantautorato e storia della canzone: non solo italiana. In “Maledetti francesi” Monti, qua e là accompagnandosi con la chitarra, ha scelto la cifra essenziale del piano (o poco più) e voce: e spalleggiato da un’eccellente Ottavia Marini, appunto al piano ma anche nel canto, effettua questo suo nuovo viaggio dalle radici della musica moderna transalpina al suo portato rock in modo raffinato, meditato, con gran gusto teatrale, non poco savoir faire (come notano in terza di copertina) e anche una cifra deliziosa dell’interpretazione, non solo sempre lontana dal già sentito e dal già abusato, ma spesso pure originalmente sarcastica o efficacemente disincantata.
Con questi ingredienti base, cui ovviamente s’aggiunge la scelta d’un repertorio spettacolare estrapolato dall’universo francese dell’intreccio delle arti con la musica nel secolo 1880/1980, “Maledetti francesi” è insieme gran disco e necessaria quanto riuscita operazione culturale: che non per nulla ha ricevuto -prima a ottenerlo- il patronage dell’Institut Français di Milano. E “Maledetti francesi” ha, come primo merito dei tanti, pure quello di farci scoprire o riscoprire angoli divenuti per varie ragioni “minori” della storia della chanson: dunque il primo cantautore, l’ideatore della “chanson canaille” Aristide Bruant; i testi senza censure di capolavori notissimi quali “Albergo a ore” tradotto per noi dal compianto Herbert Pagani; perle nascoste di geni quali Boris Vian o Serge Gainsbourg; l’arguta e puntutissima verve del rocker “maledetto” Renaud Séchan detto semplicemente Renaud, uno dei pochi grandi di Francia che non hanno avuto riscontro sul nostro territorio. E fra le righe delle scelte di Monti e della Marini ci sono anche, da riscoprire e magari andarsi a riascoltare (su vinile, perché no?), le mille contaminazioni Italia/Francia: qui ovviamente fotografate nel necessario recupero delle traduzioni fatte su classici d’Oltralpe da parte di Bruno Lauzi, Fabrizio De André, il già citato Pagani, Enrico Medail; per tacer di Monti stesso e di quella Andrea Mirò che seminascosta firma -e si sente, il suo taglio- la bella “Storia di Bonnie e Clyde” dall’originale “Bonnie & Clyde” di Gainsbourg.
Non ci si aspetti però una sequenza di “hit”: perché l’intento della coppia Monti/Marini era effettuare un viaggio potente, che sì sapesse passare da faccende finite spesso sotto i riflettori e però selezionate anche per le loro caratteristiche rivoluzionarie, anticonformiste o palesemente “maudit” (dunque Piaf, Brassens, Ferré…) ma per arrivare appunto a un’infilata di gioielli da rimettere in luce, fossero essi brani “minori” di Gainsbourg, le storie dietro le canzoni di Trenet o Bécaud, artisti sicuramente da conoscere come Renaud.
Il viaggio musicale di “Maledetti francesi” è dunque ricco, ampio ed emozionante; con qualche dubbio che punge soltanto per “Venite qua” che rispetto al resto pare pleonastica e per un passaggio didascalico-recitativo che sembra c’entri poco col disco ne “Il controllore del metrò” di Gainsbourg, peraltro riscoperta interessantissima di una “Le poinçonneur des Lilas” ben tradotta da Monti.
Il resto è eccellenza: l’inedito su Bruant “Allo Chat Noir” e lo struggimento bilingue di “Que reste-t-il de nos amours?”, il lavoro su “Albergo a ore” e la magnifica “Son venuto a dirti che vado via”, la strepitosa “Strani tipi” da “Les poètes” di Ferré e la lieve “Et maintenant” tenuta ben lontana da ogni ovvietà di rilettura pianistica. Con vette quali l’esilarante, ma anche inquietante, “Giava delle bombe atomiche” che Lauzi e Monti riprendono da Vian, il piglio maturo e dolente (lontanissimo da certe arroganze gridate sentite ormai troppo spesso) di “Egregio Presidente” ovvero “Il disertore” sempre di Vian, la sfaccettata e commossa “Paris canaille” di Ferré, i veri e propri capolavori di Renaud il quale, cantore del disagio e delle periferie, metteva in scena dialoghi padre-figlia capaci di indagare a fondo e con sferza tematiche forti dell’oggi, che andavano dalla violenza diffusa alla crisi della scuola.
Insomma, “Maledetti francesi” è un ripasso spettacolare d’un mondo che andrebbe insegnato a scuola: quel mondo inimitabile di canzoni allegre che raccontavano tristezze, melanconie e disperazioni, a volte pure denunciando con violenza le storture del mondo. Il mondo che la Francia ha donato alla storia della canzone d’autore, per farla breve: e che Monti e Marini, “benedetti” loro, ci riportano ben presente ad ascolto e anima.
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