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Elisa Occhipinti: “Io, Brigitte, Ulrike e le stelle”

Elisa Occhipinti: “Io, Brigitte, Ulrike e le stelle”

Elisa Occhipinti, da dove è partita per scrivere “E lucevan le stelle”?
Da diversi anni mi sono trasferita in Germania, appena sono arrivata ho subito stretto un rapporto
con Brigitte: era una signora anziana che viveva in una struttura, appena sei mesi dopo il mio
trasferimento lei è venuta a mancare. Io ho iniziato la mia vita tedesca nell’aprile del 2013, a
dicembre dovevo già darle l’ultimo saluto. E’ stata una figura fondamentale per me, anche se ho
iniziato a conoscerla meglio dopo il suo funerale. La sua era stata una vita particolarmente difficile
e non ne aveva mai voluto parlare, ma io ho iniziato a indagare e ho trovato tanti spunti
interessanti.
Chi è l’Ulrike del libro?
E’ proprio Brigitte stessa, perché sono partita da una storia vera e ci ho costruito sopra qualcosa.
Però è molto romanzato, ci sono tanti elementi di fantasia. Tutto, però, inizia appunto dal mio
incontro con Brigitte: la sua vita mi ha suscitato grande interesse e ho deciso di scrivere un libro.
L’ho iniziato nella primavera del 2014, pochi mesi dopo la sua scomparsa.
Germania e Italia sono i suoi luoghi del cuore?
La vicenda si svolge proprio tra questi due paesi, sono legatissima ad entrambe le terre. L’Italia è il
mio paese, sono nata e cresciuta a Torino e tutti i miei parenti mi aspettano sempre a casa, perciò
non potrò mai dimenticare la mia terra d’origine. Dall’altra parte, però, ho sempre sentito mia la
Germania: ho studiato tedesco a scuola, il mio desiderio di trasferirmi in Germania si è realizzato
cinque anni fa e ora sono felice qui.
Da chi si è ispirata per il titolo?
In qualche modo richiama Dante, sono una sua grande ammiratrice, ma in realtà è tratto dalla
Tosca di Giacomo Puccini: sono proprio le stelle e questa romanza a fare da filo conduttore. E sono
anche le due più grandi passioni di Ulrike, che in qualche modo richiamano quelle di Brigitte.

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di un grande libraio!

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di un grande libraio!

Oggi, dopo qualche settimana dall’incontro di João Paulo Cuenca alla libreria Milton, il libraio che noi della Miraggi riteniamo essere uno dei migliori librai italiani e risponde al nome di Carlo Borgogno, ci manda queste quattro righe che ha scritto perché sono ancora caldi il sentimento e l’emozione della lettura di questo libro! Qualcuno di voi potrebbe interrogarsi su quale sia il metro di giudizio per decretare un libraio un grande libraio, giusto? Credo che la risposta possa essere composta da una serie di aspetti inequivocabili, uno dei quali la passione per la lettura, lui che è prima di tutto vorace e attento lettore e quindi libraio fidato. Entrare da Milton ad Alba si rimane letteralmente affascinati dalla libreria che rispecchia bene lo spirito del libraio stesso. Chi ha letto questo piccolo capolavoro Ho scoperto di essere morto riuscirà a trovarvi qualche comune impressione con Carlo e per chi non l’avesse letto, sicuramente la curiosità di leggerlo. In fondo facciamo e vendiamo libri per cui vale la pena innamorarsi.

Ecco la recensione fantastica di Carlo Borgogno:

Ho letto e riletto il libro di Cuenca negli ultimi giorni poichè dovendolo presentare nella mia libreria ed avendone subodorato l’importanza e lo spessore letterario non volevo farmi cogliere impreparato.
È perciò un libro che consiglio di leggere e rileggere: piacevole, fluido, interessante, divertente e provocatorio ad una prima lettura, si schiude come un fiore prezioso ad un secondo ed approfondito passaggio grazie al quale si incominciano ad avvertire le solide e meditate architetture della narrazione.
Notti insonni hanno accompagnato la rilettura di alcuni passaggi attraverso i quali sono entrato in empatia con la sofferenza e lo sforzo che l’autore deve aver fatto per raccontare l’abiura da se stesso e la riconciliazione avvenuta attraverso un contrappasso di feroce autolesionismo voluttuoso.
Il libro è pieno di carne, sangue e cemento. Una Rio De Janeiro oltraggiata e deturpata fa da sottofondo alle vicende umane del protagonista che come la città stessa si ritrova a pezzi. Entrambi alla ricerca della propria identità sepolta.
Non credo di essermi spiegato. Cuenca lascia ad ognuno sensazioni troppo personali per essere condivise. È un libro da leggere. Assolutamente. È inutile star qui a far tante parole!
carlo
Libreria Milton
Via Pertinace 9/c
12051 Alba (Cn)
+39 0173 293444
“Il suono di Torino”: la recensione di Luca Cangianti su carmillaonline.com

“Il suono di Torino”: la recensione di Luca Cangianti su carmillaonline.com

di Luca Cangianti

Un mosaico di suoni, immagini e racconti prende progressivamente forma fino a offrire al lettore il ritratto vivente di una città, della sua storia e del suo profilo psichico e criminale. E già, perché la Torino di Domenico Mungo è un’assassina “con un ghigno diabolico” stampato sul volto. È lei la protagonista delle trenta storie mutanti del Suono di Torino – una sciarada intrisa di urla poetiche, stridii di chitarre elettriche e tonfi metallici. Seguendo le tracce della killer seriale si scopre, sotto la rapsodia degli eventi narrati, una trama profonda che lega insieme luoghi, vicende e personaggi, fino a far emergere in trasparenza un romanzo noir dove odio ribelle e amore tradito sono avvinghiati in una lotta all’ultimo sangue.

Mediante il libero riadattamento di articoli, opuscoli e volantini si affrontano efferate stragi fasciste, esecuzioni capitali, gli eroici scioperi del marzo 1943, l’immigrazione meridionale verso le fabbriche del Nord, i bagliori insurrezionali dell’autunno caldo, la marcia dei 40 mila, i drammi del fordismo e la crudele persecuzione dei notav.
Il suono di Torino importa in letteratura le tecniche musicali della campionatura, del remixing: “Unico fil rouge, la colonna sonora punk: le strofe rabbiose, dilaniate, furibonde dei Nerorgasmo, distorte qua e là che emergono improvvise tra i fiumi di parole urlate da una gola recisa. Ma anche Negazione, Cesare Pavese, Church of Violence, Totozingaro Contromungo, Rough!, Refused, Fred Buscaglione, Lucio Dalla, il rumore della fabbrica, il deragliare di un treno ad alta velocità.”

Nel capitolo finale l’autore si congeda:

Delle sue valigie di cartone spruzzate di smog e grasso d’officina.
Delle sue barricate operaie
E delle sue università̀ di rampolli della rivoluzione.
Dei suoi mille centri sociali
Ormai necropoli di se stessi
Murati vivi i cuori che anelano
Addio.
Non mi volterò mai, nemmeno per un istante per guardarne i grattacieli e le ciminiere fantasma che mi lascio dietro le spalle.

Torino è la personificazione geolocalizzata della nostra vita miserabile, ma allo stesso tempo la speranza resiliente dell’insubordinazione. Domenico Mungo, del quale Carmilla ha recensito anche Avevamo ragione noi, offre al lettore un modo innovativo di fare poesia e narrativa, una nuova tecnica balistica per scagliare l’arte contro l’oppressione e la violenza del Potere.

leggi la recensione di Luca Cangianti anche qui
https://www.carmillaonline.com/2018/09/16/torino-tra-odio-e-amore/

 

“Casamatta”: la recensione di Giacomo Stocco su Le monde diplomatique

“Casamatta”: la recensione di Giacomo Stocco su Le monde diplomatique

José Diaz Fernández fu uno degli intellettuali delle avanguardie spagnole dimenticati dal lungo periodo franchista. Giornalista, repubblicano, attratto dai “grandi fatti russi” e della rivendicazioni operaie in quanto portatrici di una nuova sensibilità morale e letteraria, visse in prima persona la guerra coloniale in Marocco, dove svolse il servizio di leva. Era il 1921, l’anno del disastro militare di Annual, a cui fece seguito una crisi politica che sfociò due anni più tardi nel colpo di stato di Primo de Rivera. Dal fronte scrisse sette racconti indipendenti l’uno dall’altro, aventi “come elemento di unità soltanto l’atmosfera comune”, dati alle stampe nel ’28 come El blocao, titolo tradotto in Casamatta per questa prima edizione italiana. A questi episodi si aggiungono in appendice due caustici articoli pubblicati nel periodo di stanza in Marocco.

Quest’opera, definita “un piccolo capolavoro” dallo scritto Ignacio Martinez de Pisón, autore dell’introduzione, affronta con demistificante realismo una campagna coloniale che portò allo sterminio di quella gioventù che non poteva permettersi di pagare la quota, l’esonero parziale dall’arruolamento. Il blocao è l’avamposto isolato, spesso situato in cima a un’arida altura, in cui venivano dislocate a rotazione le guarnigioni spagnole a presidio del fronte. In esso i soldati protagonisti di questi racconti si trascinano in una logorante monotonia sperimentando un’alienazione dalla vita sociale e affettiva. La sensualità come richiamo della vita, soffocata dal peso dei fucili sulle spalle, e il supplizio dell’attesa di un nemico invisibile assalgono i personaggi annidati nel desertico paesaggio che circonda una fumante cabila o frastornati dall’ingannevole seduzione della Tetuan occupata. Dietro l’aspro smarrimento dei soldati, privati di ogni eroismo, si coglie la resistenza delle tribù del Rif e l’emergere delle idee rivoluzionarie. Queste compaiono in Maddalena rossa, il testo principale del libro, in cui Angustias, un’impetuosa rivoluzionaria, impone il suo esempio a “Occhialini”, uno studente tanto idealista quanto incerto nell’azione, anche al momento di tradire la chiamata alle armi.

Diaz Fernández condusse una battaglia per la letteratura sociale, per il compito giornalistico di “dare una sensazione esatta delle cose”, contro la glorificazione della guerra che occultava la dolorosa realtà di uomini sottratti alle loro vite per servire una fallace idea di patria. Il suo impegno politico continuò con l’opposizione alla dittatura di Primo de Rivera e ai governi del bienio negro repubblicano, pubblicando ulteriori opere nel solco di quella che egli stesso chiamò letteratura “de avanzado”, tra le quali si ricordano La Venus mecánica, El nuevo romanticismo e Octubre rojo en Asturias, apparso sotto lo pseudonimo di José Canel dopo la rivoluzione asturiana del 1934. Eletto alle Cortes repubblicane, ebbe un ruolo a fianco del governo del Fronte Popolare durante la guerra civile, trovando infine la morte in esilio. El blocao è un libro che risponde al sentimento culturale più avanzato degli anni Venti spagnoli e che seppe trovare un chiaro successo editoriale, a dispetto del successivo oblio.

Giacomo Stocco

“La notte dei botti”: la recensione di Giampiero Marano su criticaitalianablog.wordpress.com

“La notte dei botti”: la recensione di Giampiero Marano su criticaitalianablog.wordpress.com

Un’allegoria spietata del nuovo potere

Nel volgere di poche ore una serie di esplosioni semina il panico in città. Nel metrò e nelle strade presidiate da esercito e polizia le vittime si contano a centinaia, compresi dipendenti comunali, sindacalisti, medici e (sostiene qualcuno) lo stesso sindaco, tutti passati per le armi: è la “notte dei botti” che dà il titolo allo sconvolgente, coraggioso romanzo di Biagio Cepollaro, scritto tra il 1993 e il 1997 ma uscito soltanto quest’anno presso l’editore Miraggi. Cosa accade, allora, durante la notte dei botti? Il dominio della merce ha già raggiunto eccessi macroscopici: nonostante siano stati privatizzati addirittura l’aria e i colori, ora i nemici dello Stato sociale, dei vincoli, delle frontiere, i fanatici del “Grande Scroscio della Liquidità”, della “Grande Fiumana delle Libere Espressioni”, pretendono la resa totale della Politica e con un colpo di mano stanno per impossessarsi definitivamente della città.

Scriba, poeta-veggente che sembra rimbalzare nell’oggi da un passato arcaico, dotato com’è della facoltà di ascoltare i sogni altrui, si muove in bicicletta sull’autostrada, pedalando per ore fra carcasse di macchine incendiate, crateri nell’asfalto e cadaveri riversi. Il suo scopo è raccontare la notte dei botti a partire “da quello che uno sente col naso”, “dal non farsi illusioni, dal mettere le mani nelle piaghe”: tutto ciò, si direbbe citando alcuni versi di Cepollaro stesso, per “provare il non-detto / e la sua deflagrazione” (dalla raccolta Scribeide, 1993) e comprendere così il senso di un mondo diventato sempre più oscuro, imperscrutabile. Ma anche Scriba sogna, e in sogno vede i Resistenti ammassarsi in cima all’autostrada, pronti all’azione contro il Nuovo Potere: “Cavalieri a piedi nudi, in piedi, sui cavalli… Centinaia di cavalieri che fanno acrobazie, che saltano da un cavallo all’altro… Cavalli e cavalieri che invadono le strade e le piazze della città disegnando festose figure… Piramidi di cavalieri alte quanto gli edifici…  È la prima vera sfida alla Notte dei Botti”. La visione di Scriba si realizzerà concretamente? I Resistenti sapranno organizzare un movimento di opposizione? E saranno poi così forti e numerosi da liberare la città?

L’allegoria della Notte dei botti offre una esemplificazione da manuale del “post-modernismo critico” teorizzato da Cepollaro e dal Gruppo 93, sia sul versante dello stile, sempre teso e sorvegliato nella sua polifonia, sia, soprattutto, per la denuncia tempestiva e spietata dell’ascesa di un capitalismo estremo, eversivo, fattosi più che mai violento dopo il crollo dei freni costituzionali social-democratici impostigli nel “Trentennio glorioso”. La durezza e la potenza del giudizio sul nostro tempo espresso in questo romanzo non sono inferiori a quelle del quasi coevo Le mosche del capitale di Paolo Volponi, nonostante qui ci si focalizzi più spesso sulle classi subalterne, il cui linguaggio è restituito fedelmente nell’”oratura” di Cepollaro. Se infine si volesse assegnare la notte dei botti a un punto preciso della storia recente, a mio parere non bisognerà pensare soltanto agli esordi del ventennio berlusconiano ma a eventi come il varo del Trattato di Maastricht o il golpe extraparlamentare di Mani Pulite che segnano la fine dell’esperienza essenzialmente sovranista della Prima Repubblica e l’avvento del finanzcapitalismo trans-nazionale.

Giampiero Marano

Trovi la recensione di Giampiero Marano anche qui
https://criticaitalianablog.wordpress.com/2018/09/06/unallegoria-spietata-del-nuovo-potere/

 

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

di Violetta Giarrizzo

“”È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela”. Così si apre questa prima edizione italiana di Nozioni di Base, con un’introduzione di Milan Kundera che ci fa presagire un libro certamente sui generis.

Petr Král è uno scrittore e poeta ceco nato a Praga ed emigrato a Parigi nel 1968, dopo l’invasione sovietica. È stato una figura di spicco dell’editoria clandestina fiorita a Parigi nonché dell’intelligenza praghese antisovietica. Diplomato alla FAMU di Praga, ha contribuito a veicolare la cultura non ufficiale svolgendo l’attività di critico letterario e cinematografico, ma anche di interprete, traduttore e insegnante, dedicandosi alla scrittura di saggi, sceneggiature, diverse raccolte di versi in ceco e in francese tra cui Enquête sur des lieux (Flammarion, 2005). Ha contribuito anche alla traduzione e alla diffusione della letteratura ceca in Europa, curando importanti antologie come Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).

Il lettore italiano può avvicinarsi a Král poeta con la raccolta di Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni 2014) e alcune poesie tradotte dal ceco e dal francese (rispettivamente da Annalisa Cosentino e da Massimo Rizzante).

Non è, invece, facile incasellare Nozioni di Base (Základní pojmy nell’edizione originale) in un genere letterario predefinito. Edito da Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (pubbicato ”tam” ovvero ”là”, ”altrove”) e tradotto dal ceco da Laura Angeloni, si presenta come una raccolta in prosa di 123 brevi e incisivi pensieri che riguardano svariati oggetti e situazioni della quotidianità dell’autore, che assumono all’interno del libro quasi una connotazione universale.

Definito da Milan Kundera come ”una bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana” si tratta di un collage frammentato di immagini, sensazioni fugaci, epifanie fulminee che lacerano per un istante il tessuto grigio e uniforme della nostra vita quotidiana. Král osserva il mondo, si concentra sugli elementi che appaiono semplici e comprensibili e ne distorce il significato e la funzione. La prima nozione di base riguarda il caffè, una delle immagini più familiari e senza fronzoli per eccellenza, che rappresenta per Král quasi un’improvvisa rivelazione, la coscienza improvvisa della propria esistenza:

”Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”.

Da questo risveglio scaturiscono gli altri micromondi di Nozioni di base, a partire da un’osservazione attenta degli oggetti comuni e apparentemente futili che ci circondano: ed ecco che Král scrive di una camicia pulita ma anche della zuppa di pesce (”…e la gustiamo con cura, ognuno per sé, la coccoliamo e ci attardiamo con lei come con il nostro destino”), dell’attaccapanni e del cestino per la carta che diventa d’un tratto il custode della nostra esistenza. Ma ci narra anche dei nostri luoghi: il bagno degli uomini e il bagno altrui, l’hotel, la Spagna e l’Italia, l’impellente urgenza di rifugiarsi altrove per fuggire dal qui e ora.

All’interno di queste minuscole avventure, raccontate in tre righe o in due pagine appena, affiorano sensazioni e stati d’animo universali e ben conosciuti: il vizio, l’inerzia, la solitudine, l’incompletezza, l’assenza, ma anche la ridondanza, le aspettative deluse, il desiderio e il sollievo.

L’avvicendarsi dei pensieri di Král ricorda e immagini multiformi di un caleidoscopio: l’autore gioca con le gli oggetti in modo imprevedibile, assembla svariati frammenti di vita, osserva le cose da una prospettiva differente, vaga con la fantasia e l’immaginazione. E così l’ordinario si fa straordinario. Scorgere una sagoma dal finestrino di un treno e pensare all’improvviso a tutte le le vite che non saranno mai le nostre, attraversare una strada e rendersi conto delle possibili scelte che ci lasciamo dietro, l’incontro fugace con una donna sconosciuta con la quale avremmo potuto trascorrere tutta una vita, le inevitabili delusioni (”la cavità in cui precipitano senza scopo le nostre mentine rinsecchite non è solo una trappola misteriosa nella stretta di due fianchi, ma è lo sbadiglio dell’intero deserto cosmo”)

Tutto ciò con cui ci scontriamo ogni giorno sembra avere un’essenza nascosta che Král cerca di rivelare e di interpretare attraverso l’introspezione. Ogni cosa ha la potenzialità, quindi, di rivelarci qualcosa di profondo sulla nostra esistenza, di ”svelare il vero bagliore delle cose nella loro usura”, se solo la osserviamo attentamente. E così una giornata passata a languire nella quiete domestica può portarci a delle conclusioni inaspettate sulla nostra vita.

Ho amato molto questa raccolta, un vero e proprio compendio della vita, con la sua struttura frammentaria, il linguaggio asciutto e a tratti corrosivo, in cui ognuno può perdersi e ritrovarsi. Un approccio molto singolare a questo autore di certo da riscoprire.

trovi la recensione di Violetta Giarrizzo anche qui
https://polonicult.com/nozioni-di-base-di-petr-kral/

 

“Il lago”: l’autrice Bianca Bellová intervistata da iliteratura.cz

“Il lago”: l’autrice Bianca Bellová intervistata da iliteratura.cz

“…In Italia il libro funziona molto grazie ai consigli degli stessi lettori. Il Lago è stato pubblicato da una piccola casa editrice di Torino, Miraggi Edizioni, che non ha di certo le possibilità delle grandi corporazioni editoriali, ma cura i suoi libri con un amore che non mi è mai capitato di incontrare altrove. Per esempio dopo una presentazione in collaborazione con una libreria, nella cittadina di Alba, hanno organizzato in una cantina locale una cena di varie portate, e il meraviglioso vino che la accompagnava aveva le etichette che riproducevano la copertina del libro. Qualcuno si è davvero preso la briga di organizzare una cena grandiosa per trenta lettori. È una casa editrice che vive grazie a dei lettori fedeli. E ne viene ripagata. Su Facebook è in corso un appassionato passaparola tra blogger, librerie, biblioteche. Probabilmente Il Lago non diventerà un best seller in Italia, ma di sicuro ha colpito profondamente molti lettori. È successa anche una cosa molto interessante: mentre insieme alla traduttrice Laura Angeloni sceglievamo i brani da leggere, Laura mi ha chiesto di includere il pezzo in cui il protagonista incontra per la prima volta sua madre, perché lo trovava così commovente che ogni volta le veniva da piangere. A me non era mai venuto in mente di leggerlo, non era tra quelli che preferivo e non avevo mai pensato che fosse così commovente. Beh, mentre l’attrice Elisa Galvagno lo leggeva erano tutti con le lacrime agli occhi, compresa me…”

Bianca Bellová, Intervista su Iliteratura.cz

traduzione di Laura Angeloni

“L’uomo tagliato a pezzi”: la recensione di Chiara Ricci su riccichiara.com

“L’uomo tagliato a pezzi”: la recensione di Chiara Ricci su riccichiara.com

L’uomo tagliato a pezzi. Delitti e processi dei “favolosi” anni Sessanta raccoglie la memoria viva e vivace di un “testimone informato sui fatti” dei più efferati crimini e misfatti della Torino dei primi anni Sessanta. Nel volume, infatti, si ripropongono i resoconti di quei processi che hanno segnato – almeno in parte – l’Italia del boom economico. Tra questi vi sono: il processo al vigile Millo Cossetta accusato di omicidio per aver ucciso il ladro della Flaminia dell’allora sindaco torinese Giancarlo Anselmetti; l’assassinio della gioielliera Maria Albera; il terribile omicidio di Chivasso da parte della famiglia – oggi insospettabile cognome – Montalbano che ha fatto a pezzi e chiuso in due valigie la sua vittima; l’estradizione del gangster mafioso italoamericano Settimo Accardo conosciuto nell’ambiente con il nome di Big Sam; la truffa dei concorsi truccati di Radiofortuna, Telefortuna, Giugno radiofonico e Serie Anie che assegnavano premi e automobili a vincitori ben precisi; la fuga dal tribunale da parte di Tarzan alias Angelo Roberto Felice Foresta; e ancora, il processo a Giulio Einaudi, Michele Straniero, Sergio Liberovici, Margot Galante Garrone per aver pubblicato il testo Canti della Resistenza spagnola contenenti due quartine incriminate di vilipendio alla religione e oltraggio al pudore.

“Nozioni di base”: la riflessione di Giorgio Linguaglossa su l’ombradelleparole.wordpress.com

“Nozioni di base”: la riflessione di Giorgio Linguaglossa su l’ombradelleparole.wordpress.com

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo(Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017, per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Con Petr Král ci troviamo senza dubbio di fronte a uno dei maggiori poeti europei: più lo leggo e più me ne convinco. Certo, la sua poesia è lontanissima dalle corde foniche della poesia italiana di questi ultimi decenni. Questo dimostra proprio il valore della poesia di Král, non altro… Del resto, ricordo che il poeta praghese, in una sua noticina, avvertiva già il lettore italiano che si sarebbe trovato davanti una poesia dissimile, molto dissimile, da quella a cui è stato da sempre abituato…

La ricchezza fenomenica della poesia di Král è il risultato di un equilibrio instabilissimo tra la verosimiglianza e l’inverosimile; certi accorgimenti retorici come la sineciosi e la peritropè (il capovolgimento), il deragliamento (controllato) delle sue perifrasi, le deviazioni, l’entanglement sono gli elementi base sui quali si fonda la sua poesia, che ha il privilegio di godere dei vantaggi del surrealismo al quale Král aderì, sia a Praga che a Parigi: un surrealismo innervato nella sua storia e nella sua lingua. Egli proviene dall’esperienza del secondo surrealismo ceco filtrato attraverso la disillusione politica sopravvenuta dopo l’invasione della Cecoslovacchia ad opera dei carri armati sovietici, una esperienza traumatizzante e traumatica, che ha segnato in modo profondo molti altri poeti e scrittori praghesi. Nella prospettiva surrealista, il linguaggio cessa di essere funzionale al referente, si rende improprio alla parola, viene visto come uno strumento non utilizzabile secondo uno schema mentale di adeguazione della parola al referente.

Scrive Lacan:

«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.

È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]

Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.

Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]

Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.

Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

1 J. Lacan Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Oggi, probabilmente, non si può scrivere, in Europa, una poesia veramente moderna, senza fare riferimento, in qualche modo, al retaggio del surrealismo: il surrealismo inteso come allontanamento consapevole del referente e dal referente. In Italia, nella tradizione poetica di questi ultimi decenni (con l’ottima eccezione della poesia di Angelo Maria Ripellino e di Maria Rosaria Madonna e a parte, ovviamente, gli autori della «Nuova ontologia estetica»), non c’è davvero molto del surrealismo: siamo ancora invischiati e raffreddati dentro un concetto di verosimiglianza con il «reale» che ha finito per impoverire la gamma espressiva della poesia italiana.
Dunque, siamo grati ad Antonio Parente per aver reso in mirabile italiano la poesia di questo “ostico” poeta ceco; altrettanto lo siamo all’editore Mimesis Hebenon che, con le sue pubblicazioni, ha fornito una sponda importantissima a quanto andiamo scrivendo intorno alla nuova poesia europea.

Il segreto di questa poesia è in quel concetto di «continuamente presente» di cui parla Petr Král, è in una modalità espressiva che non contempla la «memoria» e, al pari della «musica», risulta incoglibile, se non come assolutamente presente, unicamente presente. «Presente» come manifestazione paradossale dell’Assoluto, assoluto contro – senso, assoluto paradosso, assoluta incoglibilità del paradosso. Quel «presente» che rimane sempre incoglibile. Alla luce di questa impostazione krláiana, tutti i presenti si equivalgono, tutti sono compossibili e tutti assurdi, assoluti e, quindi, inconsistenti, incoglibili se non attraverso esso «presente». È questo il fulcro della concezione della vita e dell’arte di Petr Král. Ed è questa, senza ombra di dubbio, la linea di ricerca della «Nuova ontologia estetica».

Ciò che riesce di problematica identificazione, e perfino incomprensibile, nella poesia di Petr Král dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni, diventa pienamente intellegibile dal punto di vista della «Nuova ontologia estetica». Com’è possibile? Come può accadere questo? La risposta all’interrogativo traspare dai contributi che seguono, di Carlo Livia, di Gino Rago, è negli appunti critici di Donatella Costantina Giancaspero, così come credo sia in queste mie riflessioni. Quanto noi stiamo dicendo e facendo da tempo, è riconoscere e affermare che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «Nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre: innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi, in realtà, non è una categoria retorica, ma un procedimento che concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico), ovvero il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Nei loro testi, non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta ex novo. Così come  accade nella poesia di Petr Král, il raffreddamento della composizione linguistica dà luogo ad uno zampillio di deviazioni, il linguaggio viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale, ma ultronea, sovra reale.

Un augurio speciale a Petr Král nel giorno del suo compleanno.

Trovi la riflessione di Giorgio Linguaglossa anche qui
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/04/ricorre-oggi-il-compleanno-di-petr-kral-lettura-della-poesia-di-kral-dal-punto-di-vista-della-nuova-ontologia-estetica-ermeneutiche-a-cura-di-donatella-costantina-giancaspero-e-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-37686

 

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Mirko Francioni su L’ospite ingrato

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Mirko Francioni su L’ospite ingrato

Per quest’attenzione riservata alla vita dei personaggi, colti in un momento di svolta, in un cedimento esistenziale, alcuni dei racconti di Ghelli – penso in particolare a Quando arriva l’estate e a Il missile – potrebbero prestarsi a uno degli usi più nobili a cui possa aspirare un racconto: essere ripresi in un’antologia scolastica e contribuire così a formare la sensibilità e la ragione delle donne e degli uomini di domani.

Mirko Francioni

“Il lago”: l’autrice Bianca Bellová intervistata da iliteratura.cz

“Il lago”: la recensione di Andrea Cabassi su giudittalegge.it

Nell’agosto del 1986 andai con alcuni amici in vacanza a Praga. C’era ancora il regime e fioco era il soffio della Primavera.

Poco tempo prima di partire ero entrato in contatto con uno studioso e traduttore di letteratura ceca che era un amico di amici. Ci eravamo scritti qualche volta e alla vigilia della partenza mi telefonò e mi suggerì itinerari alternativi a quelli turistici consueti. Poi mi chiese un favore. Mi chiese se, durante la mia permanenza, sarei potuto andare in uno dei musei della città. Vi lavorava come impiegato un suo amico. Aveva dei manoscritti che avrebbe voluto e dovuto far arrivare in Italia. Me li avrebbe consegnati in occasione di una mia visita al museo. Quell’impiegato era stato, ai tempi della Primavera di Praga, docente all’Università. Dopo la normalizzazione non lo avevano più assunto e lo avevano collocato in una posizione lavorativa che, certo, non gli competeva. Questo era il prezzo che aveva pagato per il suo impegno.

Senza riflettere molto dissi di sì, che ero disponibile. Le preoccupazioni vennero dopo.

Immaginai che quello scritto fosse un samizdat.

Quando fummo a Praga, proprio il giorno dopo il 21 agosto, quando la polizia e l’esercito presidiavano Piazza S. Venceslao per timore di proteste in occasione dell’anniversario dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, andammo al museo. Cercai l’impiegato, ma mi dissero che era in ferie. Non ho mai capito se quella fosse la verità. Nei giorni seguenti, però, sia io, sia gli amici con cui ero, avemmo la strana sensazione di essere controllati. Poteva essere una nostra paranoia, però quella sensazione rimase sino all’ultimo giorno della nostra permanenza là. Pensai anche che molti praghesi dovevano vivere quotidianamente quello stato d’animo che noi stavamo vivendo eccezionalmente.

Continuammo la nostra vacanza senza scrollarci di dosso la pesante percezione di essere seguiti e controllati.

L’ultimo giorno del nostro soggiorno partimmo da Praga, destinazione Brno dove andammo a visitare lo Spielberg. Poi proseguimmo fino alla frontiera con l’Austria. Al confine ci smontarono letteralmente l’auto alla ricerca di non so cosa, forse di un samizdat. E’ vero che, a quei tempi, era prassi consolidata fermare per lunghe ore le auto e ispezionarle in modo ossessivo. Ma noi ci insospettimmo ulteriormente e ci preoccupammo molto. Passarono delle ore poi ci lasciarono andare. Quando arrivammo dall’altra parte tirammo un sospiro di sollievo. Eppure né io, né gli amici che mi avevano accompagnato ci pentimmo di essere andati a cercare quell’impiegato che doveva consegnarci i dattiloscritti anche se la missione era fallita, ma non per colpa nostra. Nessuno di noi voleva fare l’eroe -ci mancherebbe altro! Gli eroi compiono ben altre azioni!- però ci dicevamo che sì… per i libri… per la letteratura… per la letteratura si può e si deve rischiare…

Faccio un passo indietro. Per paradosso, mentre stavo facendo la valigia, dopo aver accettato di far visita all’impiegato del museo, non vi misi “Praga magica”, lo splendido libro di Angelo Maria Ripellino.

 

Angelo Maria Ripellino è stato uno straordinario intellettuale e un grandissimo studioso della letteratura ceca. Quello che abbiamo conosciuto di essa, soprattutto in quegli anni, è stato grazie a lui. “Praga magica” (Einaudi. 1973), proibito in Cecoslovacchia, era un libro che avevo letto, riletto, annotato e pieno di post-it. Lo avrei voluto portare con me e usarlo come guida. Dovetti rinunciare.

Angelo Maria Ripellino non è famoso solo per “Praga Magica”, ma anche per a aver scritto una bellissima “Storia della poesia ceca contemporanea” (E/O. 1981), per averci fatto conoscere ed essere stato uno dei traduttori di alcuni testi di uno dei più famosi scrittori praghesi, Bouhmil Hrabal, per averci fatto conoscere un altro grande scrittore di Praga, Ladislav Fuks. Sua la cura de “Il bruciacadaveri” (Einaudi 1972) con la traduzione della moglie Ela Ripellino Hoclova. Suo il merito di aver affidato la traduzione di “Una buffa triste vecchina” (Garzanti 1972), ad una delle sue allieve, che sarebbe diventata un delle più importanti slaviste italiane, Serena Vitale.

La mia vicenda autobiografica, il lavoro di Ripellino, i libri di Ladislav Fuks mi sono venuti simultaneamente alla mente – e non è un caso- e non mi hanno più abbandonato, durante la lettura del bellissimo e sorprendente “Il lago” della scrittrice praghese Bianca Bellovà (Miraggi. 2018), romanzo vincitore, nel 2017, del Premio Unione Europea per la Letteratura e del Premio Magnesia Libera della Repubblica Ceca.

Alcuni personaggi de “il lago”, come la Vecchia Dama, come il presidente del Kolchoz, come Nikitich, come Jhonny, ricordano i personaggi di Fuks: come marionette, appaiano e scompaiono in un clima da fiaba nera.

A questo punto, però, è necessario soffermarsi sul libro di Bianca Bellovà che la casa editrice Miraggi ha pubblicato nell’ottima traduzione di Laura Angeloni in una collana che è stata felicemente battezzata NovàVlana, “Nouvelle Vague”. Bello quello che si legge in fondo al libro:

NovàVlana è la nuova collana italiana di letteratura ceca e prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca degli anni della Primavera di Praga.

In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali”.

Aggiungo che è molto bello vedere che tra le prossime pubblicazioni figura proprio il libro di Fuks “Il bruciacadaveri”, ormai introvabile.

“Il lago” è una fiaba nera, nerissima, è un romanzo di formazione, è una ricerca, a tratti disperata, delle origini, è una denuncia della dittatura, della presenza russa, quasi una forza di occupazione, nelle zone del lago di Aral, è una denuncia della terribile catastrofe ecologica che ha colpito il lago . Anche se i villaggi hanno nomi inventati e il nome della capitale non è mai citato, il lago di Aral è facilmente identificabile. Il prosciugamento del lago di Aral è stata, ed è tuttora, una delle più grandi catastrofi ecologiche del novecento. Questo lago salato, di origine oceanica, si trova alla frontiera tra Uzbekistan e Kazakistan. Dal 1960 la sua superficie si è ridotta del 75% e dei 68.000 chilometri quadrati originali ne resta solo il 10%. Il restante 90% è sabbia. Il regime sovietico aveva fatto deviare il corso di due fiumi che si immettevano nel lago tramite dei canali. L’acqua prelevata andava ad irrigare i campi a coltura intensiva, soprattutto quelli di cotone. Senza l’apporto dei fiumi il lago si è prosciugato e, inoltre, nei campi di cotone sono stati usati diserbanti peggiorando la già terribile situazione.

Si diceva che il libro è, tra le altre cose, un libro di denuncia: della catastrofe ambientale e della presenza russa in quelle zone.

La denuncia della presenza russa risulta evidente dalla descrizione delle piazze e dei villaggi: in ognuno di essi troneggia la statua o il busto dello Statista. Che potrebbe essere Stalin ma, ancora più verosimilmente, Putin, quel Putin anche troppo vezzeggiato da alcuni paesi dell’occidente.

E’ soprattutto la descrizione di questa presenza che mi ha fatto rammentare, mentre leggevo, Ripellino e il mio soggiorno a Praga nel 1986, quando si era in piena dittatura.

Bianca Bellovà scrive:

“Questo è l’inferno. Un lembo secco di terra su cui non crescono nemmeno i cardi. Non dà niente di cui vivere. Perché dovremmo rimanere qui a sgobbare per i russi, che hanno cacciato tutta questa gente dalle loro case? Non ha senso!” (pag.143).

Torno brevemente alla trama: Nami è orfano, vive con i nonni che, poi, moriranno sul lago. In un periplo intorno al lago, quel lago così inquinato che produce bambini deformi, eczemi, sintomi di ogni genere in chi si bagna nelle sue acque che sempre più si ritirano, egli è alla ricerca della madre, quella madre che, forse, gli appare nelle prime pagine del romanzo in forma di bikini:

“Dev’essere domenica, se sta lì sulla coperta col nonno e la nonna. C’è qualcun altro, Nami ricorda le tre macchie rosse di un costume. I te triangoli di un bikini, e sopra, un fascio di capelli neri ben pettinati, una coda di cavallo. E due ciuffi di peli neri sotto le ascelle. I tre triangoli si muovono lenti, girandosi e rigirandosi sotto il sole finché ne resta uno solo. Non lontano dalla riva un pesce gatto fa guizzare pigramente la coda” (pag. 5).

Questo è il notevole incipit del libro. Un primo capitolo che si intitola “Uovo” e che è ambientato nel paese di Boros. Ma è l’incipit di ogni capitolo che ha grande forza narrativa e introduce immediatamente al tema. Il secondo capitolo è intitolato “Larva” ed è ambientato nella capitale che è così descritta:

“Se dovesse descrivere la città, Nami non saprebbe da dove iniziare. I palazzi sono così alti che Nami tende istintivamente a farsi piccolo e i suoi occhi cercano di continuo l’orizzonte. L’aria è piena di clacson che strombazzano, di marmitte che scoppiettano e grida. Una donna rimprovera ad alta voce un bambino che piange. Si sente odore di escrementi, ma anche profumi dolci e di grasso di frittura. In aria svolazzano fogli sporchi e polvere. Le persone hanno un aspetto un po’ diverso; gli occhi sono più luccicanti, luminosi, e si muovono più velocemente. Anche i cani vagabondi sembra vadano più di fretta. I muri sono coperti di vari strati di manifesti colorati. In basso si staccano, raccogliendo la polvere nell’aria” (pag,64).

Il terzo capitolo, “Crisalide”, ambientato nel villaggio di Kuce, inizia così:

“Kuce è un villaggio in mezzo al deserto, raggiungibile dalla capitale dopo undici ore di strade polverose. Lungo il villaggio scorre un canale che irriga i campi di cotone. E’ stato scavato anni prima dal fiume Dera, che sfocia nel lago. In qualsiasi direzione guardi, Nami non vede altro che infiniti campi innevati di cotone: cotone, cotone, cotone” (pag.131).

E, infine, il quarto e ultimo capitolo, “Imago”, il capitolo del ritorno, dapprima alla capitale, poi a Boros comincia in questo modo drammatico:

“Il viaggio per la capitale è lunghissimo e spossante. Nami ci mette quasi una settimana intera, un pezzo in autostop e poi dei lunghi tratti a piedi. Dalla strada vede in lontananza un villaggio bruciato. Incontra varie colonne militari russe. I soldati sono taciturni, smarriti nei loro pensieri. Il deserto sembra non aver fine, ormai si trascina fino alla capitale. La città è ammutolita, lungo la strada, a dargli il benvenuto, trova carcasse bruciate di automobili, le vetrine dei negozi sono rotte o coperte da assi inchiodate. Le bancarelle del bazar sono abbandonate e distrutte, in aria svolazzano pezzi di giornale piegati a cartoccio, quelli in cui si vendono i semi di zucca tostati”. (pag. 153).

Il titolo di ogni capitolo è un passaggio evolutivo, segna il processo di crescita di Nami. Egli attraversa paesaggi in cui il lago, con la catastrofe ecologica che porta in sé, è sempre presente. Paesaggi costellati dall’ingombrante presenza russa e costellati di rovine, quelle rovine che hanno ispirato importanti riflessioni a Walter Benjamin e che Bianca Bellovà tratteggia con grande efficacia:

“Il sole è ormai basso, l’orizzonte dietro la baia si colora di rosso. Contro di esso si stagliano gli scheletri dei pozzi petroliferi, alti animali estinti, mostri a sette livelli con le schiene intessute di scale traballanti. Si ergono sulla superficie sopra delle piattaforme che di tanto in tanto lo Spirito del lago fa affondare sott’acqua; ma oggi no, il lago è calmo e la serata gradevole” (pag. 80).

In un mondo dove sembra si sia rotto ogni legame sociale e dove la presenza russa si fa sentire in ogni manifestazione della vita quotidiana, Nami, nel suo viaggio, incontra anche persone a cui è rimasto ancora un barlume di pietas come Nikitich, sfruttato come lui, il marinaio traghettatore Vaska che, con rassegnata indignazione seguirà la caccia agli animali presuntamente contaminati che vivono in un isolotto del lago non lontano dalla capitale e che aiuterà Nami in un momento molto difficile per lui. Nami incontrerà, poi, la Vecchia Dama che sembra uscita, pur nella sua assoluta originalità, dalle pagine di un libro di Ladislav Fuks. Incontrerà anche un altro personaggio  molto importante e sarà un incontro toccante. Lascio al lettore il piacere di scoprire come e con chi sarà l’incontro.

Il linguaggio è scabro, le situazioni spesso violente e che ti lasciano senza respiro. In mezzo ad esse descrizioni improntate ad una certa nostalgia come quando viene descritta la casa della Vecchia Dama:

“Vive in una di quelle ville sontuose, con le recinzioni coperte d’edera e le iniziali dei proprietari incise sulle facciate cadenti, e i giardini pieni di meli selvatici, mandorli, melograni, fichi, e cespugli secchi di malvarosa” (pag.,118);

o liriche come quando viene descritto il deserto intorno a Kuce:

“L’aria è limpida, sembra non contenere assolutamente niente a parte le particelle polverose della sabbia nera del deserto che fluttuano leggere sopra il terreno. Verso l’alto si avvicina a un azzurro accecante. I suoni nell’afa ardente si perdono come nel vuoto, come il grido soffocato di Nami nel cuscino” (pag. 132).

Momenti che sembrano dare un attimo di tregua al lettore. Ma è una tregua che dura l’espace d’un matin. Nami, inesorabilmente, cresce, conosce l’amore, la violenza, l’amicizia, le delusioni e il suo ritorno a casa è un ritorno problematico. Come fa notare il grande filosofo francese di origini russo-ebraiche, Vladimir Jankélévitch nel suo libro “L’irréversible e la nostalgie” (Flammarion. 1974. Pag. 360-67), Ulisse, quando ritorna ad Itaca, non riconosce la sua isola a causa dell’intervento di Atena e non è immediatamente riconosciuto. Anche in un altro suo libro “Il non-so-che e il quasi –niente” (Einaudi. 2011) il filosofo francese torna sull’argomento del ritorno parlando del figliol prodigo:

“… la casa che torna ad accogliere il figliol prodigo  non è la stessa che questi aveva lasciato andandosene via; è ancora la casa del padre, e al tempo stesso non lo e più. E’ un’altra casa! Da parte sua, il figlio, temprato dalle prove sostenute, maturato dalle tribolazioni, non è più lo stesso figlio: è un altro figlio che ritrova un altro padre. Insomma, nulla è più come prima… il tempo si è portato via ogni cosa nella relatività del suo flusso universale, compreso il sistema di riferimento che serviva a conteggiare gli anni. Il tempo è nel frattempo trascorso, e questo tempo è un divenire irreversibile”. (pag.174)

Anche per Nami, sorta di Ulisse dell’Est e figliol prodigo sui generis, il tempo è irreversibilmente  passato quando ritorna a Boros dopo il suo periplo intorno al lago. Fatica a farsi riconoscere, fatica a riconoscere Boros:

“Gli sembra di vedere Boros in lontananza. Sullo sfondo c’è la rupe di Kolos, anche se sembra un po’ più piccola. Più piccoli sono anche la via dei pescatori e il complesso residenziale russo, le strade paiono più strette. Si strofina gli occhi e gli sembra di essere arrivato in un’altra città. Una città piccolissima, una città per bambini. Ma il tronco del trasmettitore interplanetario sulla collina è ancora lì, non ci sono dubbi: Nami è arrivato a Boros.

Nami accelera il passo e si avvicina al paese, ma le proporzioni rimangono invariate. Solo il lago si è rimpicciolito talmente che l’acqua si vede a malapena, lontano. Nami continua a guardarlo ossessivamente, ha l’impressione che il lago si ritiri come si ritira il mare prima di uno tsunami, e che fra un po’ spazzerà via tutto. Ma la superficie dell’acqua luccica in lontananza e rimane immobile. Distante, quasi all’orizzonte, si estendono le flotte delle navi da carico arrugginite, sepolte nella crosta di fango secco. Alla loro ombra riposano dei cammelli” (pag.165-66).

Se il tempo è irreversibile, proprio questa irreversibilità ha fatto maturare Nami, lui così legato ad un passato che non passa, ad eventi con i quali deve ancora fare i conti. Riuscirà, nel divenire irreversibile del tempo, a sciogliere i nodi e a liberarsi di quel passato che non passa? Al lettore scoprirlo.

Il romanzo è in terza persona, ma lo sguardo, per usare termini presi a prestito dalle tecniche cinematografiche, è sempre in soggettiva. Vediamo le cose attraverso lo sguardo di Nami, il senso che diamo loro è il senso che le dà Nami, viviamo con lui le sue paure, le sue angosce, le sue rabbie, la sua trepidazione. Ha ragione la traduttrice Laura Angeloni quando scrive, in bandella del libro,

“Vuoi essere al suo fianco nella dolorosa, sfiancante, ricerca di sua madre e delle sue radici e ciò che ti muove, oltre all’amore per le parole, è la speranza che gli sia concessa una tregua, di vederlo rinascere… Non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per un’ora, almeno per un po’”.

“Il lago” è un bellissimo e sorprendente romanzo. E ci fa pensare che i libri dobbiamo difenderli sempre: dagli indici dell’Inquisizione, dai roghi nazisti, dalle liste di proscrizione dell’impero sovietico, dalle tentazioni di censura che ancora si manifestano anche nei paesi europei. Se per un romanzo come quello di Kaouther Amidi, “La libreria della rue Charras (L’Orma. 2018 ) si può dire che i libri hanno il compito di unire le sponde del Mediterraneo, per “Il lago” possiamo e dobbiamo dire che i libri dovrebbero essere l’antidoto alle catastrofi ecologiche, alle dittature, all’avanzare minaccioso della barbarie. Dovrebbero avere il magico potere di non far più accadere quello che mi accadde nel lontano agosto 1986 a Praga.