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“La vita è stanca”: la recensione di Donatella Genta su d.repubblica.it

“La vita è stanca”: la recensione di Donatella Genta su d.repubblica.it

di Donatella Genta

Appassionati di romanzi dove la storia si snoda a più voci? In questo romanzo corale, in cui sono fondamentali l’immagine e l’immaginazione, Batsceba Hardy (fotografa che vive a Milano, dopo molto tempo trascorso a Berlino) ci parla dell’arte dell’imperfezione e descrive bene e in modo avvincente con la forza di un diario polifonico la storia di due gemelli, Annalia e Andrea, prima fratello e sorella, ora entrambi di sesso femminile, in cerca di sé e di un nuovo reciproco rapporto.
Le loro vite pian piano tornano ad amalgamarsi, circondate da animali parlanti, un cane e un gatto vecchio e molto saggio, una senzatetto filosofa e un musicista. I rapporti che si instaurano tra i protagonisti sono ‘deboli’, ma delicati. Tutti tendono alla ricerca della verità, tutti tendono all’amore, tutti tendono alla ricerca del proprio ‘essere’

Un romanzo diario, scritto con una scrittura magnetica che saprà tenervi incollati alle pagine durante la lettura sotto l’ombrellone, soprattutto grazie all’abilità della scrittrice di zummare sempre molto delicatamente sulla vita dei protagonisti e i dettagli che li circondano, ma soprattutto in grado di farci riflettere su di noi su quello che siamo e quello che vogliamo.

Leggi la recensione di Donatella Genta anche qui
http://d.repubblica.it/life/2018/08/01/news/libro_estate_2018_la_vita_e_stanca_batsceba_hardy-4064793/

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

di Gianluca Garrapa

G.G.: Perché Marguerite Duras, un cui passo riporti in esergo, dovrebbe essere, se lo è, il punto di riferimento per comprendere la scrittura degli Autismi?

G.S.: Mi toccano assai queste frasi sull’essenza non razionale della scrittura, come del resto tutto il magnifico testo dal quale le ho tratte e tradotte, Ecrire. E poi amo moltissimo questa autrice, e mi sembra che non si colga appieno la sua importanza fondamentale su tantissime scritture dell’intimità, per chiamarle così, che sono venute dopo di lei.

G.G.: Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Straniante è la tua scrittura perché, appunto, crea i buchi nel quotidiano e crea degli impossibili. Tragitti che ruotano attorno al dato autobiografico che non diventa mai autoreferenza, a dispetto del titolo del lavoro: Autismi. Autoironia, autoconsapevolezza. Le auto. Le macchine che prendono vita e, quasi, da oggetti inanimati s’innalzano a soggetti di memorie… scrivi: Nel mio sguardo sfilano le automobili parcheggiate. Le vie addormentate del mio quartiere sono stipate di macchine, perché poverine non sanno dove altro andare a dormire, mentre i proprietari ronfano placidamente nei loro letti, o anche si dedicano a indiavolati atti sessuali.

Gli oggetti pungono lo sguardo, anche del lettore. Non mi era mai capitato di provare questa forma di animismo nei confronti delle cose. E le cose, qui, gli oggetti sistemati spesso in elenchi, sono strappi all’anonimato quotidiano e diventano cause degne di attenzione. Penso alle bottiglie di Morandi, a Duchamp, al ready-made, all’operazione di rendere strano un oggetto comune, sottrarlo all’inorganico robotico, non è tanto la poetica dell’oggetto umile, ma l’etica di uno sguardo che tutto abbraccia. Alcuni elenchi: Arrivano gravati di sci, tavole da surf, biciclette, pattini, racchette, mazze da golf, creme solari, macchine fotografiche, paracaduti, corde, ramponi, pinne, aquiloni, canne da pesca, salvagenti, archi, balestre, attrezzature di ogni genere. Un elenco che, nel quarto elenco… volevo scrivere ‘episodio’ (il lapsus che ha trasformato episodio in elenco, non è fuorviante: ogni episodio può essere visto come individuo a sé stante e come elemento di una classe più vasta e l’errore in sé, in questo libro, quella mancanza che trascina tutto il racconto, è proprio spinta del soggetto a, da un lato, identificarsi con il mondo, dall’altro a ritrovare in sé la propria radicale diversità dal mondo, e la scrittura di Sartori, nello humour e nella non casuale semplicità, lo è); nell’episodio La mia città, l’elenco, mi pare, serve meno a ossessionare una pratica nevrotica di accumulazione di oggetti, sempre feticci e ombre del grande oggetto materno, che a delineare i caratteri dei loro possibili possessori maschi o femmine, di ogni genere. Oppure, parlando della madre, in Il mio organo della riproduzione, viene stilato un elenco degli ‘ostacoli’ che si pongono tra lui-bambino e la mamma. Quel desiderio di essere desiderato dalla madre, classico groviglio di narcisismo e disperazione: non c’è scrittura sincera che non sia generata dal Desiderio, dal vuoto incolmabile. Ma l’elenco: Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo, l’elenco è pur sempre un girare attorno, un torno e ritorno, un investigare, e la madre diventa tutte quelle cose che impediscono a lui-bambino di essere il privilegiato, l’unico e insostituibile… direbbe lo psicoanalista, o la terapeuta di Terapia di copulazione. In realtà Sartori non si sta lamentando, non sta scrivendo il suo male oscuro… anzi! Lui se la ride, ironizza sul luogo comune che vuole tutti i problemi generati dall’irrisolto Edipo. Ma traduce in chiave quasi umoristica il proprio disagio, supposto che davvero Sartori stia facendo, magari inconsciamente, di questa scrittura una terapia. Insomma, se il racconto di Autismi sia autobiografico o meno, non saprei dirlo, ma di certo non è questo, credo, che vuol evidenziare l’autore, quanto l’architettura di ogni episodio, legato al successivo proprio da un principio di elencazione: intorno alla propria esistenza ruotano i quadri che raffigurano momenti quotidiani: il lavoro, la malattia, la città, la famiglia, i ricordi, gli amici, la morte, la cacca. La mia cacca è un episodio assurdo: Cominciavo a percepire me stesso in una maniera completamente diversa: mi guardavo nello specchio, e vedevo il tubo digerente che ero. È un momento centrale, l’epifania di tutta la scrittura di Sartori: il vuoto che ci abita e che genera non solo la possibilità di ospitare l’altro ma soprattutto di mettere da parte quel narcisismo che apparentemente tradisce il titolo del libro. Siamo costruiti intorno a un vuoto, sembra dirci la prosa di Sartori: c’è sempre per tutto il libro un sottile senso di disagio come impossibilità intrinseca di poter andare oltre, e sempre, la situazione più comune e quotidiana, diventa di più profondo significato sociale e politico.

G.G.: Che rapporto hai, se ce l’hai, con la letteratura psicoanalitica e quali sono stati i tuoi riferimenti letterari nella stesura dei tuoi Autismi?E che rapporto hai con la politica e con l’ideologia politica?

G.S.: Io non sono un teorico, insisto sempre su questo punto, per il semplice fatto che guardandomi attorno vedo che moltissime persone, professionisti del pensiero ma anche semplicemente individui molto intelligenti, sono molto più dotati di me per il pensiero astratto e filosofico. Ciò detto che dietro a tutti i miei testi ci sono tantissime letture teoriche, anche appunto di psicoanalisi, perché non vedo come uno scrittore contemporaneo, qualsiasi cosa scriva, possa ignorare il suo apporto. Checché si possa dire di questa, e sui suoi limiti, mi sembra che solo lei riesca a scavare nei comportamenti e nei funzionamenti intimi delle persone. A me in ogni caso ha apportato moltissimo. Ma ripeto, il mio interesse non è cerebrale, a me preme capire le persone, e riportare questo mio sapere nei testi che scrivo, che è quello che so fare bene. E lo stesso si può dire della politica, nei miei testi c’è tantissima politica, e mi fa piacere che la persona che mi traduce in inglese, Frederika Randall, lo abbia sottolineato nelle sue considerazioni su questa raccolta di racconti, che potrebbe essere considerata agli antipodi della politica. Perché anche l’intimità delle persone, l’intimità più abissale e nascosta, che è quello che più mi interessa, è – lo dici molto bene tu stesso – rapporto con gli altri, con la società in cui si vive, con le forze economiche e politiche che la reggono, con i fondamenti ideologici espliciti e impliciti. Però anche qui le piste nei miei testi sono nascoste e mescolate, non ci sono mai dei messaggi univoci e facilmente riassumibili.

Perché il tema politico torna sempre nella rievocazione del padre fascista e del paese bigotto e cattolico e si riflette in queste alte montagne, ostacolo della percezione e della riflessione: L’unica soluzione sarebbe spianare le montagne, in modo da permettere finalmente allo sguardo di spaziare, all’aria di circolare, al sole di tramontare sulla linea dell’orizzonte, alle idee di maturare serenamente: la soluzione sarebbe di spianare gli ostacoli, e di colmare il vuoto del desiderio. Intendimento irrealizzabile che bloccherebbe non solo la scrittura di Sartori ma la scrittura tout court: La mia volontà di attraversare mi appare ormai come un invincibile despota, un tiranno al quale non mi resta che arrendermi. Adesso vado!, mi dico, irrigidendo le spalle.

Poi però rimango sul solito marciapiede, quello di sinistra: scrive nel penultimo episodi Le mie passeggiate, un episodio che non può rievocare, credo, una psicogeografia fatta di ossessioni e ricordi simil-nevrotici, ma anche da un’ansia del territorio per cui il soggetto non si decide a passare dall’altra parte o a lasciare la sua terra (tentennamento che dissolve in malinconia quel disprezzo che dichiarato per la sua città e le montagne al momento del dipartire:,Mi dico che le vedo per l’ultima volta e ne provo quasi un malinconico struggimento; oppure in maniera più incisiva in La mia patria fuggitiva: Allora ho capito che ero un italiano, lo sarei sempre stato).

E che rapporto hai con il tuo territorio nella vita di tutti i giorni quando non fai lo scrittore?

G.S.: Io sono cresciuto in Trentino, e anche se poi a diciotto anni lo ho lasciato, ci sono sempre ritornato, e tra le altre cose lo ho battuto palmo a palmo per il mio lavoro. Quindi lo considero la mia terra, e se penso all’Italia mi viene naturale di pensare in primo luogo alla mia regione, e anche molti miei scritti hanno a che fare con essa. E è un territorio con il quale ho un rapporto complesso, appunto. Ci sono molte cose che detesto, ma la psicanalisi – visto che abbiamo parlato di psicanalisi – e anche la spiritualità, ci insegnano che non c’è avversione e rancore senza vicinanza, senza incarnare noi stessi quegli attributi che ci danno noia.

G.G.: Gli episodi sono stratificati, è vero, ma è come se, scivolando verso la fine, si risalisse in superficie, o viceversa, e l’andamento, spesso, è una scalata: si arriva in vetta e si ridiscende e il dato di fatto iniziale muta sguardo, un’anamorfosi, trasformazione, come se il tragitto, per avercelo fatto attraversare, modificasse il territorio, e l’ipotesi iniziale contraddice la spinta propulsiva del racconto e si converte nel suo contrario o complementare: quel che credevamo un esistente si fa allucinazione, quel che viene a galla come un distacco è una liberazione e la liberazione a sua volta sprofonda lentamente nel rimpianto, nell’inquietudine kafkiana dell’assurdo esistere, sembrava prossimo alla morte e invece è solo un disagio del corpo, sembrava merda e invece è oro. La scrittura di Sartori scava, scala, scavalca, si muove in direzioni opposte, è profonda e superficiale, anima gli oggetti e individua l’automatismo dei soggetti, concede un’anima alle macchine ma denuncia la morte-in-vita dei suoi paesani umani, accusa gli altri di essere fatti male per poi giungere alla conclusione amara e ironica di essere lui stesso fatto male, proprio come succede con la sorella che descrive nell’episodio Mia sorella. Punti di vista differenti, una prospettiva che non si accontenta del proprio sguardo e chiama a testimone lo sguardo altrui.

Perché è un istigatore Andrea Raos?

G.S.: Il poeta Andrea Raos, che avevo conosciuto a Parigi, all’epoca anche lui viveva lì, nel 2005 mi aveva chiesto ripetutamente se volevo collaborare con Nazione Indiana, e se volevo entrare nel blog come redattore. Io per un po’ ho nicchiato, perché all’epoca ero molto lontano dalle cose del web, poi invece ho cominciato a scrivere questi racconti, che lui postava mano a mano, e per me è stata una esperienza bella e ricca. A differenza dei romanzi i racconti hanno bisogno di essere desiderati, o insomma di avere una loro possibile destinazione, e per molti versi si portano dietro l’energia della contingenza dalla quale nascono. A me almeno succede così. In ogni caso senza Nazione Indiana questi testi non avrebbero mai visto la luce. E poi ho finito per entrarci a tutti gli effetti, nel blog, e anche questa per me è stata un’esperienza importante.

G.G.: Ingannevole quel ripetitivo mio mia nel titolo della maggior parte dei capitoli-episodi: proprio perché non v’è nulla di ‘mio’ ci si può permettere di dichiararlo tale, è proprio perché non v’è niente di autoreferenziale che l’autore può chiamare Autismi questa raccolta di episodi apparentemente a sé stanti. Ma raccontaci qualcos’altro degli Autismi pubblicati sul blog collettivo Nazione Indiana.

G.S.: La cosa bella è che i lettori commentavano i racconti, anche in modo molto critico, o al contrario esprimendo la propria ammirazione. Dieci anni fa si era in un’epoca differente, i blog letterari erano ancora pochi, e i lettori erano forse più attenti, o insomma avevano più tempo a disposizione. La mia impressione è che oggi l’offerta sia così grande, tra blog, social eccetera eccetera, che le persone facciano fatica a stargli dietro, e lo facciano in modo compulsivo, e senza quella reale attenzione e quel coinvolgimento che mi sembrano essere la specificità e la bellezza della fruizione dei testi letterati. In queste condizioni non si potrebbe ripetere l’esperienza degli Autismi, non avrebbe senso, mi pare.

G.G.: L’ultimo episodio si intitola Il mio testamento biologico e mi sembra che concluda egregiamente il circolo intorno al vuoto del desiderio con un commiato esistenziale, sociale e politico sui diritti umani, che è pure un ritorno alla terra-madre, terra nel suo significato ancestrale e ontologico opposto o complementare a quello assunto dallo stesso termine nel primo episodio Il mio lavoro in cui la voce narrante racconta il mestiere dell’agronomo: la voce narrante di Autismi possiede un corpo ben piantato nella terra e la sua scrittura, come suo doppio sulla carta, s’innalza quasi-albero. Non passa inosservato il contrappunto tra le parole del primo episodio: O forse giacerò anch’io già nella terra, e le parole dell’ultimo: Per parte mia avrei continuato a vegetare, perché proprio questo è sempre stato il mio traguardo.

E per parte mia vi auguro una buona esplorazione dell’animale terrestre che dunque siamo e che Sartori rappresenta con una tecnica estremamente originale.

Leggi l’intervista di Gianluca Garrapa anche qui
http://www.satisfiction.se/autismi-intervista-a-giacomo-sartori/

“Tutto dovrebbe essere migliore”: la recensione di Serena Adesso su mangialibri.com

“Tutto dovrebbe essere migliore”: la recensione di Serena Adesso su mangialibri.com

La ragazza non sa come vestirsi. Ha un appuntamento. Continua a guardare i suoi vestiti e a scartarli mentalmente. È sempre più agitata. Sempre più angosciata. Chi ti credi di essere? Si chiede nella sua mente. Cerca di tenere a bada l’ansia muovendosi, il movimento allevia la tensione. Aspetta. L’uomo arriva. È in ritardo. Lei sa che le deve delle scuse e delle spiegazioni. È il suo allenatore e non ha permesso che giocasse da tempo. Lui le spiega il perché: è invidioso della sua bravura. Lei è incredula. Lui le dice che è il modo più facile di fermarla quella di ripeterle che non è capace di fare bene nulla, che nella vita saranno in tanti a cercare di fermarla utilizzando questo modo. Lei non deve arrendersi. Mai. E lui non sarà mai più il suo allenatore. La ragazza si ferma. Immobile. Piange… È la sera di Capodanno. C’è frenesia, al centro di Roma. Tutti in metro si spostano per festeggiare l’inizio dell’anno nuovo. Lei è seduta al suo posto vestita da geisha. Una donna che non conosce le si avvicina. Si siede al suo fianco. Cominciano a parlare. Il tempo diventa liquido. Scorre come acqua. Le due donne arrivano al capolinea ed è ormai già mezzanotte… Quando lei ha conosciuto lui ha imparato una lezione di vita fondamentale: bisogna fidarsi del proprio corpo. Sempre. Ascoltarne i segnali. Non bisogna far sì che sia la paura a vincere. Bisogna combatterla la paura. Lui è stato in coma per sei mesi. Al risveglio metà del suo corpo è paralizzata. Lui sfida la paura ogni giorno…

Alessandra Perna, musicista, ha suonato per quattro anni nel gruppo punk italiano Luminal, si dedica alla musica e alla scrittura, è eclettica e dichiara di “fare quello che vuole, sempre”. Ha già pubblicato un romanzo (Non farti fregare di nuovo) e ora rilancia la sua scommessa con la letteratura pubblicando questa intensa raccolta di racconti. Trentatré storie estremamente brevi: esattamente come le canzoni punk che scorrono nelle vene dell’autrice. Le storie mettono a fuoco dei brevi momenti nella vita dei protagonisti: sono epifanie, momenti di estrema lucidità in cui i protagonisti analizzano la loro vita, cercano di capire quale direzione imboccare, quale strada percorrere e come affrontare le difficoltà che faticano a superare. I racconti sono scritti in maniera paratattica, con frasi brevi e taglienti, sembra di leggere tanti frammenti, schegge di realtà che colpiscono al cuore il lettore. Ed è proprio questo modo di scrivere in maniera frammentata che è assieme il punto di forza e di debolezza del lavoro di Alessandra Perna. Non riusciamo a provate empatia con i suoi personaggi, tutto ci travolge con grande forza e tutto scorre troppo rapidamente. Sarebbe stato bello approfondire, limare, fornire un quadro più ampio delle situazioni e invece ci pare di leggere degli haiku.Tutto dovrebbe essere migliore si legge a ritmi serrati, il tempo di un pogo ed è tutto finito.

Leggi la recensione di Serena Adesso anche qui
http://www.mangialibri.com/libri/tutto-dovrebbe-essere-migliore

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

“Autismi”: la recensione di Luca Ricci su altrianimali.it

Alla maniera dei grandi moralisti francesi, Giacomo Sartori anziché fare i pistolotti dimostra di avere una coscienza. Questa esibizione, non disgiunta da un certo narcisismo indispensabile all’atto letterario, è ora un libro intitolato Autismi, già celebre perché pubblicato a puntate nel corso di svariati anni sul lit-blog Nazione indiana. Anche se la sua collocazione naturale sarebbe la Piccola Biblioteca Adelphi, ad occuparsene stavolta sono i tipi di Miraggi Edizioni. Come in Montaigne o in La Rochefoucauld, Sartori compone uno zibaldone di pensieri e piccole storielle, procedendo per balzi e strappi, ribadendo nei titoli dei pezzetti l’uso del pronome possessivo mio: Il mio lavoro, Il mio primo infarto, Il mio attuale editore… L’io di Sartori, micragnoso nell’arte dello storytelling (per fortuna), non lesina spietatezze e illuminazioni. Si occupa di quello di cui si può occupare una coscienza, cioè di tutto, dalla patria alla cacca.

Luca Ricci

 

Leggi la recensione di Luca Ricci anche qui
http://www.altrianimali.it/2018/07/19/cosa-leggi-questa-estate-i-consigli-dalluniverso-altri-animali-2018/

 

 

 

“La vita è stanca”: la recensione di Alessandra Farinola su Mangialibri

“La vita è stanca”: la recensione di Alessandra Farinola su Mangialibri

Sono passati sei mesi dall’ultima operazione, dal letto di metallo, dall’anestesia, dal candore tutt’intorno, dall’ospedale, dalla voce dell’infermiera, dalla totale asepsi. Andrea guarda il tutor a forma di sesso. Sorride. Apre l’armadietto sotto il lavandino e lo getta nella pattumiera. Ringrazia, ma non ne ha più bisogno. I giorni sono scivolati, uno dopo l’altro, come i grani del rosario di quella nonna il cui unico ricordo è proprio raccolta in preghiera col velo in testa in chiesa. Il caffè borbotta sul fuoco. Allunga una mano, spegne il gas e si ritrova a riflettere sul fatto che compie sempre gli stessi gesti. Tutto è uguale a prima. Eppure ora tutto è completamente diverso. Prende le chiavi di casa. Prima di uscire si guarda nello specchio. Le gambe sono lunghe. La muscolatura è morbida. Sono io, si dice. A volte alta. Di fronte alla sua immagine riflessa. Non appena sul marciapiede inizia a correre. E pensa che se ne vorrebbe andare. Del resto perché si trattiene in quella città che non ama? Non ha nulla lì, ha un padre che si imbarazza della sua presenza, e la madre…

L’arte è un settore in continua evoluzione e ormai, anche se in realtà l’idea del fare della propria esistenza un capolavoro non è certo nuova, si è imposto all’attenzione dei più il concetto di performance: ogni aspetto della vita viene considerato un tassello nella costruzione di una persona/personaggio. Batsceba Hardy è una fotografa, vive a Milano, a lungo è stata a Berlino, parla dell’arte dell’imperfezione, della sottrazione e della definizione e sostiene testualmente nel suo manifesto ‒ che non ama le maiuscole ed è poliglotta come tutto il suo sito Internet, spazio che più d’ogni altro la rappresenta e in cui, solo, sembra vivere davvero ‒ che “l’arte è morta. concettualmente deprivata della sua necessità di esistere. argomentazioni vuote. inutili dissertazioni. bla bla disperante. ma l’artista non morirà mai. l’artista è colui che non sa fare altro che quello che fa: pensare per astrazione ed esprimere astrazione con ogni cosa lo circonda. il diverso non per scelta ma per essenza. colui che sta al di fuori. il raccontatore di storie. l’inefficace”. In questo suo romanzo corale, caleidoscopico e psichedelico, in cui sono fondamentali l’immagine e l’immaginazione, descrive bene e in modo avvincente con la forza di un diario polifonico la storia di due gemelli, Annalia e Andrea, prima fratello e sorella, ora entrambi di sesso femminile, in cerca di sé e di un nuovo reciproco rapporto.

 

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www.mangialibri.com/libri/la-vita-%C3%A8-stanca

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber, eccoci arrivati, grazie a  “Fermo al semaforo in attesa di trovare un titolo, vidi passare la donna più bella della storia dell’umanità”,  alla… terza fatica con Miraggi. Ma davvero è una fatica, oggi, scrivere?

“A volte lo è di meno, quasi sempre lo è di più. I tempi dei social sono frenetici, convulsi. Molto difficili da soddisfare.  Ed è da lì che molti di noi (parlo dei poeti performativi) sono nati. Il pubblico nel corso degli anni si è abituato ad avere aggiornamenti praticamente costanti. Ogni mattina insieme al caffè vuole leggere una nuova poesia. E questo si traduce in una continua produzione da parte dell’artista. Bisogna trovare i giusti riferimenti. Personalmente non smetto mai di leggere, ascoltare musica. Vedere film. Guardarmi attorno. Contaminarmi – per così dire – di qualsivoglia forma d’arte”.

Partiamo dal semaforo. Esiste? Dove si trova?
“Il semaforo esiste eccome! Sorge a poche centinaia di metri da casa mia. Ed è grazie a lui che questi tre libri hanno avuto un titolo che oltre a me, è piaciuto tanto anche al mio pubblico. Ci vado spesso, quando ho bisogno di un consiglio. Di un po’ di ispirazione. Mi metto lì. Tiro giù il finestrino. Me ne accendo una. E dopo avviene la magia. E’ un semaforo magico. Spero solo che un giorno non mi chieda i diritti!”

E la donna più bella dell’umanità come dovrebbe essere?
“Felice. Questo sicuramente. Quando una donna è felice, splende di luce propria. Esattamente come le stelle a cui chiediamo di esaudire i nostri desideri. La bellezza a cui mi riferisco è tutta lì. Nel suo sorriso. Nei suoi pensieri. Nel suo coraggio. Ci vuol coraggio ad essere felici. La poesia serve a questo. A rendere eterno anche un solo attimo di felicità”.

Tre citazioni, in apertura: Sirianni, Dalla, Vasco Rossi. Perché?
“Sono stati loro nel corso di quest’ultimo anno a ispirare tante delle poesie contenute all’interno del libro. Sono tre cantautori incredibili. Visionari. Sognatori. Sono tre poeti. Federico Sirianni è anche un amico. Ho imparato tanto da lui. Sono felice di averlo conosciuto. Il suo ultimo lavoro in studio che si intitola “Il santo” ritengo sia uno degli album più belli in assoluto, per quanto concerne la musica italiana da diversi anni a questa parte. Con le canzoni di Lucio Dalla e Vasco Rossi ho passato la mia infanzia. E ancora oggi mi domando come possano aver scritto certe meraviglie. La sera dei miracoli, Le rondini, Sally, Una canzone per te. Solo per citarne alcune. Sono veri miracoli portati in musica”.

Mi dai la definizione attuale di poeta?
“Mi perdonerai la franchezza. Ma essere un poeta oggi vuol dire avere due palle così. Vuol dire procedere contromano al mondo, correndo il rischio di ammazzarsi ad ogni angolo di vita”.

Perché il tuo è un pubblico soprattutto femminile?
“Credo che il motivo principale resti sempre la ricerca dell’amore. Non che gli uomini non ne abbiano bisogno, non dico questo. Ma una donna ne reclama con più forza l’esistenza. Ha più bisogno di credere che esista. Per questo motivo cerca conferme, molto spesso ricambiate, all’interno della poesia”.

Cristiana Tognazzi: “La poesia è aiutare gli altri”

Cristiana Tognazzi: “La poesia è aiutare gli altri”

Cristiana Tognazzi è in libreria con “Costellazioni“, la nuova raccolta destinata a emulare il grande successo di “Blu”. A noi racconta il suo amore per la poesia.

Cristiana, come sei arrivata a scrivere poesie e alla decisione di pubblicarle?
“Se devo essere sincera non lo so nemmeno io. Sono partita da una forma diversa, utilizzavo il mio blog per raccontare ciò che si prova in determinati momenti della vita. Con il passare del tempo qualcosa è cambiato e ammetto che i social network, in particolare Instagram, hanno condizionato il mio stile: a volte riuscivo a racchiudere il tutto in poche righe anziché in pagine. E questo aspetto mi ha affascinato: riuscire a esprimere un concetto con poche parole è fantastico. Ho iniziato a pubblicare i miei scritti molto presto, ma solo da qualche anno ho deciso di dedicarmici seriamente. Prima lo facevo esclusivamente per me, adesso lo faccio per me e per tutte le persone che mi seguono: condividere qualcosa ti rende meno solo, ti fa capire che al mondo ci sono tantissime persone che provano le tue stesse emozioni e che non sono in grado di esprimerle. Sapere di essere d’aiuto a qualcuno è essenziale. La scrittura, la poesia, il racconto, le parole in generale hanno uno scopo ben preciso”.

A leggerli sono componimenti dal forte tratto autobiografico. È così o ha ragione Pessoa quando scrive che il poeta è un fingitore?
“Sicuramente ci sono casi e casi, ma io sono del parere che quando le cose si vivono sulla propria pelle è diverso. Penso che ci sia molto più amore, molto più sentimento quando qualcosa è reale. Io purtroppo, o per fortuna, scrivo solo cose che sento, cose che mi appartengono, cose che a volte possono anche avere un pizzico di fantasia, ma il reale c’è e deve esserci. Probabilmente non riuscirei a scrivere qualcosa di completamente inventato o di finto, non è una caratteristica che mi appartiene”.

Cosa pensi dello stato attuale della poesia in Italia?
“Credo che sia sottovalutata. Per esempio, la poesia contemporanea dovrebbe essere introdotta nelle scuole: i ragazzi, anche e soprattutto grazie ai social network, iniziano a conoscerla, ma l’esperienza scolastica potrebbe essere molto utile. A chi la non considera vera e propria poesia vorrei dire che la poesia può avere tante forme diverse, tante sfumature e che per coglierle basta avvicinarsi senza pregiudizi”.

Credi che i reading possano servire a promuovere i versi?
“Penso che in realtà siano una cosa meravigliosa! A me tremano le gambe quando so di dover sostenere un orale all’università quindi probabilmente non riuscirei a leggere qualcosa davanti a tantissime persone, ma ammiro molto chi è in grado di fare questo tipo di intrattenimento. Sono convinta che sia un ottimo mezzo di promozione, bisogna comunque saperlo fare perché non tutti sono portati”.

Sei molto attiva sui social, dove le tue pagine sono seguitissime: quanto è importante saperli utilizzare con efficacia?
“Al giorno d’oggi è fondamentale. Io li utilizzo da anni e questa cosa mi ha permesso di essere aperta ai cambiamenti. Mi piacerebbe molto continuare in questo ambito, vorrei specializzarmi in Social Media Marketing, anche se con il passare del tempo mi rendo sempre più conto di quanto sia difficile riuscire a seguire tutti i cambiamenti che ci sono. Tanti pensano che sia una cosa semplice, ma dietro a ogni singola foto, ogni singolo post, ogni singolo dettaglio c’è uno studio, una strategia, c’è costanza. Insomma, per quanto bello e affascinante, si tratta di lavoro vero e proprio”.

Sei attratta anche da altre forme di narrazione?
“Ammetto che mi dispiace lasciare la poesia, ma devo dire che non vedo l’ora di dedicarmi a qualcos’altro. Mi piacciono i cambiamenti, mi piace essere messa alla prova e sicuramente il 2019 per me sarà un anno nuovo sotto molti punti di vista. Mi laureo e già questo è un bel traguardo, e poi uscirà il mio primo romanzo con Rizzoli. Quindi non vedo l’ora di iniziare questo nuovo cammino. Incrocio le dita e spero il 2019 possa portarmi tante soddisfazioni e tanta felicità”.

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

Difendersi dal pensiero dominante con l’ironia: Sartori ci racconta “Autismi”

Giacomo Sartori si divide tra Parigi e l’Italia, Trento nello specifico. Di mestiere fa l’agronomo e, soprattutto, scrive. È membro di Nazione Indiana, blog letterario collettivo, il luogo in cui è nato “Autismi”: “Sono sedici racconti che erano usciti su Nazione Indiana con questo titolo. Allora erano stati molto seguiti e molto commentati, ma erano altri tempi per i blog. Li ho rivisti, li ho corretti, ne ho cambiato l’ordine ed è nato un libro da non confondere con quello del 2011: erano pochissime copie. Questo è realmente un’altra cosa”.

Perché “Autismi”?
“Per un gioco tra la mia autobiografia e la componente autistica che c’è in ognuno di noi: le difficoltà a relazionarsi con le persone e un linguaggio ripetuto, fino a divenire ossessivo. Parlo di intimità, soprattutto: i rapporti con le donne, con il lavoro, con chi incontri durante un viaggio”.

Una difficoltà a interfacciarsi che è diventata il segno dei nostri tempi.
“Oggi l’autismo ha raggiunto livelli patologici con i social: non sappiamo più parlare, sorridere, relazionarci. Non sappiamo più fare niente che esca dallo schermo. Ci mettiamo una maschera perfino nei corteggiamenti quando la vita reale, invece, è un’altra cosa. Ognuno di noi ha una componente autistica e fa di tutto per nasconderla. Ci sono zone in cui siamo completamente soli e a me piace esplorare queste zone d’ombra utilizzando lo humor”.

Un esempio?
“In “Le mie passeggiate” racconto di uno che fa sempre lo stesso percorso, alla stessa ora, con gli stessi pensieri e che, alla fine, è contentissimo quando la realtà introduce invece piccole variazioni. Ci sono tanti livelli nascosti e tutto è molto ironico. Noi ci appoggiamo sempre al “già conosciuto” ma, in fondo, abbiamo il bisogno di essere stupiti, abbiamo dentro di noi il desiderio di una novità”.

Viviamo tempi duri da questo punto di vista.
“Quello che manca oggi è l’ironia, tutti si prendono tremendamente sul serio. Il contesto italiano è sempre stato molto conformista, ma è allucinante quanto capita oggi. Ogni pensiero trasgressivo o controcorrente è bandito. Peggio: non viene capito”.

 

 

“Tutto dovrebbe essere migliore”: la recensione di Serena Adesso su mangialibri.com

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

Tutto dovrebbe essere migliore” è il titolo con cui Alessandra Perna debutta con Miraggi Edizioni nella collana Golem. Trentatré racconti che farebbero pensare alla musica: Alessandra scriveva i testi, suonava il basso e cantava con i Luminal, “un gruppo art-punk, se fossimo stati negli Usa”, osserva lei. Trentatré come un 33 giri, per chi ormai ha una certa età. Ma è niente di tutto questo: “È assolutamente casuale, avrebbero dovuto essere 30 poi sono diventati 33. Ma è invece vero come io sia personalmente appassionata di numeri, mi piace ragionarci sopra. Mi è capitato l’altro giorno col numero 2, io sono nata il 2 febbraio. Metti insieme il caso, la fortuna, alla fine vedi che certe cose corrispondono, che si arriva a una vaga idea della realtà”.

Perché ha scelto i racconti?
“Perché è sempre stata la forma che ho utilizzato. Mi piacciono la sintesi, la brevità: scrivevo e scrivo canzoni. Il racconto mi fa esprimere bene quanto voglio dire. Pensavo a una storia, la immaginavo dall’inizio alla fine. E tutto si compie. Questa con Miraggi è la mia seconda raccolta, la prima è uscita con un altro editore e si chiamava “Non farti fregare di nuovo”. Ho impiegato anni per completarla perché volevo imparare a scrivere, e a scrivere bene. Per questo ho letto tutto il possibile. “Tutto dovrebbe essere migliore” è invece nato e scritto nel giro di un anno perché avevo deciso di chiudere con i racconti. Sto provando con il romanzo e penso di essere sulla buona strada”.

E perché questo titolo?
“C’è un filo conduttore, con un doppio motivo. Il primo: ho passato l’ultimo anno e mezzo alle prese con una brutta malattia psichiatrica. Io di solito sono molto forte, ho sempre fatto quello che volevo. Questa malattia mi ha spezzato le gambe, per la prima volta nella mia vita ho avuto paura. Passavo il tempo a domandarmi: “Che cosa sono diventata?” E sempre mi ripetevo: “Tutto dovrebbe essere migliore”, per tornare a rimettermi in carreggiata. Il secondo motivo è invece legato all’interazione con le persone, soprattutto con gli sconosciuti: quelli che incontri sui mezzi pubblici, che incroci in un locale o per strada. Ti capita di parlargli, ti dicono delle cose, anche senza un perché. Ecco per curarmi, oltre ai farmaci, mi sono fatta ispirare da queste persone”.

Nei racconti ritornano spesso la quotidianità e la fragilità.
“Sono l’una legata all’altra. In questo paese è difficile essere “diversi”. Anche dire semplicemente che suoni oppure scrivi. Manca una sensibilità nei confronti di quelli che vengono concepiti come comportamenti non comuni, manca a cominciare dai tuoi coetanei. Non rientri nelle caratteristiche che vengono codificate dalla società, negli stereotipi. Per quello che facevo ero considerata la pecora nera della famiglia: “Sì, scrivi, ma poi trovati in lavoro serio…”. Mi sentivo attaccata anche in maniera violenta. Era come trovarsi in film di Monicelli: dietro l’apparenza, dietro la patina piccolo borghese c’era altro. Mi sono difesa con l’arte”.

E il libro ne è stata una conseguenza.
“Rispondo con una frase che mi piace molto: “Ci sono persone che vincono, ci sono persone che perdono e ci sono persone che resistono, dei combattenti”. Io mi sento una combattente. Dopo quello che ho passato pensavo di non essere più capace a fare niente. Pubblicare un libro ti dà invece fiducia, capisci di saper ancora combinare qualcosa. Un anno fa ero chiusa in casa con pensieri catastrofici, oggi è tutto diverso. In positivo. Non che vada tutto va bene, ma ci stiamo lavorando…”.

Quale racconto sente più vicino?
“Quello ispirato a una persona che amo molto e che sintetizza il mio ultimo anno. Parla di una coppia che vive in un appartamento, lui esce tutte le notti e lei non sa perché, fino a quando l’uomo non le dice: “La prosa non è un urlo ma disciplina”. E spiega che tutte le notti si siede su una panchina, fissando una finestra a caso. Quando uno accende la luce, lui si sente pronto a scrivere: “Impari cosa sia la pazienza”, le dice. Ed esce. La donna accende la luce, va sul balcone e vede che lui è lì fuori, che la sta osservando”.

Ed è quello che le è capitato?
“Scrivere è un’azione solitaria ma quando qualcuno ti dà fiducia le cose migliorano. È il senso di una citazione di Stephen King. Mi sentivo sola, questa persona ha sempre creduto in me anche quando stavo male: è diventata la mia fonte di ispirazione personale”.

 

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Diego Gabutti su italiaoggi.it

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Diego Gabutti su italiaoggi.it

Diego Gabutti

Un po’ per i loro meriti (sono la nouvelle vague del cinema praghese, dopotutto, e tra loro c’è una futura leggenda del cinema) ma soprattutto per solidarietà col socialismo dal volto umano, che quell’anno sfida i carri armati sovietici, il premio è insomma garantito a uno dei tre (gli altri due vinceranno, è matematico, i festival cinematografici minori). Sono tutti gasatissimi. Cannes è piena di belle ragazze e loro sono i benianimi della stampa e dei colleghi. Menzel concorre con Un’estate capricciosa, Forman con Al fuoco, pompieri e Nemec con La festa e gl’invitati. Non ho visto nessuno di questi film, né allora né dopo, ma su internet e in alcuni libri che pesco (la fortuna mi assiste) negli scaffali dedicati al cinema della mia libreria, tutti ne parlano bene.

Film ironici, sgraditi agli ideologi ufficiali del partito; film della primavera cecoslovacca. Non c’è gara con gli altri film in concorso. Devono vedersela con alcuni dei peggiori film degli anni sessanta. Con l’inqualificabile Grazie zia di Salvatore Samperi: la prima commedia erotica all’italiana con suicidio a piè di lista; con Je t’aime, je t’aime d’Alain Resnais: una scombiccherata storia di viaggi nel tempo, se ricordo bene, anche qui con un suicidio a piè di lista; con Banditi a Milano di Carlo Lizzani: un film sull’ultima rapina della Banda Cavallero (nessun suicidio ma peggio: Don Backy). Forman, Nemec e Menzel sono in concorso col vento della Storia e della Geografia in poppa.

Ed ecco che, mentre tutto sembra procedere per il meglio, a Cannes piomba il re dei guastafeste (e anche un po’, secondo Nemec, dei poveri di spirito): Jean-Luc Godard, che a nome della gauche cinematografica, dei gruppuscoli maoisti e degli studenti parigini che «in questo momento stanno versando il loro sangue per la rivoluzione» stabilisce che il festival dev’essere sospeso.

Ci si mette anche François Truffaut, di solito più moderato. Siamo in pieno Maggio 68, del resto. Persino Claude Lelouch e Louis Malle inneggiano alla rivoluzione e lanciano maledizioni contro André Maulraux (il ministro della cultura gollista che quarant’anni prima, in Cina e in Spagna, ai tempi della Condition humaine e dell’Espoire, aveva cantato ben altre rivoluzioni e guerre civili che quella des étudiants et des travailleurs).

Viene occupato il Palais des festivals et des congrès. Qualcuno lacera a colpi di coltello il telone bianco sul quale Nemec, Forman e Menzel s’accingevano a proiettare i loro film (dopodiché uno di loro avrebbe agguantato la Palma d’Oro e via, tutt’e tre avrebbero goduto d’una fama planetaria). Soldi, ragazze, automobili di lusso. E invece niente: niente festival, nessun premio. In guerra col comunismo sovietico, che s’accingeva a ristabilire l’ordine a Praga, Nemec e i suoi amici finiscono sotto i carri armati del goscismo francese, che tuona contro gl’imperialisti americani, contro il cinema commerciale, contro il perfido De Gaulle e contro il «revisionismo moderno» («à la Dubcek», di cui i tre registi sono les ambassadeurs che portano pena). Nemec lascia la Costa azzurra senza pagare il conto dell’albergo.

Non è la sola storia che il regista ceco racconta nel suo libro. Nemec ne racconta molte altre. Ogni storia un episodio della sua vita, a cominciare da quello più celebre: i venticinque preziosi minuti di riprese che poco tempo dopo Cannes filma nelle strade di Praga invase dall’Armata rossa (il film viene portato fuori dalla Cecoslovacchia da un diplomatico italiano che non osa negare il favore a una bellissima ragazza praghese).

Grazie a quel filmato, che a Nemec costò l’esilio fino al 1989, la propaganda sovietica deve rinunciare a diffondere filmati tarocchi di folle plaudenti che lanciano fiori e baci ai Visitors sovietici. Libro di sostanza, c’è dentro molta tragedia, molta commedia. Divertentissima la storia delle tre prostitute nere del Chelsea Hotel di New York. Bellissima la storia della praghese Ivana Marie Zelnícková, poi Ivana Trump, prima moglie di «The Donald». Straordinaria la storia del ritorno di Dubcek dal «sequestro» russo che si presenta a sorpresa a una festa «di cantanti, musicisti e cineasti» e ancora non ha capito che la battaglia è persa ma tutti lo amano lo stesso.

 

Massimo Anania tra autostop e un po’ di sé

Massimo Anania tra autostop e un po’ di sé

Massimo Anania, com’è nato “Autostop per la notte”?
“Volevo scrivere un racconto, doveva essere una narrazione per una antologia. Poi, però, la storia ha preso campo da sola: ben presto si è trasformata da racconto a romanzo e così è arrivato “Autostop per la notte”. Non è stato difficile, anzi, per la prima stesura sono bastate poco più di due settimane e ho terminato dopo appena quindici giorni. Mentre scrivevo pensavo “quello che viene, viene”. Ed è venuto questo libro”.

Da dove arriva l’idea dell’autostop?
“Da una parte per il mito dell’autostop, la mia generazione è cresciuta con questo modello, il fatto di essere caricati in macchina da uno sconosciuto è sempre stato un mix di curiosità e trasgressione; dall’altra, per la mia esperienza personale. Prima di prendere la patente, tra i 18 e i 19 anni, l’autostop è stato il mio mezzo di trasporto”.

Quindi c’è un velo di autobiografia?
“Il protagonista di “Autostop per la notte”, Maurizio, è un ragazzino piuttosto ingenuo che è curioso di scoprire nuove cose. Mentre procedevo con la narrazione, Maurizio si è avvicinato sempre più a me ragazzino: anche io ero così inesperto e voglioso di scoprire il mondo. C’è poi l’episodio della festa, con tantissime persone che partecipano: non me ne sono reso conto subito, ma tanti particolari e soprattutto la descrizione dei presenti era incredibilmente simile a ciò che avevo vissuto io. Insomma, qualche fatto è frutto di immaginazione, ma altri traggono spunto dalla mia esperienza”.

Il romanzo è ambientato a Torino: che rapporto ha con la città?
“Molto stretto, anche perché fino a 25 anni ho sempre vissuto all’ombra della Mole. Da qualche tempo, invece, mi sono dovuto trasferire: ora abito in Veneto, a Belluno. E devo ammettere che Torino mi manca tanto, non me lo sarei aspettato. Mi sento più legato a Torino ora che sono lontano rispetto a quando ci vivevo”.

Miraggi Football: la nostra squadra mondiale!

Miraggi Football: la nostra squadra mondiale!

L’appuntamento con il Mondiale di calcio rappresenta sempre qualcosa di speciale, capace di coinvolgere anche chi abitualmente non segue le partite. L’Italia, ahinoi, non è riuscita a qualificarsi. E allora ci siamo divertiti a immaginare la formazione con cui Miraggi potrebbe scendere in campo, fra talento, colpi di genio e sostanza. E un 4-3-3 decisamente offensivo!

1 Venedikt Erofeev, “Memorie di uno psicopatico”

Quali sono le qualità di un portiere? La solidità, la capacità di non farsi superare dal pallone. E quel pizzico di sregolatezza che spesso sconfina nella follia. “Memorie di uno psicopatico” è la prima opera compiuta di Erofeev, scritta nel 1956 quand’era matricola all’università. Ci sono già i temi che l’hanno reso celebre: l’alcol, le coltissime citazioni letterarie e religiose, la resistenza dell’uomo russo a diventare quell’“uomo nuovo” comandato dal Partito.

2 Giacomo Sartori, “Autismi”

Scrittore e agronomo, autore di romanzi, racconti, poesie e testi teatrali, Sartori ha la duttilità e la resistenza tipiche del terzino moderno, abile a rendersi prezioso sia nella fase di interdizione, sia in quella di impostazione. “Autismi” è una guida “inutile” alla stortura dei giorni, delle relazioni,  insomma della vita.

5 Andrea Serra, “Frigorifero Mon Amour”

Uno dei due centrali è lo stopper, come si sarebbe detto un tempo, quando le marcature erano rigorosamente a uomo. Serra “morde” i vizi della società capitalistica proprio come il difensore azzanna le caviglie dell’attaccante. “Frigorifero  Mon  Amour” è un libro divertente e sarcasticamente ammuffito come una carota abbandonata nel frigo.

6 Luca Ragagnin, “Agenzia Pertica”

Il libero è l’uomo che comanda la difesa. Lo faceva nei tempi andati, qualche passo dietro i compagni. E lo fa adesso che il reparto gioca in linea e guai a sbagliare. Luca Ragagnin non sbaglia un colpo, per l’appunto. Domizio Pertica, protagonista del romanzo, è uno scrittore fallito che si reinventa investigatore privato. A uomo o in linea, per lui nulla cambia.

3 Domenico Mungo, “Il suono di Torino”

Si occupa di musica, letteratura e cinema contemporaneo, il nostro terzino sinistro, quello che un tempo si sarebbe definito fluidificante per la capacità di correre su e giù sulla fascia. “Il suono di Torino” fa immergere il lettore nelle realtà più oscure di una città apparentemente regolare e senza  angoli nascosti. Apparentemente.

8 Andrew Faber, “Fermo al semaforo in attesa di trovare un titolo, vidi passare la donna più bella dell’umanità”

Motorino di centrocampo dotato tuttavia – com’è giusto che sia – anche di piedi buoni, la mezzala di Miraggi è Andrew Faber, il poeta più amato dalle donne e dalle ragazze. Il suo terzo libro conferma uno stile unico, esaltato nei reading ai quali assiste un pubblico sempre numeroso, partecipe e attento alle sue parole d’amore.

10 João Paulo Cuenca , “Ho scoperto di essere morto”

Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia. Il nostro numero 10 non poteva che essere brasiliano. “Ho scoperto di essere morto” è  un romanzo, un thriller, un noir, un mistero da  indagare, ma anche, volando dove solo il vero talento può arrivare, un discorso sulla letteratura,  una rappresentazione del mondo contemporaneo e delle sue contraddizioni.

4 Cristiana Tognazzi, “Costellazioni”

La sostanza del mediano di spinta è sempre accompagnata dall’ingegno, dalla determinazione e dalla capacità di recuperare palloni e distribuirli con precisione e lucidità. Concretezza ma anche illuminazioni, come le “Costellazioni’ con cui Cristiana Tognazzi torna in libreria dopo il successo della precedente silloge.

7 Claudio Marinaccio, “La folle storia del kamikaze che non voleva morire”

Nel tridente d’attacco il ruolo di esterno destro è affidato a Claudio Marinaccio, ficcante ala che sa trasformarsi in una spina per le difese avversarie. I racconti di “La folle storia del kamikaze che non voleva morire” narrano il mondo di oggi attraverso avventure terribili e piene di  ironia. Marinaccio  svela una realtà dalla quale è difficile uscire indenni.

9 Bianca Bellová, “Il lago”

Il centravanti vero, il centravanti puro, è sì potenza, ma soprattutto classe sopraffina. E Bianca  Bellová è il nostro attaccante moderno, tecnicamente impeccabile. “Il lago” è un romanzo perfetto, un romanzo duro e ruvido, nel quale il protagonista diventa uomo in un corpo a corpo con un ambiente apocalittico e allucinato.

11 Biagio Cepollaro, “La notte dei botti”

A dare solidità e esperienza al reparto offensivo provvede Biagio Cepollaro, rapace uomo d’area come ai vecchi tempi. Non a caso, “La notte dei botti” è stato scritto più di vent’anni fa ma resta di una attualità profetica e sconcertante nel raccontare un’umanità paradossale costretta in un autogrill che diventa un girone infernale postmoderno.