Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Quello che colpisce in questi mini racconti di Petr Král è il modo con il quale l’autore tratta gli «oggetti». Innanzitutto, non c’è nessuna «epifania» degli «oggetti», gli «oggetti» di Král sono quelli che tutti usiamo tutti i giorni, quindi non sono «cose» quanto oggetti che restano oggetti sia prima che durante e dopo che ne abbiamo usato. È il nostro modo di percorrere le contingenze degli oggetti, le disfanie degli oggetti; quelle «disfanie» sono le nostre esperienze, le micro esperienze, quelle impercettibili e invisibili esperienze-contingenze che ripetiamo in ogni attimità di ogni giorno senza pensarci su. L’idea di Král è che in quelle «disfanie» o «contingenze» si riveli un segreto che non sapevamo, o meglio, che forse sapevamo in modo inconsapevole ma che dimenticavamo subito dopo aver esperito la contingenza. In secondo luogo, le «disfanie» degli «oggetti» accadono all’improvviso quando si verifica una condizione esistenziale di allentamento dell’ordine razionale.
È chiaro che in queste «disfanie» králiane non si dà alcuna «verità» (nel senso tradizionalmente inteso dalla tradizione filosofica come emersione del nascondimento alla piena luce della visione), si danno soltanto dei contenuti veritativi, cioè quei contenuti che afferiscono alla «verità» in quanto esponenti della «non-verità». Tutti i nostri atti della vita quotidiana sono intessuti di queste attimità e di questi contenuti ideativi, solo che non ci facciamo caso e passiamo oltre, passiamo ad occuparci di altre cose, le cose che l’io auto organizzatorio ritiene serie.
Per esempio, nella poesia di un Mario Gabriele si verifica qualcosa che è l’esatto contrario di ciò che si ritrova nella poesia degli autori che presuppongono un contenuto di verità epifanico ritenuto fisso e stabile nelle dimore degli «oggetti». È chiaro che qui siamo nella antica ontologia del novecento italiano. In Král come in Mario Gabriele o nella scrittura poetica di Steven Grieco Rathgeb, ci troviamo in un altro universo esperienziale e ideativo: qui non si dà alcun contenuto di verità purchessia, in questa «nuova fenomenologia psichica», che non è una cosa solo italiana, non si dà alcun contenuto imperituro di verità ma soltanto un contenuto energetico e ideativo; la traccia psichica che lasciano gli enunciati della poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera dei quanti di energia linguistica e psichica, elementi linguistici de-simbolizzati.
Nella poesia di Petr Král, di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb ma anche in quella di Giuseppe Talia, che a una prima lettura potrebbe apparire «normale», non si rinviene nessun «focus» delle composizioni, non si dà mai alcun centro simbolico, la loro poesia è sempre scentrata, eccentrica, ultronea, abnormale, abnormata, ci troviamo dinanzi ad una nuova fenomenologia estetica.
Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero
Nei testi poetici di Petr Král, come nelle sue prose di Nozioni di base, sarebbe errato cercare un «centro» unico della composizione, perché il «centro» appare ovunque: è dislocato e si dis-loca continuamente. Gli «oggetti», anch’essi, si dis-locano, seguendo le linearità sghembe del «presente»; un «presente» che si configura, non come vasta pianura, estesa dal «prima» al «dopo», ma come reticolato fitto di attimi e di attimità, che si dis-locano casualisticamente, allo stesso modo di una materia instabile, o di un pulviscolo.
Noi, poeti della Nuova Ontologia Estetica, ci sentiamo molto vicini alla poetica di Petr Král. Per fare un esempio, potrei citare il nostro Steven Grieco Rathgeb, le cui poesie sfuggono proprio al concetto di «centro» unico. In esse, i più svariati «centri» si dis-locano seguendo il solco delle micro fratture del reale, là dove si situano le cosiddette «disfanie».
In definitiva, le «esperienze» di questa «nuova ontologia estetica» o «nuova fenomenologia estetica», peculiari nella poetica di Král, si danno negli interstizi delle e tra le «epifanie». Il «presente» di queste «disfanie» non coincide più con ciò che risulta nelle «esperienze» delle tradizionali «epifanie». Le «esperienze» che si fanno in questa nuova ontologia o nuova fenomenologia sono assai diverse dalle antiche «esperienze», quelle dettate dalla ontologia novecentesca, la quale, considerando unicamente l’esperienza dell’«epifania», non è in grado di distinguere elementi valoriali «altri», e, di conseguenza, non potrebbe mai offrirci gli strumenti necessari per comprendere le poesie e le prose di Petr Král.
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935) Martin Heidegger riprende la concezione dell’opera come strumento-per, come mezzo, ma con una differenza rispetto a Essere e tempo: che l’esser-mezzo del mezzo viene sviluppato, non a far luogo dall’attività progettante dell’uomo, bensì attraverso l’analisi di un’opera d’arte, e prende per esempio un quadro di Van Gogh, che raffigura un paio di scarpe da contadino. In questa famosa opera, l’esser-mezzo del mezzo, la sua essenza, abita in qualcosa di più profondo della semplice «utilizzabilità» di cui il filosofo aveva parlato in Essere e tempo: essa abita nella sua «fidatezza» (Verlassigkeit); «In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo mondo (…) la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra, la libertà del suo afflusso costante. L’esser-mezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza». 1
Ora, nei racconti di Petr Král, i personaggi si accorgono dell’esistenza degli «oggetti» quando si interrompe la «fidatezza» di cui ci parla Heidegger: è allora che i personaggi fanno esperienza dello stupore e gli «oggetti», improvvisamente, diventano «cose», diventano altro, fanno esperienza del divario che si apre tra gli «oggetti» e le «cose», del mutismo degli oggetti-strumento e del linguaggio misterioso delle «cose». Le epifanie degli «oggetti» accadono in quei momenti in cui siamo distratti, quando pensiamo ad altro; è allora che ci accorgiamo con stupore che gli «oggetti» sono in realtà delle «cose»: quelle «cose» che noi non vedevamo e non sapevamo riconoscere.
1 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Christian Marinotti Editore, 2000 p. 97
Ecco cosa scrive Milan Kundera di queste prose di Petr Král:
È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela. Pur sapendo che cosa vuol dire la parola “fumare”, non eravamo in grado di vedere quel che “fumare” significa in concreto, in che modo gesti banali e automatici ci legano al mondo o ci permettono di allontanarcene, come testimonia la storia del non fumatore Lenin che chiede una sigaretta a Trockij allo scopo di dimenticare per un minuto la rivoluzione. Pur sapendo che cosa vuol dire “solitudine”, la cecità esistenziale ci impediva di renderci conto che soltanto una porta sottile separa la nostra “stanza della solitudine” dal salone dove rumorosamente la festa continua.
Quante volte, alla fine di una serata, abbiamo visto una donna andarsene, ma tutto ciò che riempiva l’ultimo sguardo che gettavamo su di lei lo dimenticavamo un secondo dopo. È sorprendente come tutte queste situazioni quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino così poco influenzare dall’originalità di una psicologia. Esse ci attendono, ci sottomettono. È una lezione di modestia che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo.
Appunto di Massimo Rizzante
«Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del portacenere, dei bicchieri e della caraffa, che immobili disegnano la pianura del tavolo». Questa “nozione di base” di Petr Král è tra le più brevi composte dal poeta. Per questo rivela l’essenza di tutte le altre, anche di quelle più lunghe.
Che si parli di una camicia che «ha fatto il suo tempo» e che ci ispira un «addio così commosso» quale quello che daremmo a «un’amante», o di una porta che durante una visita ad alcuni amici ci introduce in una stanza «attrezzata ma vacante» che «estende il nostro soggiorno» su questa terra di uno «spazio supplementare», o ancora di una vasca da bagno che improvvisamente da letto d’amore si trasforma «nella nostra tomba», tutto ciò che Petr Král tocca diventa spettacolo, spectaculum, ovvero, apparenza. È grazie al suo stupore davanti agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo. La regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella pianura sconosciuta dove ci abbraccia come un’amante dimenticata. Ma da dove viene lo stupore del poeta che libera le cose dalla loro funzione e che gli permette di camminare senza quel pesante fardello per le strade della prosa? Da dove viene questa grazia? Non si è mai tanto vicini alla grazia come durante quei mattini quando si assiste «stupiti allo spettacolo» di ciò che si conosce a memoria. È durante quei risvegli che tutti gli oggetti e tutte le situazioni della vita quotidiana mostrano quel che potrebbero essere, che il presente ama contemplarsi davanti allo specchio delle sue possibilità. Così Petr Král, indossando ogni giorno una camicia bianca fresca di bucato, saluta il volto mattutino di quell’amante che ogni notte dimentichiamo: l’esistenza.
Appunto di Yves Hersant Tutto quel che dice, è di sfuggita. Senza indugio, senza mai lanciare sulle cose uno sguardo totalizzante. Ma scrutandone i dettagli, o lasciando che vengano a lui le fugaci apparizioni; lasciando che l’acutezza dell’occhiata subentri a ogni teoria; lasciando risuonare nella memoria – la sua e la nostra, che vengono quasi a confondersi – il discreto rumore dei passi, o il tintinnio del bicchiere sopra al bancone. La sua motricità pedonale, per riprendere la bizzarra espressione di Michel de Certeau, può condurlo nei più reconditi luoghi del nostro mondo mondializzato; però è tra gli arabeschi delle nostre città, dove le sue erranze evocano a volte il grand Flâneur del xix secolo, che realizza di preferenza i suoi fecondi micro viaggi. Né geografico, né geometrico, né panottico, il suo spazio è da subito quello della poesia e del mito. Eppure si rivela perfino romanzesco, perché popolato da virtualità concrete. Sgombra d’ogni lirismo e soprattutto alleata di una prosa che etichettare come “poetica” sarebbe quanto di più prosaico si possa dire, la poesia di Petr Král non è affatto incompatibile con la saggezza del romanzo. Di questo romanzo che scrive in pieno cammino, come una storia multipla e frammentaria, senza smettere di scrivere nemmeno in curva. Non è stato forse proprio lui a dirlo chiaro e forte: «La missione del poeta non è affatto quella del fine dicitore, quanto più semplicemente d’un topografo (agrimensore, per dirla con Franz Kafka) dell’esistenza?». In un’opera precedente (Testimone dei crepuscoli, 1989) Petr Král offriva in parallelo una serie di poesie e il racconto degli aneddoti che li avevano generati. Al contrario, nelle pagine che state per leggere, le due correnti sono confuse: La camicia come Il vecchio saggio, La vasca come La folla, sono minuscoli ma intensi racconti-poemi incoativi, in cui si manifesta l’antica potenza delle forme brevi. Dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano che decisamente non ha nulla di banale; analista minuzioso delle condotte più surrettizie, ci riconcilia con il mondo lacerando ogni nostra certezza. Questo amante del burlesque diventa così un grande educatore dello sguardo: d’un colpo solo, ci insegna che la nostra realtà ne nasconde ben altre. Dietro ad ogni porta può aprirsi una vita nuova.
Recensisco un altro “Tamizdat” di cui a questo punto vale la pena spiegare il significato o perlomeno cosa si intende: “Tamizdat” era il termine che indicava le opere occidentali (provenienti da “tam”, cioè da “là”) in circolazione clandestina tra Trieste, Gorizia e Berlino, nei deprimenti anni della Guerra Fredda.
“Viaggiare senza smettere, tra le curve, di scrivere il proprio romanzo” potrebbe essere un epitaffio oppure una sinossi ben strizzata della destrutturata enciclopedia proposta da Petr Kral, intelligenza ceca esule per questioni politiche, surrealista antisovietico che offre il titolo “Nozioni di base” Miraggi edizioni, al flusso di coscienza su cui struttura il suo lavoro.
Mi sembra utile pensare alle curve che armonizzano un percorso che spazia tra natura e artificio, fulmini e giochi pirotecnici come espedienti che rendano l’idea di qualcosa che brilla nella penombra cosmica e individuale, nella quale si fluttua o si fluttuava (se vogliamo contestualizzare) quotidianamente al cospetto dell’incessante buio che tuttavia può sempre essere esorcizzato.
Che legame si instauri tra i vari paragrafi è il vero studio da cui partire a mio parere, l’autore abbandona come Svevo la cronologia poco fertile e ci sbatte davanti ad un “cancello” da aprire; se riuscissimo a scardinarlo troveremmo però un ostacolante “muro” da abbattere o guardare, a discrezione personale.
Cosa si prova realmente nel tuffarsi nella porta girevole di un hotel per scomparire vorticosamente in un qualunque senso di precarietà che rifugge nell’illusione dell’attesa di un nuovo giro? Attendo pure io. Ho aspettato fino all’ultima goccia di carta scritta per trovare una bottiglia semipiena di un epilogo che non si leggerà mai.
Petr incita ad attraversare la strada o a salire su un tram per valicare quel confine ostico e avvilente che separa il mondo dalla vita e la vita da sé stessi. C’è uno studio quasi paranoico degli spazi e della dislocazione degli oggetti con una immediata smania metodica di trincerazione degli stessi, come a volerli appendere in una parete verticale, ben visibile dall’osservatore.
Elenca nomi comuni di cosa destinati ad essere dipinti o a diventare icone metaforiche di una realtà immobile in cui le pedine animate si muovono stando attente a non inciampare. Il tema del viaggio è la colata di cemento più volte versata, bacino in cui si muovono i paragrafi imperniati sulla resistenza delle “cose”.
Sostiene Milan Kundera che questa raccolta di scritti brevi del poeta Petr Král sia una “bella e strana ‘enciclopedia esistenziale della vita quotidiana’”, la incornicia come “lezione di modestia impartita al nostro individualismo”. Secondo Yves Hersant, siamo di fronte a una raccolta che restituisce “l’antica potenza delle forme brevi”: “dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano […] da grande educatore dello sguardo”.
Persino Topinambur è un titolo scelto.
Nozioni di base è un quaderno di 123 capitoli brevi, che comincia da un caffè che ci unisce ai vivi “un po’ di sbieco”, “osservando incuranti la strada e il suo sfuocato viavai”, per restituire con chiarezza la propria presenza.
Král parla di starnuto, riso, luce, buio, cipolla, macchie, vento, sud, madri e figli, colori, nudità, e più delicatamente di cosa significhino verbi come “spaventare”, “unire e separare”, “attaccare”, “sfiorare”; analizza le parole “solitudine”, “assenza” e si concentra sulla “settimana” per azzardare un parallelismo tra domenica ed esistenza.
“la bianca trappola in cui la domenica ci attirava, dopo il promettente grigio del sabato, si apriva a perdita d’occhio verso l’interno, verso l’immagine del deserto staliniano in cui siamo cresciuti, e di quella guerra fredda che per noi era l’esistenza stessa”
È un piccolo breviario di meditazione in cui non risparmia riflessioni insoddisfacenti che corazzano la pelle da emozioni malriuscite.
“Anche quando siamo davvero presi dal momento e la sensazione perdura, quando ci lasciamo andare al sonno, o all’amore, o da un luogo freddo entriamo in una stanza riscaldata e il calore ci invade dentro e fuori, proviamo un senso di benessere totale, ma non completo”.
Si serve del sorriso per scontrare l’insoddisfazione, un sorriso comunque amaro per ingannare l’esistenza che sguscia per poi rintanarsi e nascondere le chiavi di lettura di una vita che non vuole essere letta ma interpretata.
E’ proposto un obiettivo durante la gara con se stessi, riuscire a prendere il treno.. “Dover correre per prendere un treno è sempre umiliante, perderlo è fatale: su quel treno non saliremo mai più. Quando invece il treno riusciamo a raggiungerlo non è mai solo un colpo di fortuna; entriamo nel vagone e riponiamo la valigia sulla cappelliera come se niente fosse, cercando di nascondere l’affanno, ma sappiamo che la corsa ha dato al nostro viaggio una possibilità in più. Anche rispetto a coloro che, puntuali, hanno occupato i loro posti”.
Mentre ricopio mi accorgo di come possa divenire un “credo” collettivo subito dopo esser divenuto il mio.
Il toscano Tomas Bassini (classe 1985) propone come esordio un breve romanzo dalla prosa fresca, nuova e originale. In sole 160 pagine entriamo nella mente di un uomo, il narratore anonimo, che tenta di dare forma e senso a un amore perduto, raccogliendo memorie, aneddoti e collegamenti con il presente. Il protagonista lavora di notte in un albergo e proprio nelle ore di servizio, fra incontri e apparizioni di personaggi dei più disparati generi, compila quello che può essere un elenco degli errori e delle vittorie di una storia ormai finita. Ma la malinconia è bene equilibrata da picchi di ironia e terapeutico cinismo.
Andrea Bressa
Quando eravamo portieri di notte di Tomas Bassini
(Miraggi Edizioni)
164 pagine
Respirare la germinazione dell’io, appropriarsene per sentire tutta la profondità del fondo, incatenare le negazioni per affermare il mondo attraverso una forma antilirica che spodesta il viso aperto dell’indefinibilità e concentra il respiro delle parole in mostra, la loro forza, il loro abbandono di collezione.
È da questa vitalità nascosta che è possibile leggere Poema bianco[1] di Pasquale Panella, edito da Miraggi, ora ridisegnato e ampliato dopo essere stato pubblicato la prima volta nel 2007, per le edizioni IRI.
Autore tra i più importanti della musica italiana, dall’ultimo periodo di Lucio Battisti, passando per Zucchero, Mango e Amedeo Minghi, qui concede il suono elementare della parola nel verso, nel soliloquio che tende all’istantaneo, nel cadenzato bianco dello sguardo.
È il tono dell’intimità smussata, dove l’ascolto diventa più di una voce e attraverso la grammatica del senso si compone l’umano, si libera il suono e l’assenza, che invade il suono del corpo, unisce e lega indissolubilmente l’essere e la sua appartenenza, il suo doppio e il tu, la consequenzialità espressiva e l’accento della propria inner vision, come afferma Isabella Cesarini:
«Per Panella il timbro nel tatto, il suono nello sfioramento. Scrivere negando la poesia per accordare corporeità, ossia corpo, al verso. La sagoma di una scultura friabile, posta sul frangente di un corpo armonioso: il lemma. L’altro è il sé, ovvero un luogo. Un altrove dove accadono le cose, i sentimenti nel prima degli oggetti e nel dopo dei corpi. Il midollo nella parola sollevata dalla forma per far fiatare solo il sangue. Rosso di cuore e rosa di carne: bianco nello stato metatemporale del compiersi. Quel che è scritto è scritto, non accaduto, ma nel futuro del possibile. Nell’aura l’afflato di una rivoluzione scandita da due offensive; l’incursione a spoetizzare la parola e l’invettiva nel poema d’amore: la guerra è amore tra i sessi. Il non esserci figura l’edificio marmoreo dell’esserci: fondamenta di vocali e consonanti a scompaginare la lirica. L’amore è ossessione fuori dal ricordo e nella memoria agita solo la costruzione della reminiscenza. L’altrove è l’oltretempo di una voce che tuona su se stessa».[2]
L’intima rassegna dell’assenza che sfiora il congedo dalla parola per farsi respiro, commiato di carezze che stringe i sensi, afferma la storia e la piena dell’io fino al termine e alla destinazione, fino alla vista che vive come inchiesta sull’avvenimento delle cose, sulla loro datità e permanenza, e sulla fine nell’animo: «Faccio che non esisti / perché vorrei esistessi / non in questa vita della gente / ma in quella che non sta né in cielo né in terra / ma solamente nella nostra contentezza».
Descrivere la densità dell’istante che si propone significa avvertire la debordante consunzione della parola che non riesce a dire pienamente, nonostante sanguini e patisca, nonostante il dicibile è appena un non-detto, un respiro affiorato e arenato: «Respiravamo e basta / Le mani come il vento che si calma / sul ventre, su una coscia, su una spalla / Il viso ritornava a fare il viso, / il profilo la prora / di una barca incagliata / Era il tuo viso che ritornava / La tua bocca affiorata, / la mossa di un’ultima ondata, / il tuo corpo arenato / Quanta sabbia t’ho amato».
Prendere l’immagine femminile e impossessarsene, per essere altro da sé e in sé, dialogare con la sua frattura e la sua figurale gradazione affettiva, ricolma nei dettagli spaesati:
«Lo sai che le nostre / figure camminano / sui muri e sul soffitto? / E si potrebbe ridere / per questo / Ma quante ombre / abbiamo fatto insieme / Non è con il pensiero / che ti ricordo / Non è con il ricordo / che ti penso / È un’altra cosa. / è il senso / Prima non era / necessario […] Trovo cose tue spaesate in casa / Come un orrore provo / – esagero, sì, ma dire le cose / (ovvero i sentimenti) è esagerarle – / e un freddo che fa tremare / la palpebra di un occhio / non voglio guardare / Se guardo è di traverso / Cerco di non vedere / Voglio allontanare / Fare sparire / Ma voglio anche / sapere dove / Di’ qualcosa anche tu / Fa’ finta che ti senta / Fa’ finta ossia fammi il poeta / (fallo tu) / Diventa marinista / (sennò che poeta sei): / “Orrore non è il timore che le cose / si possano animare come mostri, / orrore è il timore / che una tua cosa senza te / (rossetto, fermacapelli, / occhiali da sole), / muovendo da essa stessa / partendo da un capello o da un’impronta, / non possa dimostrarti, / come si dimostra un teorema – / tutta intera e animata, / anche, se vuoi, mostruosa, / mostruosamente amata”».
In questa distanza si compie un desiderio alto e finale di raggiungimento. Un soliloquio, dunque, che scrive la sua mancanza ultima, che declina le negazioni per affermare, che spinge il frattale del dissolvimento in una purezza levigata e sorgiva.
Nella prefazione Lucio Saviani scrive:
«Un soliloquio. Sorprendere qualcuno a parlare da solo crea imbarazzo, ci si sente come intrusi, uno parla da solo, si rivolge a se stesso. O a qualcuno che resta muto? Oppure a uno che è assente? È la parola nella solitudine, una parola agostiniana. Ma si parla, qui, di solitudine come condizione del corpo o come disposizione della mente? Parla da solo chi non ha nessuno intorno a sé o chi non parla a nessuno se non a se stesso, anche se in mezzo a una folla? Se parlo e sono solo non è detto che stia parlando a me, e se parlo a me non è detto che stia da solo. Eppure, se puoi parlare a te stesso, essere il tuo interlocutore è perché hai interiorizzato il parlare tra due, il dialogo, ossia il «pensare in due».[3]
Parlare a se stessi e alle proprie stanze, alla propria mancanza, al fondo estremo del pensiero che si riflette, si espone, dialoga con la propria ineffabilità e si apre alla indescrivibile ansa del raggiungersi, del compiersi, della vita che si dona per ultimarsi, commuoversi e diramarsi nel silenzio:
«Tra parentesi / (ti chiedo a me) / ti pare possibile / (a me sì, possibile che sì), / ti pare possibile che tu, / (tu no, non sei possibile) / come io ti parlo, sì, tu / mi stia parlando? / Ossia ti sento me / (ma non mi sento te) / Non so come altro / Non so come altro dirlo / Non so, come altro, te […] L’interpunzione, ecco: / questi due punti precedenti, / le virgole, / l’interrogativo poco fa / Il punto fermo, no / Quello, alla fine / Sai, sono segni».
Il silenzio che appartiene al fondo e alle separazioni, la piena del romanzo dell’io si scompone nelle fibre e nelle venature e trasuda. La scomposizione della grammatica si sposta così per l’altro io che appare, ascolta, vive, diventa coppia e vira al femminile («I fatti e le persone diventano / nel poema immaginari / e nella realtà non esistono più / La voce del poema è femminile» o ancora «se al maschile / abbiamo al mondo un fine/ è la fine che abbiamo al femminile»).
Qui la parola compie se stessa quando dice io, quando si coniuga nella sua mancanza e indocile scarsità, nel suo lampo unico e nella pioggia grondante cade dall’alto, come un ricordo di una scena che si ripete: la durata delle elisioni, le rime che si cercano, il corpo nudo e bianco e la lontananza che accade.
Sono i modi finiti del tempo nella sintassi ineludibile, nell’inciampo, nell’ombra che cammina. E le fratture dell’essere, fino al nascondiglio immaginato e al poema vacillano nell’assenza e nella perplessità dei corpi in amore. La loro incertezza, il loro bisogno a distanza, il pensiero che parla come se fosse un’altra stanza e una compagnia di solitudini: «La nostra non che fosse incerta, / anzi, ma sarebbe molto stupido / se ci si innamorasse per vivere / la vita / Morire insieme è il primo / Progetto sovversivo di chi / Si innamora da vivo».
Qui Panella addensa la scrittura per farne essenzialità di altrove, controversia, pagina non scritta e luogo stesso della pagina, doppia negazione e dissoluzione franta dell’io, gli apostrofi, i bersagli mancati, le cadute di suono e rumore, l’invisibilità, l’attraversamento di una sparizione e la bellezza:
«Insomma, è ovvio, dico / E cos’è l’ovvio? È la possibilità, / in questo caso, / che le cose ossia le persone, / noi due, per essere precisi, / noi, gli unici abitanti della terra, / per quanto ne so io di te e di me / (gli altri sono le solite voci che girano / vocìo, notizie, ossia troppa invenzione)… / la possibilità (dicevo) che in quella sparizione / (dico) eventualmente noi poi ci incontriamo, / là dove gli spariti vanno e stanno / (e chi è più sparito di noi?, mi domando / conoscendo la risposta, e questa, / per inciso, è l’unica risposta che conosco […]».
In questo agone quotidiano, Panella ridesta le soglie e le linee della quotidianità, i paradisi della vocalità, avrebbe detto Mario Luzi, le voci perdute nei dettagli. L’amore plurale di ogni cosa, lo stesso amore da lontano. È il gioco dei pronomi, la loro attestazione finale che precede il loro infittimento: «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».
Il procedimento linguistico dell’autore ricorda molto il Milton Model, strumento del linguaggio che Milton Erickson utilizzava con i pazienti e che poi Richard Bandler e John Grinder[4] hanno codificato, individuando pattern linguistici, come scrive Samuele Corona:
«Il Milton Model contiene una serie di locuzioni e schemi di linguaggio che comprendono generalizzazioni,affermazioni ambigue e linguaggio indiretto. Tali schemi linguistici possono risultare indirettamente evocativi; in pratica permettono di “portare” la persona a guardarsi dentro di sé in modo che possa utilizzare l’immaginazione creativa.
E ancora:
«Con il Milton Model il soggetto entra in uno stato alterato in cui la mente conscia è distratta, mentre quella inconscia è libera di ascoltare le parole del proprio interlocutore. La mente inconscia interpreta il linguaggio del modello come un’istruzione per accedere a nuove risorse e creare nuovi comportamenti. Le istruzioni sono mantenute deliberatamente vaghe in modo che la persona debba scavare in profondità fra le proprie risorse inconsce e produrre così un cambiamento in modo facile e senza compiere sforzi. Il Milton Model utilizza simboli, metafore, immagini e un linguaggio positivo che attrae la mente inconscia e può indurre uno stato di trance, scatenando le risorse inconsce e il potere dell’immaginazione».[5]
L’amore superstite, l’acqua feconda, il silenzio che nasce come se fosse esilio, mondo leggero, il viso inclinato, la bocca scalfita dal sorriso, ultimità serrata come il mare.
«Ho mentito che t’amavo / Capiscimi / Avrei voluto versarmi / sul tuo viso, sul tuo petto / come crema umana / invece la mia voce parlava / Avrei voluto tu fossi / fango, una melma
nella quale affondare / soffocando / Invece, restando in superficie, / ci dicevamo a parole l’amore / come due villeggianti nuotando / (nell’acqua le bracciate / sono come all’asciutto/ gli abbracci: ci fanno / galleggiare; anche le gambe: / tu a delfino, io a rana, / e nella stessa acqua) / Avrei voluto speronarti / entrando in te, / le braccia nelle braccia, / le gambe nelle gambe / come in una tuta / da meccanico con la chiusura / lampo serrata come il mare / sul nostro affondamento / Come in una muta / Invece vociavo senz’acqua / nella bocca, anzi, ricordo, / poi, dopo, bevevamo / da una bottiglia l’acqua / che, fresca, accanto a noi / si intiepidiva sapendo / di temperatura umana / Con l’acqua in bocca per volerla bere / perdemmo l’occasione di annegare / e di tacere».
Perché l’amore è il punto deserto, dove non passa nessuno, il punto fermo del corpo nel deserto. E poi ancora i gesti soli come i ricordi, i suoni, i posti che scorrono e si palesano nel mondo che dura in quel tempo, per continuare a vivere. I tempi non coincidono, la sintassi amorosa non ha tempo, non trova scorrimenti, si ferma, si scambia, diventa il gemito di un lascito indenne, come una vacanza dal testo o la testimonianza di una resa:
«il mondo esiste / per le coincidenze / tra gli avvenimenti / e i nostri segreti / nella violenza di una repressione / nelle urla, in una maglia strappata, / (e il corpo apparso pare avere fretta), / nello strazio e nell’uscita stranita / di una voce, avverto i tentativi / di riprodurre il nostro godimento, / le mani addosso, le cariche, attentati / lo sfondamento, quella mescolanza / di forze dentro forze, / di ordine e disordine, / di bocche e di vestiti / e teste spinte sotto / dalla mano sopra / (come la polizia / fa entrare in macchina / i fermati / così io te, tu me, / noi, nostri sospettati».
La fine delle parole quando si ama. Come se dovessero essere prese da una rete, un sintagma spezzato, una nervatura di suono che inquieta, estasia, deraglia il subconscio. I collages, i patchwork, le pastiches, i paradossi, gli aforismi fittizi, le asimmetrie dettate uniscono emozioni oscure. La parola ne esce levigata, non mutila ma essenziale, non cerebrale ma spogliata: «L’acqua non scorre più, scorre l’anta. La frizione di un asciugamano, un tirar su col naso, il contrasto tra il corpo e il tessuto dell’accappatoio, ciabattine senza tacco come nacchere morbide. Fuori è spiovuto, gli pneumatici sul bagnato imitano gli scrosci. L’imitazione, il come e la somiglianza sono il lascito di quel che è finito di accadere».
È traccia lasciata dopo il diluvio, come dall’inaudito, come il per sempre che è eversione, così sia, universo.
Andrea Galgano
[1] Panella P., Poema bianco, Miraggi Edizioni, Torino 2018.
[2] Cesarini I., Vertigine della parola, (http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/poema-bianco-pasquale-panella/), 25 febbraio 2018.
[3] Saviani L., Nel verso del bianco (nota minima), in Panella P., cit., p.6.
[4] Vedi: Bandler R. – Grinder J., I modelli della tecnica ipnotica di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1984.
Poeta, narratore, romanziere insolito. Non si può racchiudere Luca Ragagnin in una definizione unica e completa, come racconta il suo percorso di autore multiforme, che non poteva restare indifferente a una casa editrice come Miraggi: dall’esordio nel 2012 con Musica per orsi e teiere, al passaggio di Capitomboli del 2013, alla perla rappresentata dalla trilogia Imperdibili Perdenti di fine 2015 scritta per i Totò Zingaro, fino al recente Agenzia Pertica del 2017, racconto di una improbabile agenzia investigativa che ha appassionato i lettori per la scrittura funambolica e sorprendente.
La musica per l’appunto. Ragagnin ha realizzato testi per parecchi interpreti: il rapporto solido e proficuo con i concittadini Subsonica, cominciato nel 1997 con il primo album del gruppo torinese. E poi canzoni per Garbo, Mao e la Rivoluzione, Antonello Venditti e, oggi, Mina. Quella che è considerata la più grande interprete italiana ha pubblicato a fine marzo Maeba, disco interamente realizzato con brani inediti. L’ultima canzone della tracklist è “Un soffio”, con musica di Davide “Boosta” Dileo – tastierista dei Subsonica – e testo di Ragagnin. Una canzone descritta come eterea e destrutturata, apparentemente lontana dal mondo della cantante per la traccia elettronica e le atmosfere psichedeliche. Ma la collaborazione tra Boosta e Ragagnin ha saputo regalare un’atmosfera insolita, resa ancora più unica dalla voce inimitabile di Mina.
Ho scoperto di essere morto, scritto dal brasiliano J.P. Cuenca, Miraggi Edizioni, è un testo arrabbiato che traduce, in crescenti allucinazioni, un provocato abbrutimento intellettuale che offusca le più segrete inclinazioni. La voce guida gioca tra l’elenco di vie brasiliane e ricorrenti trip geografici, con un rigurgito verbale che palesa incontinenza e irrequieto intorpidimento.
Le prime pagine narrano una lite ordinaria e improvvisata tra il protagonista scrittore João Paulo, in palese rapporto di omonimia con l’autore, e i vicini; il decollo del testo si sovrappone alla progressiva spirale che intrappola l’angoscia primordiale, sia singolare che collettiva, esemplificata dal momento in cui Cuenca viene a scoprire dalla polizia che esiste un verbale che notifica il suo decesso.
All’epoca di questa morte presunta lui però era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni”. Inizia il gioco: la pedina salta tra le macerie di Rio De Janeiro mentre riprende con un grandangolo inanimati salotti e scolorite favelas, simboli concreti di un timido orizzonte; a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare l’immenso mistero che fascia come mummia la sua identità.
Nell’atmosfera rarefatta in cui si muovono i Carioca, il mistero diventa sempre più intrigante e confuso, si susseguono pagine imbastite di idee altrettanto confuse in una trama che coinvolge e a sua volta vuole confonderci. Mi sono confusa pure io.
“tutte le strade, non appena ci posavo sopra il piede, si trasformavano in deviazioni”
Abbaglia il riflesso di un grigio sky line allo sfascio in cui si crea un vortice artistico-letterario simboleggiato dallo scrittore, che ci affida uno stile noir con cui vaghiamo per Rio de Janeiro, in un momento di catarsi che prende in giro l’opinione mondiale in attesa delle Olimpiadi, su un terreno comunque violentato.
La scrittura frammentaria potrebbe essere una confessione disturbata che ci fa compulsivamente entrare ed uscire dal testo e dalla finzione: non possiamo capire se l’episodio della presunta morte sia realmente avvenuto ed è proprio il modo più geniale per spalmare la curiosità tra le pagine in cui ritroviamo Cuenca pure in Italia; sappiamo che consegna all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, molto verosimilmente anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo intriso di invettive politiche.
A mio avviso, guardandomi bene da desueto perbenismo, il romanzo è puntellato di trivialità sessuali che però, riconosco, concorrono a restituirci attentamente l’immagine di un soggetto disubbidiente che osserva insieme a noi da un oblò la propria e altrui alienazione.
“mi sentivo come se fossi di vetro…. il sole di mezzogiorno mi trasformava in un corpo senza ombre. La mia testa si gonfiava come un pesce palla che incamera aria per poi ridursi subito fino a scomparire”
Si costruisce via via un palco dell’assurdo in cui recitano un uomo, la proiezione di sé con immediata negazione e fittizio ritrovamento; si crea un procedimento triadico che ricalca la sequenza hegeliana sciolta tra tesi, antitesi e sintesi per spiegare il momento intellettuale soggiogato dal momento negativo che sfocia nella più contorta speculazione.
Il romanzo è stimolante, folle, esagerato, macabro, forse realista? E’ un processo morale, contro se stesso e la sua città, tramite cui il lettore resta confinato in un’area deserta e labirintica senza spazio e senza tempo.
“Il presente non era più un punto di transizione del passato verso il futuro, e tanto meno uno spazio di ricreazione di questo passato e di questo futuro: era una ripetizione infinita di se stesso senza il minimo scopo”
Il manoscritto si interrompe a pagina 165 durante l’alba che proietta ombre. “quella morte era tutta mia”
Poema bianco, di Pasquale Panella (contributi di Lucio Saviani e Francesco Forlani; Miraggi Edizioni), è un soliloquio poetico che prende spunto dalle costanti immagini della quotidianità e le trasforma in un originale linguaggio iperrealista. È l’analisi di un gioco di coppia che si trasforma in solitudine, un’immagine allo specchio fissata a lungo nella speranza che si sdoppi e porti nuovi significati: “L’acqua non scorre più, scorre l’anta. La frizione di un asciugamano, un tirar su col naso, il contrasto tra il corpo e il tessuto dell’accappatoio, ciabattine senza tacco come nacchere morbide. Fuori è spiovuto, gli pneumatici sul bagnato imitano gli scrosci. L’imitazione, il come e la somiglianza sono il lascito di quel che è finito di accadere”.
Avete presente i palleggi volanti di Pelé? Uno, due, tre, gli avversari saltati con il pallone fatto passare sopra la loro testa. Oppure quei gol scheggianti e impossibili della Perla Nera? Palla di qua, portiere di là. L’ex superbo campione non ha mai trovato, in Brasile un erede, nel mondo sì, uno solo, il Borges della pelota, ovvero Diego Armando Maradona. Bene. Ora sappiamo chi è il Pelé della letteratura brasiliana, il fantasista, il romanziere capace del possibile e dell’impossibile, di farci stare la notte svegli, tra risate e ripensamenti, stupore e orrore. Si chiama João Paulo Cuenca, carioca, classe 1978, scrittore, sceneggiatore e regista, nel 2012 la rivista americana “Granta” lo ha inserito tra i venti migliori giovani scrittori brasiliani contemporanei. Per me è il numero uno, in assoluto. Un fenomeno. Non mi credete? Allora, andate in libreria (subito) e prendere di Cuenca “Ho scoperto di essere morto“, nella avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice, Miraggi edizioni (una casa editrice che non smette di sorprenderci).
Cuenca racconta di Cuenca che, dopo un alterco con dei vicini e una denuncia, scopre, dalla polizia, di essere morto, con tanto di verbale e autopsia. Ovviamente si tratta di un errore, ma qui comincia, in questo diario delirante, in queste pagine che non risparmiano niente e nessuno, il viaggio in un inferno sociale e “intimo” dello scrittore. Siamo in un gioco letterario strepitoso, dove tu, lettore, entri in quel decisamente strampalato labirinto e non vuoi uscirne più, ma per davvero.
I personaggi di “Ho scoperto di essere morto” appartengono, nella maggior parte dei casi, alle categorie sociali più elevate, in una Rio de Janeiro che si sta preparando, tra costruzioni e contraddizioni, alle Olimpiadi. Tra feste, droga, sbronze, situazioni comiche o grottesche, individui scellerati, Cuenca descrive quel mondo fatto di apparenze, e in buona sostanza, di soli vuoti a rendere:
“Chiudevano il cerchio tipi come un fotografo brizzolato, un francese abbronzato, un percussionista di samba panciuto, un poeta d’appartamento, un professore universitario con la forfora sulle spalle, il nipote simpatico di un senatore mafioso, un graffitaro concettuale, un saggista di provincia, un direttorino con il berretto, un dipendente della televisione, un editorialista di giornale – il solito circo di cretini periferici uniti dalla stessa autostima delirante e inversamente proporzionale ai loro successi (…) In questa Rio di Stocazzo, borsa di capitale sociale dove tutti erano figli, figliocci o pupilli di qualcuno, il mio sbrilluccichio da scrittore pubblicato era visto con curiosità e una certa condiscendenza. Sapevano che non avevo vincoli ufficiali o nobiliari. E tantomeno un soldo in tasca.”
Il finale è sorprendente, scoppiettante, assurdo, grottesco, incredibile. Cuenca, che ha già pubblicato un romanzo in Italia, con Cavallo di Ferro, nel 2008 “Una giornata Mastroianni”, lancia una stilettata potente sulla letteratura:
“Alla fine di queste conferenze dovevo resistere all’idea di interrompere i timidi applausi e confessare che i romanzi sono tossici e ambigui -e che il progresso dell’umanità deve loro poco. Che l’Europa illustrata da Cervantes, Shakespeare, Dante e Tolstoj ha schiavizzato generazioni di neri, indiani, di analfabeti e di dissidenti politici. Che Hitler, fanatico tra le altre cose di Don Chisciotte e Robinson Crusoe, leggeva un libro a sera e aveva una biblioteca personale di decine di migliaia di volumi, superata tuttavia da quello di un altro lettore compulsivo, Joseph Stalin. Che i libri sono solo degli integratori alimentari contenenti una certa dose di empatia e di intelligenza. Che la letteratura non è un catalizzatore morale, non offre redenzione e non ha alcun senso etico di per sé. E che deve rifiutare fermamente ogni responsabilità nella formazione di lettori se spera di avere una qualunque rilevanza al di fuori del circo equestre costruito con i soldi dello stato per alimentare l’illusione simultanea che 1) ha o deve avere qualche centralità culturale, 2) dev’essere salvata come una panda o una farfalla in via d’estinzione, e 3. non è una forma d’arte elitaria per natura. E per finire, dire che la letteratura muore un poco ogni volta che qualcuno alza la voce per difenderla su uno di questi palchi costruiti perché si creda ancora nella sua esistenza. Lasciarla morire mi sembrava un’ottima idea per salvarla da se stessa.”
João Paulo Cuenca è un autentico fuoriclasse. Un Pelé della scrittura. E ci chiediamo, con innaturale ansia: quando uscirà il prossimo romanzo?
C’è la famiglia benestante, quella di città che può permettersi di affittare la casa al mare per tutta l’estate, con una crepa dissonante, quel figlio ritardato che cresceva soltanto in altezza.
E c’è il fragile Paolone, imbozzolato in un mondo suo, che conserva integro il solo ricordo felice che possiede, il conoscere – unico depositario del segreto – la destinazione di quell’enorme pallone a forma di missile comperatogli dal padre, che poi avevano lasciato andare nel cielo.
Ma c’è anche chi ritorna in case abitate in tempi andati a riappropriarsi di un passo antico, a riconoscerne odori, ricalibrare rapporti, pesare assenze, vuoti e vergogne. Non è un caso che Simone Ghelli metta in esergo alla raccolta di racconti Non risponde mai nessuno – edita da Miraggi, con prefazione di Wu Ming 2 – una celebre citazione di Gilles Deleuze, La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere? È questa, difatti, la corrente sotterranea che percorre l’opera di Ghelli: la vergogna, la finitezza umana, il comportamento del singolo che si adatta al branco, il bisogno di accettazione – umano e crudele, riconoscibile.
Nel racconto Quando arriva l’estate¸ uno dei migliori, è una voce esterna a descrivere la famiglia Tamberi: piccola borghesia, professore di matematica lui, sfaccendata lei – alternativamente nascosta nella penombra al riparo dalla calura pomeridiana o stesa al sole a richiamare fastidiosamente il marito con la sua voce roca, impastata dal fumo delle sigarette e dalle medicine – e un unico figlio problematico, anello debole di una possibile perfezione, fonte di una sorta di vergogna a cui Tamberi padre reagisce (indifferente ai commenti crudeli degli abitanti del paese di villeggiatura che vorrebbero si rifugiasse in un ritirarsi schivo da ogni occasione sociale) rendendosi, anzi, partecipe di memorabili feste di mezza estate.
Un godersi la vita solo apparente: il signor Tamberi ogni sera veniva strappato dai pensieri che maturava sull’asciugamano, in posizione supina, per essere chiamato a frapporsi tra le bracciate scoordinate del figlio e la tonalità sempre più allarmata nella voce della moglie. Con gentilezza avrebbe detto qualcosa a quel ragazzo con i capelli così biondi che d’estate gli diventavano quasi bianchi; qualcosa che l’avrebbe convinto a tirarsi su e a raggiungere finalmente la madre, che si sarebbe gustata un’ultima sigaretta prima di cena. Ad esempio gli avrebbe promesso che se fosse uscito subito dall’acqua l’avrebbe portato più tardi a prendere la coppetta di gelato all’amarena che gli piaceva tanto e che ogni volta ripuliva con il dito, anche se quella era una delle tante cose che non avrebbe dovuto fare alla sua età. Ricordo come gli abitanti del paese osservassero quella strana coppia con compassionevole curiosità. Non riuscivano a fare a meno di giudicarli, di esprimere giudizi su quel figlio ritardato che cresceva soltanto in altezza. Dicevano che il signor Tamberi avesse avuto una gran scalogna, per alcuni che fosse addirittura vittima di una fattura. Ma come, si domandavano: perché proprio a uno come lui, che faceva l’insegnante di matematica in un prestigioso liceo?
Ma chi narra, che si intuisce non privo di misericordia anche nei silenzi lasciati a sospendere – quando incontra di nuovo dopo alcuni anni (Ghelli inframmezza uno significativo iato temporale in ogni racconto) padre e figlio, li addita agli amici con scherno: è questo, lo sa, ciò che il gruppo si aspetta.
Quella sera tornai sui miei passi e indicai platealmente la strana coppia che tornava verso casa.
Qualcuno disse qualcosa, non ricordo quale stupidaggine, che fece ridere il branco. Risi anch’io, non posso negarlo, del signor Tamberi. Risi di quel vecchio, imbarazzato e spazientito, che cercava faticosamente di trascinare via il figlio dalla tentazione di unirsi ancora una volta ai propri carnefici.
E l’ultima immagine che mi rimane di loro: due uomini sconfitti da un esercito di zucche vuote.
Un doppio senso di vergogna si ritrova anche nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Non risponde mai nessuno – più asciutto ed efficace rispetto ai primi del volume, dove invece la lingua soffre talvolta di ricercatezze ridondanti – dove un figlio si ritrova a gestire impotente la demenza senile del padre. Frustrato ed esausto, il giovane non riesce a far fronte e a combattere con la follia di un sistema assistenziale malato anch’esso, impastoiato in tempi tecnici incomprensibilmente dilatati, sorrisi d’ordinanza di assistenti sociali carichi di rassegnazione e soluzioni temporanee che non risolvono un bel niente.
Si vergogna, il figlio, dell’irritazione che prova per il padre, ma anche della casa del genitore abbandonata al disordine, del tanfo di urina dei gatti. Ma la sua impotenza, il suo sgomento, suggeriscono anche un’altra vergogna: quella della difficoltà di trovare strumenti efficaci per un accudimento dignitoso di chi si trova nel bisogno, della latitanza e manchevolezza delle istituzioni, dell’assenza di un aiuto di diritto (Simone Ghelli è stato, tra l’altro, obiettore di coscienza in un ex ospedale psichiatrico, n.d.r.).
Gatti e altri animali sono poi protagonisti involontari di molti dei racconti, così come i paesaggi esteriori che spesso coincidono – talora invece stridono, in una contrapposizione feroce – con quelli interiori. Il più delle volte, animali e luoghi leniscono e abbracciano: case d’infanzia, delle vacanze, di famiglia, accolgono quasi materne tutti, anche il conoscente depresso, con l’animo cristallizzato in un lutto da cui pare non sforzarsi di uscire, o ancora il parente eccentrico, quello che c’è in tutte le famiglie e di cui si evita di parlare con grande cura, vergognandosene. Vergognandosi, in fondo, di sé stessi, suggerisce Ghelli, di una propria assenza di pietas. Di un dubbio, immotivato, illusorio e frangibilissimo sentirsi migliori.
È risaputo che in generale non c’è nulla di più difficile che scrivere d’amore e questa affermazione apodittica è tanto più vera oggi, nell’epoca del disincanto che ci è toccato in sorte di vivere. Ebbene, sapendo questo (perché lo sa, fidatevi), è proprio di amore che il giovane Tomas Bassini ha scelto di parlare nella sua opera d’esordio e per giunta di quello più ostico da raccontare, quello che finisce nella solitudine e nell’abbandono.
Ora, detto così, il lettore potrebbe legittimamente pensare che Quando eravamo portieri di notte (Miraggi Edizioni, 2017) sia uno di quei romanzi tristi e tormentati che stillano lacrime e sangue, una cosetta leggera come I dolori del giovane Werther o peggio ancora Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Invece no, niente di più diverso.
Sia chiaro, il tormento c’è (e come non potrebbe) e si estrinseca in un ininterrotto flusso di coscienza per l’intero libro, ma lo fa con una voce ironica e scanzonata, a volte anche un po’ cinica e, soprattutto, autentica, che non solo non opprime il lettore, ma anzi molto spesso riesce perfino a strappargli un sorriso. Questo è senza dubbio il merito maggiore dell’autore, quello cioè di raccontare la sua storia con uno stile che, nonostante la gioventù anagrafica e letteraria, è già adulto, riconoscibile e personalissimo.
É bene dirlo subito, non è che l’agile volumetto di cui stiamo parlando (160 pagg. in tutto, compresi i ringraziamenti) sia del tutto esente da pecche. D’altra parte stiamo parlando di un esordio dopotutto, per quanto brillante. Al di là del titolo e della copertina infatti, entrambi non felicissimi a mio modesto parere (ma di questo non possiamo certo dare la colpa al Bassini), bisogna ammettere che talvolta il nostro gigioneggia un po’ troppo e si lascia trasportare dal suo stile brioso verso altezze inafferrabili. Ma si tratta di peccati veniali che personalmente sono più che disponibile a perdonare se li confronto col piacere di una prosa libera e non paludata, così rara nel panorama letterario nostrano, e che infatti affonda le radici, almeno a mio avviso, nel romanzo nordamericano contemporaneo (da Fante a Bellow fino al Richler de La versione di Barney) e scusate se è poco.
Un ultimo accenno lo meritano i personaggi del libro sui quali ovviamente giganteggia il protagonista e voce narrante (a proposito, sarebbe interessante sapere quanto c’è di autobiografico in questo libro) che occupa la scena dalla prima all’ultima riga con le sue sventure vere o presunte, i suoi incontri e, naturalmente, il suo cuore infranto. Riuscitissimo esempio di antieroe moderno calato in una realtà provinciale che però, fuori da ogni cliché, appare più simpatica e accogliente che cupa e matrigna. Tutti gli altri girano vorticosamente intorno a lui e ne sono in un certo senso l’emanazione, tutti meno uno, Lei, l’ossessione, l’amore perduto che incombe sulla narrazione come un fantasma che egli non riesce ad esorcizzare (o, più probabilmente, non vuole) e che in realtà è ancora presente in ogni sua azione e in ogni suo pensiero, fino a divenire la musa dispettosa dell’intero racconto.
Concludo dicendo che a me Quando eravamo portieri di notte è decisamente piaciuto e mi sento di consigliarlo spassionatamente al pubblico striminzito ed entusiasta che segue questa rubrica. Per quanto riguarda Tomas Bassini, non resta altro da fare che attendere la sua prossima prova letteraria. Vedremo se saprà confermarsi nella forma e magari migliorarsi nella costruzione di una trama più solida e strutturata. Noi lo aspettiamo al varco, ma contemporaneamente facciamo il tifo per lui.
Frigorifero Mon Amour (Miraggi Edizioni) è libro umoristico che affronta il tema dello spreco alimentare. Il protagonista del libro, Felice, è un marito e un papà che, vessato dalla moglie e dalle temibili figlie, deve fare i conti con la fuga del proprio frigorifero, esasperato dallo spreco di cibo cui assiste quotidianamente. Da quel momento Felice (ma sempre meno) proverà in tutti i modi a ricongiungersi con l’amato elettrodomestico. Alla fine di un turbine di eventi travolgenti: la morte improvvisa della caldaia, le sedute devastanti dal dentista, i weekend deliranti con le figlie e le colleghe fissate con le diete e lo shopping, sarà costretto ad affrontare una rocambolesca quanto grottesca discesa agli Inferi per ritrovare il suo amato frigorifero e il senso della propria esistenza. Il libro è anche sostenuto dal Banco Alimentare, che combatte lo spreco ridistribuendo ogni giorno alimenti a migliaia di famiglie in difficoltà sul territorio nazionale.
Lo scrittore Andrea Serra (Torino 1975), è seguito su Facebook da migliaia di persone per i suoi racconti umoristici. Nel 2016 con il racconto Il mio dentista ha vinto la XV edizione del Concorso Racconti nella rete e l’ha pubblicato in un’antologia edita da Nottetempo. Nello stesso anno ha vinto la II edizione del Concorso 88.88, premio nazionale per racconti brevi. E nel 2017 ha vinto il Premio speciale della giuria della XVI edizione di InediTO-Colline di Torino sezione Narrativa-Racconto. Pubblica quotidianamente pezzi ammuffiti dei suoi racconti e su Facebook e Instagram. Frogorifero Mon Amour è il suo primo libro.
Serra utilizza con grande arguzia ed intelligenza l’ironia per parlare nel libro di temi importanti, come lo spreco alimentare. Un romanzo godibile e di attualità. La vita quotidiana della famiglia di Felice è talmente simpatica e accattivante da sentirne la mancanza a fine romanzo. Speriamo di ricontrarla presto in un nuovo progetto con tante altre avventure (o disavventure). Abbiamo raggiunto l’autore per parlare dei temi centrali del libro.
Come è nata l’idea di raccontare uno spaccato di vita quotidiana?
Questo libro nasce dalla mia abitudine alla scrittura e soprattutto alla lettura, che mi accompagna da quand’ero piccolo. Ho sempre letto tantissimo e tenuto un diario su cui appuntavo poesie, riflessioni e racconti. Qualche anno fa ho iniziato a raccontare le vicende della mia famiglia e del mio frigorifero con un tipo di scrittura nuovo, nato un po’ per caso in una sera di stanchezza. Mi sono scoperto a ridere da solo mentre scrivevo. Ho fatto poi leggere qualcosa a mio fratello e ad alcuni amici che mi hanno consigliato di metterlo sui social. E così ho fatto e tante persone hanno iniziato a leggermi e seguirmi. Nel frattempo stavo lavorando ad un romanzo di altra natura, dai toni più intimisti, che immaginavo come “il mio primo libro”. Nei ritagli di tempo, quando volevo rilassarmi e divertirmi, continuavo quello sul mio frigorifero. E il risultato è che quello a cui pensavo come un passatempo è diventato il mio vero primo libro: come si dice, la vita è quella cosa che accade mentre sei intento a fare progetti.
Raccontare la famiglia e la routine è sempre un rischio invece tu con grande intelligenza se riuscito a rendere il tutto molto interessante: quali sono gli ingredienti fondamentali?
Non so, è venuto fuori tutto da solo: forse il segreto è stato quello di guardare con occhi nuovi quello che accade normalmente in una famiglia e scoprire che magari il frigorifero non è solo un elettrodomestico ma ha dei pensieri e dei sentimenti propri. Penso che in tutto questo abbiano influito le mie letture e il percorso di analisi che mi ha portato a riconsiderare complessivamente la mia esistenza. Devo ammettere che scrivere questo libro ha coinciso con un cambiamento anche nella mia vita famigliare. Ho iniziato a guardare con occhi nuovi e con stupore anche i fatti più banali. Perché in fondo ogni momento dell’esistenza è meraviglioso: da tua figlia che ti fa una domanda in piena notte o al tuo postino che ti recapita una cartella di Equitalia. Sono momenti unici e irripetibili che vale la pena di ricordare.
Il tema portante del tuo romanzo è contro gli sprechi alimentari: puoi spiegarci bene?
Dopo l’ennesimo pacco di carote ammuffite, un giorno parlai con mia moglie e decisi che avremmo cercato di sprecare meno (anche perché nel frattempo il mio frigorifero si era arrabbiato parecchio ed era scappato, come racconto nel libro) e mi informai: venni a conoscenza di tutta l’attività del Banco Alimentare e lessi con apprensione che nel mondo un terzo della produzione alimentare finisce nella spazzatura mentre 800 milioni di persone sul nostro pianeta vivono in stato di denutrizione: un fatto inaccettabile. E’ come se quando andiamo a fare la spesa riempissimo tre carrelli della spesa e ne buttassimo uno nella spazzatura. Per fortuna stiamo maturando una maggior sensibilità, e dal 2016 ad oggi nel mondo e in Italia lo spreco è diminuito concretamente. Ma si può fare ancora tanto. La cosa che mi fa piacere è che molte persone leggendo il libro hanno iniziato a fare più attenzione, proprio come è successo in casa nostra. Credo che questo sia molto bello da tanti punti di vista. Anche perché alla fine l’attenzione è un atteggiamento e un valore fondamentale. E’ l’unica via che conduce allo stupore e ti regala occhi nuovi con cui guardare il mondo.
Quanto c’è nel romanzo della tua vita?
Il libro parte da vicende realmente accadute, anche se poi profondamente rielaborate: come ad esempio per quanto riguarda il protagonista principale che ho chiamato Felice perché rappresenta l’uomo tipico della nostra società: indaffarato, sempre di corsa e in ansia, succube della società consumistica e dell’ultimo modello di Iphone, e fondamentalmente “infelice”, o per dirla secondo il linguaggio del libro, “ammuffito”. Sono partito dalla mia vita ma ho dato al libro una direzione ben precisa, come per fotografare una tendenza della nostra società, come si capisce bene dal finale. La mia vita, per fortuna, non è ancora così ammuffita o perlomeno, ogni giorno cerco di fare qualcosa per non farla ammuffire. E questo credo che sia già tantissimo. Sì, il mio frigorifero mi sta confermando che questo è già tantissimo.
Ho alzato gli occhi ed ero già a pagina cinquanta. Mi sembrava di aver appena iniziato, il treno era già in stazione ed ero l’unico idiota ancora seduto al suo posto. Questo per chiarire subito se il libro mi è piaciuto o no.
Il libro di João Paulo Cuenca dal titolo “Ho scoperto di essere morto” parla di un tale João Paulo Cuenca che all’improvviso riceve una telefonata dalle forze dell’ordine. Gli comunicano che a seguito di una denuncia appena depositata per questioni futili risulta che lui è morto già da qualche anno. João Paulo è uno scrittore. All’epoca di questa morte presunta lui era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni” edito da Cavallo di Ferro. Il commissario non gli sa spiegare come mai qualcuno abbia usato il suo nome per morire. Le cose non sono affatto chiare e a questo punto, a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare questo mistero. Anche perché dietro a tutto c’è la testimonianza di una donna e come ha detto il commissario, per quel che riguarda questa storia, citando il proprio scrittore preferito: non c’è nulla che una donna non riesca a peggiorare.
La ricerca lo porterà a vagare per Rio de Janeiro in un momento in cui le case vengono abbattute per far posto al nuovo, per mettera la pezza del mondiale di calcio e delle Olimpiadi ad un tessuto malandato.
Il libro è un continuo entrare ed uscire dal testo. Entrare ed uscire dalla finzione. Dobbiamo presupporre che l’episodio della presunta morte non sia mai avvenuto? Oppure è successo davvero? I verbali riportati all’interno del libro farebbero pendere per la seconda ipotesi. Cuenca in Italia, per quel libro, c’è stato davvero. Avrà anche dato all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, immagino, anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo gentrificatore, troppo votato alla politica, una lettera di uno che si vuole suicidare. E poi, il finale, perfettamente in linea con l’idea che Cuenca abbia dei manoscritti non conclusi nel cassetto. Prendiamo a piene mani dal regno dell’autofiction e del pamplet, navighiamo tra le righe di un romanzo mai banale, un caleidoscopio che restitisce molto bene l’immagine dell’autore. Una scrittura che fila via liscia e lascia sulle labbra appena un accenno di sorriso. Un sorriso dato dall’ironia che permea ogni pagina, ma soprattutto dai dialoghi fulminei, da commedia degli equivoci.
Quella di João Paulo Cuenca è di sicuro una bella scoperta. Un buon modo per iniziare le letture dell’anno. Chissà che non ritorni a fare un salto in Italia e che magari, tra qualche anno, la cosa non finisca in uno dei suoi prossimi lavori. Ne avrebbe di cose da scrivere sul nostro paese.
Ottima la traduzione di Eloisa del Giudice e molto bello vedere il suo nome in copertina.
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