La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di dieci racconti declinati fra realtà e sogno, racconti che si svolgono in un tempo che è fatto di tre tempi.
Trovo di grande interesse ciò che fa Simone Ghelli, una resistenza letteraria allo spirito del tempo attuale, una resistenza al raccontare i fatti col piattume del presente, una resistenza che ci regala la complessità del nostro vivere, così umiliato da tanti romanzi scialbi e da tanta pubblicità ignobile.
Con Simone riflettiamo: “ Due persone si conoscono, ma si conoscevano già e non si conoscevano ancora” così nel L’Ineluttabile, il racconto di un incontro che ho imparato a memoria.
Giorgio, il protagonista, si trova a Siena, deve partecipare ad una “Procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di ruolo di ricercatore universitario L-Art/06” dopo aver preso la laurea, sempre a Siena anni prima, dieci anni prima.
Incontra al Civico 90 di via Pantaneto un uomo sui cinquanta anni o più e tramite il libro, un libro, quel libro, e su una sciarpa regalata, in un locale che non è più il Pozzo, si svolge il dialogo sul cinema e sulla vita.
La nostra vita.
Tutto ciò che va dove non deve andare, tutto ciò che avviene senza il nostro volere, tutto ciò che noi siamo senza saperlo.
L’immagine- movimento di Gilles Deleuze è il libro che Giorgio ha in mano, un libro sul cinema, su “l’eterno ritorno come resurrezione, nuovo dono del nuovo, del possibile” di Bunuel e poi andiamo indietro nel 1996 l’anno in cui Giorgio inizia a seguire storia e critica del cinema.
Si era poi laureato nel 1999.
Negli anni la città è cambiata, Siena è cambiata ed anche l’ex Ospedale Psichiatrico è stato trasformato in una sede universitaria. Mi immergo nel racconto, vedo gli occhi verde smeraldo dell’altro uomo, lo sento dire con me, con Artaud, che si scrive per uscire dall’inferno.
Chi è l’interlocutore di Giorgio? Un professore universitario?
Così parrebbe visto che conosce bene il professore di filosofia politica di Giorgio.
Giorgio non lo saprà mai e terrà in regalo quella sciarpa. Non lo incontrerà più malgrado lui ritorni, speranzoso, più volte in quel locale.
Nemmeno noi lo sappiamo ma io lo conosco, lui è diventato una mia presenza in casa, perché esiste “un tempo interno all’avvenimento, che è fatto della simultaneità di tre presenti“: < Secondo la formula di Sant’Agostino, esiste un presente del futuro, un presente del presente, un presente del passato, tutti implicati nell’avvenimento, simultanei> ed è per questo che nulla è come sembra.
La realtà poi è implacabile.
Ci prova, in un’altro racconto, il professore Iuri Bettalli a far scrivere ai suoi alunni cosa sia la realtà e la realtà sarà terribile, contro di lui nemica. Compito di realtà.
Leggiamo i racconti di Simone Ghelli, con l’emozione di aver a che fare con uno scrittore vero, con un autore che rispetta la straordinaria storia che è la vita, un autore che ci regala con Lucrezio, la forza vivida dell’animo.
Leggiamolo e conserveremo ancora con noi la bellezza della letteratura.
Se l’opera precedente di Simone Ghelli (Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017) ci aveva proposto delle piccole e grandi vicende del quotidiano narrate con un alto grado di realtà, in cui spesso i protagonisti, con le loro insicurezze e fragilità, stentavano a trovare una relazione empatica, motivo esemplificato dalle loro “chiamate mai risposte”, questa nuova raccolta di racconti dal titolo La vita moltiplicata (Miraggi edizioni, 2019, pp. 128) sembra costituirne allora il giusto complemento, il degno contraltare, poiché esibisce al suo interno, con la perizia ormai consueta all’autore, dieci titoli nei quali la potenza dell’onirico e dello psichico è declinata ed esaltata al massimo grado.
Se c’è infatti un tema ricorrente che accomuna la maggior parte dei personaggi del libro, a fronte di un vita che li nega o che non corrisponde alle loro attese, è proprio il moltiplicarsi delle immagini, dei quadri e delle scene della loro vita interiore, che si succedono, si sovrappongono, scorrono come davanti allo schermo di un cinematografo, restituendoci in modo chiaro il bisogno che questi sentono di rifugiarsi nel sogno ad occhi aperti o in mondi più pensati che vissuti, quasi sempre nel tentativo di salvarsi da coloro che li circondano e che non li comprendono, da una realtà misera e triste che non amano, con cui non sono in sintonia, e che pertanto li delude, li nausea (come ne L’ultima vetrina o in Compito di realtà), realtà che nel corso delle pagine può incarnarsi esemplarmente nella città de La grande divoratrice, in cui si dissolve ogni possibile segno di umanità, di gioia, col suo livellare gli uomini a pure macchine la cui vita è regolata dalla fretta e dall’alienazione (“Tutto intorno la città gorgogliava, era un intricato apparato digerente all’interno del quale si stava estinguendo un’altra infinitesima parte della loro vita.“) o che assurge addirittura a mostro orrifico in La sentinella di ferro, probabilmente il più bel racconto dalla raccolta (assieme a Oboe d’amore), in cui apprendiamo del povero Ermete che ha passato diciannove lunghi anni “fra gli ingranaggi della grande macchina, che inghiottiva carbon fossile e sputava ghisa, e lanciava fiamme e sbuffava fumo e si mangiava anche le persone, non solo i loro corpi, ma anche le loro vite.“
Protagonista di Oboe d’amore, per esempio, è un giovane perso dietro le proprie fantasie (le sue tre muse, le chiama lui), che rincorre affannosamente, con slanci eroici più pensati che fattivi, a cui si oppone una madre poco comprensiva che vorrebbe riportarlo coi piedi per terra. Più che l’elemento diegetico, che lascerebbe credere inizialmente in un piccolo racconto di formazione (quanto pure al resoconto di una dolce alterità dal sapore schizoide), qui (come altrove, nella raccolta) l’aspetto che più colpisce è il ritmo, vero cardine che regge il tutto (il tema del racconto del resto è la musica), frutto di un lavoro egregio condotto sulla lingua e sulla sintassi, sulla musicalità della frase, sull’alto valore timbrico della parola che ne viene così esaltata mediante una modulazione non comune affinché riverberi come uno strumento.
Ma è in Vera che afferriamo ancor meglio la valenza dei versi di Lucrezio posti in epigrafe (tratti dal primo elogio di Epicuro, l’eroe “incivilitore” che per primo si oppose a un mondo chiuso dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, di cui apprendiamo il viaggio oltre i confini del mondo per portare la verità agli uomini), quando l’evasione dai limiti tangibili e razionali del quotidiano è tradotta da una prosa plastica e ardita, che straborda dall’ordinario, che si presta a soluzioni inusuali, nella quale il confine tra lo psichico e l’onirico è molto labile, e che esibisce a tal motivo un’aura che sfiora il poetico.
Sempre il sogno pare essere l’ultima via d’uscita che può salvare il Marcello de L’ultima vetrina dall’incomprensione generale, da una delusione profonda che pare avere ereditato dal padre, con il quale condivide anche la necessità di sprofondare nelle vite inventate dei libri, che contengono più verità delle vite vere (“entrambi avevano passato la vita a pretendere troppo, ad aspettarsi che gli altri sentissero quella stessa necessità di sprofondare nelle vite inventate, che capissero quanta più verità contenessero quelle che non le vite vere da cui prendevano spunto“), situazione molto simile a quella proposta in La somma dei secondi e dei sogni, in cui il protagonista evapora totalmente dietro ai manoscritti che giungono alla casa editrice per la quale lavora, fermamente convinto che la realtà dell’arte sia più vera del reale, e a quella di Piano inclinato, in cui solo col sogno ad occhi aperti Ascanio Ascarelli riesce a sottrarsi ad una vita monotona e ripetitiva.
Anche Compito di realtà, in una sorta di continuità ideale, ci propone un contesto ostile nel quale il protagonista stenta a trovare il proprio posto, ancor più quando si tratta di scendere a patti con l’ipocrisia generale, cosa che in fondo potrebbe anche giovargli, situazione che spinge il lettore, alla fine, a chiedersi se non siano proprio gli adulti, gli insegnanti, a sbagliare quando vorrebbero sentirsi dire dagli alunni solo quello che essi stessi pensano, rinunciando ad indagare il vero.
In questa molteplicità di fughe o di ribellioni tentate, fa eccezione però il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie (“Per me è tutto un caos indistinguibile. Ho disimparato persino a vedere, figuriamoci ad ascoltare.“), va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con grande estro artistico, per farne sinfonie, un modus vivendi in cui si potrebbe leggere la volontà di riscattare la realtà stessa.
Si rimane pertanto, a lettura conclusa, con la sensazione di avere tra le mani un libro ben pensato, che si propone come un’idea compiuta, con un’identità di stile, in cui Ghelli esibisce senza dubbio una valida padronanza dei mezzi e un’alta consapevolezza di quello che sta facendo (a dispetto di tante scritture banali odierne, tutte uguali) e in cui, come nella cronofotografia di Muybridge evocata ne L’ineluttabile, attraverso la scrittura e l’ampio spazio dato alla vita interiore dei suoi personaggi, mette assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi, cercando con questo di aiutarci a trovare un senso, una direzione, quanto meno ad arrivare ad una presa di coscienza.
GRANDANGOLO: “NON SERVE NASCONDERSI” DI MARCO PROIETTI MANCINI
Marco Proietti Mancini chiarisce tutto sin da subito. Non usa mezze misure nè sotterfugi per farci capire che cosa ci aspetterà non appena ci addentreremo tra le sue parole. Il titolo è il primo passo per mettere in chiaro il suo intendimento. “Non serve nascondersi” è fin troppo chiaro come incipit. E se non bastasse la sua dedica che apre la sua raccolta di racconti ribadisce il concetto. “Ai miei figli, che sono le mie nuvole più belle, anche quando portano le lacrime della pioggia.” Il libro è dedicato a loro, ai ragazzi di domani che oggi cresciamo in un mondo in cui non ci riconosciamo più. È per loro che le parole di Proietti Mancini assumono un’importanza fondamentale. Deve essere infatti il nostro insegnamento a dare loro un esempio per potergli permettere di affrontare il domani senza i nostri errori di oggi. Non ultimo appunto quelo di “nasconderci”, mascherando quelle che sono le nostre reali esistenze, emozioni e paure.
Non è più tempo di fingere, soprattutto con noi stessi. Accettiamoci per quello che siamo e il mondo saprà fare altrettanto. Non ha senso modellare le nostre vite su standard comportamentali o etici imposti dalla società. Il tempo prima o poi ci porterà il conto. Basta solo aspettare e il giorno del giudizio arriva. Per tutti.
È un libro che ci mette in chiaro un concetto che troppo spesso dimentichiamo, dandolo per scontato. La diversità è un valore e non un limite discriminante. È nella diversità che troviamo il modo per crescere. Concetto semplice e vecchio come il mondo, ma a quanto pare, visto ciò che succede ancora non del tutto chiaro. Rivolgendoci agli “uomini” di domani come fa Proietti Mancini in questo suo ultimo volume non possiamo che riporre in loro la speranza di cambiamento. Quel cambiamento, per tornare al titolo del libro, che deve partire dall’accettazione di noi stessi in primis per poi passare a quella degli altri.
Sono quattordici i racconti che la Miraggi Edizioni ha selezionato insieme all’autore. Quattordici episodi che scorrono velocemente raccontandoci momenti di vita quotidiana in cui non possiamo non ritrovarci. Quattordici istantanee che parlano di malattia, emarginazione, speranza, diversità più o meno manifeste. Ma anche di intolleranza, di dolore, solitudine e morte. Non ci sono vincitori o vinti. Non c’è competizione o ricerca di un finale che possa conciliare con la speranza. C’è solo la descrizione di un attimo e tutte le conseguenze che si ripercuotono nel nostro io più profondo alle prese con la presa di coscienza che stiamo inziando un percorso che ci porterà a poterci guardare senza dover abbassare lo sguardo.
Sono storie che sembrano incanalarsi perfettamente nelle cicatrici che solcano la nostra pelle sempre meno resistente agli acciacchi della vita. Storie che potremmo recitare a memoria ogni volta che passando davanti ad uno specchio ci fermiamo per un istante a controllare che sia tutto in ordine, tutto come deve essere, tutto come ci viene imposto da questa società che vorremmo cambiare ma che non abbiamo il coraggio di scalfire. È per questo che ci limitiamo a capire ed accettare i nostri errori in modo da preservare i nostri figli da quegli sbagli che continuiamo a ripetere.
SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI DI ANGELO ORLANDO MELONI
Il brasiliano Paulo Roberto de Freitas, conosciuto semplicemente come Bebeto, ex-allenatore delle nazionali di pallavolo brasiliana e italiana, in una famosa conferenza stampa stupì i giornalisti di tutto il mondo affermando che lo sport più popolare del proprio paese fosse proprio il volley. Alla domanda degli sbigottiti addetti stampa di come si ponesse il calcio in relazione alla categorica asserzione, che al momento sembrava una farneticazione dovuta all’esaltazione post-partita, il tecnico rispose pacatamente che il calcio non è uno sport, ma una religione.
Il calcio non è uno sport, ma una religione, ecco, sono convinto che questo assunto sia possibile traslarlo anche in Italia (e non solo), dove quello che è considerato il gioco più bello del mondo ha da tempo dismesso i connotati di una salutare attività sportiva per calzare quelli di una confessione con tanto di riti, funzioni, estremismi, miracoli, santi e profeti.
Ed è proprio da un miracolo, propiziato da una santa, che prende il via il racconto di Angelo Orlando Meloni Santi, poeti e commissari tecnici, storia che dà il titolo all’omonima raccolta dell’autore pubblicata quest’anno da Miraggi Edizioni e avente come filo conduttore il calcio. Titolo quantomeno azzeccato, in considerazione del fatto che in Italia tutti, ma proprio tutti gli appassionati/devoti si considerano anche ministri e sacerdoti di questa sorta di culto laico. Quindi, quello italiano non è più solo un popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori, come diceva Mussolini in un suo discorso nel 1935, ma anche di commissari tecnici!
Voi a questo punto direte, che cosa c’entra il calcio con l’universo fantastico di Cose da Altri mondi?
Intanto, come accennato sopra, si parla di un miracolo. Non solo del classico miracolo sportivo, come usa scrivere la stampa quando qualcuno compie un’imprevista impresa, ma di un miracolo vero e proprio, con tanto di santo e intercessore.
Siamo in Sicilia, a Vezze sul Mare in provincia di Siracusa, paesino costruito su una rocca che regalava panorami mozzafiato a tutti gli amanti della fantascienza apocalittica, vista la devastazione ambientale provocata da uno stabilimento petrolchimico. La locale squadra di calcio, la Vigor, è come quella celeberrima di baseball dei fumetti con Charlie Brown, cioè che non vince mai una partita. Infatti, chiude i campionati sempre all’ultimo posto e non retrocede mai solo perché milita in una categoria talmente infima che da essa non è possibile scendere più in basso.
Dopo cinque stagioni a bocca asciutta, ecco che improvvisamente inizia a vincere, oltretutto nei modi più stravaganti e improbabili. Il segreto di questo cambio di rotta risiede in una statua votiva della beata Serafina, patrona del paese, che comincia a suggerire al parroco, in un modo a dir poco bizzarro e che non vi anticipo, le strategie che porteranno la Vigor a giocarsi la vittoria del campionato. L’ultimo ostacolo all’impresa è però la A.S. Marina, la squadra del comune gemello di Vezze sul Mare, Marina di Vezze, che invece ha una tradizione calcistica decisamente più importante e che ha calcato anche i campi di campionati semiprofessionistici. L’incontro sembra dal risultato incerto, in considerazione del fatto che anche dietro le vittorie dell’A.S. Marina c’è l’intercessione di un intervento dall’alto. Che mistica partita sta giocando la beata Serafina e quali sono i suoi reali scopi?
* * *
Divertente racconto doppiamente dissacrante (e per chi come me conosce alcune realtà di questa splendida regione, anche con risvolti amarognoli) che mescola sacro e profano, misticismo, fantastico, calcio e animali parlanti, il tutto condito con uno stile frizzante e ironico, forse parodistico ma che nello stesso tempo offre uno spaccato disincantato di un certo mondo a margine della grande ribalta calcistica.
Il resto della raccolta continua su questo tono. Nonostante i racconti abbiano un impianto più realistico, l’autore trova comunque il modo di disseminare qua e là citazioni fantascientifiche. Il penultimo, il breve Perché no?, ci porta addirittura in territori orrorifici. Altri, pur non mancando d’amara ironia, hanno risvolti tristissimi, come il bellissimo Ode al perfetto imbecille. In Il campionato più brutto del mondo, infine, una sorta di racconto distopico, abbiamo shuttle spaziali che, parafrasando l’autore, sono pronte a solcare gli spazi infiniti alla conquista degli stadi delle più importanti galassie. Tutte storie che, partendo dal mondo del calcio, portano a riflessioni sulla società in generale. Ambedue non ne escono bene…
L’autore Angelo Orlando Meloni è nato a Catania e vive a Siracusa. Oltre alla raccolta Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi edizioni, disponibile qui), ha pubblicato i romanzi Io non ci volevo venire qui (Del Vecchio Editore), Cosa vuoi fare da grande (Del Vecchio editore) e La fiera verrà distrutta all’alba (Intermezzi editore). Un suo racconto, La sconfitta degli ultracorpi, è presente nella raccolta di racconti horror 24 a mezzanotte (Officina Milena).
VITA, MISERIE E DISSOLUTEZZE DI CHI PRENDE A CALCI UN PALLONE
Sembrano storie inventate. Anzi, lo sono. Ma, come si sa, spesso la realtà va ben oltre l’immaginazione. E il mondo del pallone ci ha abituato a sentirne di cotte e di crude. Angelo Orlando Meloni, in un libro ormai non più nuovissimo di pubblicazione (maggio 2019) ma di un’attualità sconcertante, mette insieme una lunga serie di episodi legati a quel mondo dominato da Nostra Signora del Pallone. Anzi, in questo caso, dalla Beata Serafina, visto che proprio lei è la protagonista del primo episodio.
Ci sono, a seguire, un centravanti alcolizzato, un arbitro incorruttibile, o quasi, un calciatore “più forte del mondo” costretto a scontrarsi con il suo di mondo. Analogie con il passato ed il presente di un emisfero dove Angelo Orlando Meloni ambienta il suo “Santi, poeti e commissari tecnici” (Miraggi edizioni). E lo fa come sa fare lui, con una sottile vena ironica che fa comunque trapelare malinconie e contraddizioni, dove Nino, per dirla con il “principe” Francesco De Gregori, non ha paura di tirare un calcio di rigore ma, se lo sbaglia, non sai mai se lo ha fatto apposta o è davvero uno sfigato che sogna il calcio in grande e si ritrova con un pallone sgonfio di desideri inespressi.
Il libro di Meloni è l’occasione, un’altra ancora, per parlare di calcio, per smontarne determinate trame e trascorrere, magari, una domenica con tra le mani un buon libro. Con buona pace dei nostalgici di “Tutto il calcio minuto per minuto”.
Nel suo ultimo romanzo, Luca Ragagnin ci delizia con una favola moderna in cui i protagonisti e i punti di vista si mescolano in una girandola di condanne e assoluzioni sempre parziali, in cui ciò che ha più voce è lì dove meno si sente.
Perché la prostituta è una fossa profonda
e la donna altrui un pozzo stretto.
Anch’essa sta in agguato come un ladro
e aumenta fra gli uomini il numero di quelli infedeli[1].
Il romanzo di Luca Ragagnin, Pontescuro, da poco uscito per Miraggi edizioni, è un testamento. O meglio, è il racconto di un testamento, nella sua accezione etimologia di patto. Un racconto che ha l’andamento delle favola. O meglio, della parabola. Una parabola che ha attraversato secoli di storie e di modi di raccontarle e che procede grazie a un continuo nascondimento: l’istanza narrativa si moltiplica, la verità si fa sfuggente, accumulatoria e mai conclusa. Non affermata, non negata, piuttosto suggerita. È, in pieno afflato greco, scoperta[3]. Ma non viene detta. Bella lezione e inattuale quella di Ragagnin: si può sapere e ciononostante tacere.
Con i testamenti sacri della nostra tradizione, quello antico e quello nuovo, così come con i grandi testi della tradizione letteraria, Pontescuro ha più di qualche semplice assonanza, ma colpisce come le fonti siano comprese in una rielaborazione originale e affatto scevra da intenzioni moralizzatrici.
Siamo a Pontescuro, un paesello sperduto da qualche parte nella bassa padana e colto in un’immobilità stranita, come fissato in una lastra di vetro di una fotografia d’epoca. È il 1922 e l’Italia si sta scoprendo fascista e cattiva.
C’è una puttana[4], come l’anonima peccatrice nel Vangelo di Luca. Solo che questa un nome ce l’ha e non da poco: si chiama Dafne, al modo di quella cantata nei miti greci e latini.
C’è un bambino salvato dalle acque, come quel Mosè tirato a riva dalla figlia del faraone. Questo invece ha nome Ciaccio e gode, rispetto a quello, di una reputazione contraria: è lo scemo del villaggio. Abbandonato nell’acqua si porta addosso anche la sorte di scampato al diluvio, visto che la giovine madre l’ha lasciato su un relitto di barca. Che a trovarlo sia stato un avvinazzato non fa che chiudere il cerchio.
C’è il signore locale, di tutto padrone e governatore, anche delle acque dalle quali viene raccolto Ciaccio; è su queste acque che viaggiano le barche di Cosimo Casadio, signore locale, capace di arche, come Noè e come Noè padre di tre figli maschi che sono in fuga e non daranno però alcuna discendenza. E di Dafne, una sgualdrina.
E poi ci sono gli altri, i moltissimi altri che fanno il paese Pontescuro, perso tra la nebbia feroce della bassa padana, dove regna la miseria, dove l’unica alternativa possibile è tra l’essere svegli e il dormire, dove la fame getta la sua ombra disperata e vorace sulla pulizia e sull’ordine.
Di nomi e soprannomi, destini e mestieri
Man gave names to all the animals
In the beginning, long time ago
(Bob Dylan)
Si chiamavano Giovanni, Tonio, Puccio, Giorgione. Si chiamavano Luigi, Mario, Bandiera, che credeva gli avessero dato un nome da femmina e cercava vendetta. Si chiamavano Guglielmetto, Rico, Luciano. E c’era la grassa, sensuale, infelice Nella. […] Si chiamavano Michelino, Franchino, Enrico. E c’erano Paolo di Ca’ Bassa e Paolo di Ca’ Alta, non si potevano soffrire. Poi c’era uno che viveva ancora più in alto di Paolo di Ca’ Alta, si chiamava Cosimo e aveva tre figli maschi e una femmina. La femmina si chiamava Dafne, che significa pianta di alloro, o di lauro. Si chiamavano Gené, che non sapeva che cosa sono i pensieri, e si chiamavano Emilio, detto il Zuntura, l’aggiustatutto, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore. Si chiamavano Làinfondo, perché il nome non gliel’avevano mai dato e allora indicava dove viveva, e si chiamavano Ciaccio, come il verso degli uccelli, don Andreino e don Antonio perché erano dei preti, e c’era furàza, la vongola, una cosa che non si può aprire senza il prezzo di ucciderla. […] Il paese si chiamava Pontescuro. C’era una volta Pontescuro. E tutti, dal primo all’ultimo, anche quelli che non avevano un soprannome, erano simili al Furàza. Si chiamavano in tanti modi, erano tutti chiusi, e ad aprirli morivano[5].
I nomi hanno importanza a Pontescuro, sono il bozzolo che ricopre le persone, le cose. Sono un destino, un’indicazione di senso. Sono quello che rimane dopo tutto. Un abito, un’abitudine, un’abitazione.
Abbiamo già conosciuto Dafne, la sgualdrina. Partiamo da lei. Nel mito era una Naiade, questa, una ninfa dei fiumi e delle acque dolci in generale, protettrice del matrimonio, nientemeno. Si dice che avesse acceso d’amore il dio Apollo che prese a inseguirla. Non la raggiunse, pur contando su forza e brame e velocità illimitate, perché Dafne chiese aiuto ai genitori che vinti dalle preghiere filiali la trasformarono in una pianta, l’alloro, che da quel giorno è sacra al dio della poesia. Il contrasto è stridente: nel romanzo Dafne non scappa da nessuno a tutti concedendosi. Una puttana di fatto, se non di diritto, non guadagnando alcunché dalla sua attività, lei che di denari non ne abbisogna essendo la figlia di Cosimo Casadio, e sorella di Giovanni, Giacomo e Gabriele. Uguali nel rapporto con la natura, per entrambe la brama voluttuosa è qualcosa da disprezzare: attraverso la fuga, per la Naiade; con l’esibizione di un potere sessuale smisurato, per la Dafne di Pontescuro. Medesima è infine la ragione ultima della morte, portata da chi ama e perciò salva.
Di Ciaccio potremmo dire che è niente più che un’onomatopea, un verso fattosi nome proprio, che è un altro modo di dire che un verbo si è fatto carne. La carne, a proposito:
La carne è una casa, o un attrezzo. È un rastrello, un badile, la venatura di un legno. È una cucina, un pollaio, un cassetto, un raggio chiaro che scalda una finestra, oppure polvere e inchiostro sbavato, lettere nascoste e ragnatele, qualcosa che scricchiola e non si sa dove. Nell’amore carnale c’è il pensiero della specie, corredi ricamati, pranzi all’aria aperta, con tutti i risparmi volatilizzati. C’è il denaro nella carne, ma anche l’odio, il disprezzo, la ripugnanza, la vendetta. Ci sono gli anni che comandano e ti prendono a male pieghe, e una parata di vestiti, di buon sapone e cenere bianca[6].
Ciaccio, lo scemo, è tutto questo insieme perché abita nella differenza dagli altri e dal padre putativo che ha avuto, Zuntura l’aggiustatutto, quella differenza che accompagna chi sopravvive alla morte, diventandone in seguito un alfiere, un sacerdote, un ministro.
Un ministro della carne, altrui, che dopo essere stato salvato viene rifiutato dalla casa-del-signore, da quel Cosimo Casadio che tutto possiede, tranne proprio la carne.
Sergio, a capo basso, assentiva, pronto a fare ciò che il suo padrone gli richiedeva. S’incamminò precedendo il suo padrone. Fece strada a un padre senza lacrime, i lineamenti di pietra, la schiena eretta e, per un attimo, ebbe paura[7].
Paura come se fosse il male, che pure non è, lo abbiamo visto. Non si dà male assoluto né bene assoluto nelle cose piccine del mondo. Che poi nemmeno di fronte al male assoluto, al buio, è buona idea avere terrore. Meglio piuttosto inchinarsi e scendere a patti.
Di patti, rischi e scommesse
When I was just a little girl / I asked my mother, what will I be
Will I be pretty / Will I be rich / Here’s what she said to me
Que será, será / Whatever will be, will be
The future’s not ours to see / Que será, será
(Ray Evans e Jay Livingston)
L’acqua precede il ponte. Il ponte precede il paese. La divisione precede l’unione. Sembra, in fondo in fondo, che per le cose umane non si scappi da qui. Prima c’è il diabolico, poi il simbolico. Per sanare la divisione il ponte ha avuto come garante, paradossalmente, lo stesso Satana[8], solerte nell’assicurare al costruttore la riuscita della sua impresa, la costruzione del ponte, e, in conseguenza, lo sviluppo del paese, cinquanta anime su una riva, cinquanta anime sull’altra riva. Equo. Solidale. E il costruttore accetta di avere un simile mecenate, accetta l’alleanza, il patto. Nel quale non balugina che un riflesso stantìo di quello che già fu di Faust e di altri, epifenomeni di una lunghissima tradizione letteraria. Non siamo di fronte alla folle ambizione del frigido Adrian Leverkuhn dipinto da Thomas Mann, né certo al tenacissimo amore di Margherita nei confronti del Maestro che la spinge a farsi strega del diavolo; d’altra parte, in ballo c’è solo la costruzione di un ponte. Un ponte che unisce due aree di un paese ancora da fare. È un patto spurio perché da un lato il costruttore non guadagna conoscenze né una vita eccezionale; anzi: morirà vecchio e stupido. Dall’altro lato, egli non garantisce con qualcosa di suo, ma stabilisce un patto che saranno altri ad assolvere, le nuove generazioni, dalle quali Satana esigerà la riscossione del credito.
Nel romanzo di Ragagnin non è tanto in gioco l’incapacità di discernere il vero dal falso, né la necessità di proclamare il bene e farlo vincere sul male, termini che rimangono ontologicamente ignorati dall’uomo:
«E allora, ditemi, un essere scaraventato nella vita, scucito e strappato dalla continuità e reso smemorato, come potrebbe avere coscienza assoluta del Male? O del Bene, se è per quello?[9]»
Ancorato a una dimensione umana, ciò che pare essere la posta in palio della scommessa dei protagonisti del racconto e, con loro, di ognuno di noi lettori che intenda cavarne una morale, è la responsabilità ultima delle proprie azioni. Scegliere il 1922, l’anno della marcia su Roma, ha un significato preciso, ricorda che ogni netta separazione tra bene e male, tra giusto e sbagliato rimanda a una realtà che non è quella umana, né può esserlo. Il patto col diavolo che inizia la storia di Pontescuro ripropone la situazione umana troppo umana che ci fa insieme sommersi e salvati, vittime e colpevoli, assolutori e punitori, in una girandola infinita che si perpetua scegliendo al bisogno il capro espiatorio che la storia può sopportare.
Dafne ci aveva offesi, tutti noi. Aveva offeso le nostre madri, le nostre mogli, le nostre future donne che sono le misere figlie che abbiamo, le figlie della miseria, perché ha sbattuto in faccia l’avvenenza, ha guardato la miseria delle nostre donne e ci ha sputato sopra con la bellezza. […] Ma non è nel nostro destino, la bellezza[10].
Dafne e il Diavolo sono omologhi, hanno in sorte di sbattere in faccia agli uomini di Pontescuro ciò che questi non avranno mai: immortalità e bellezza. Nella loro comune dannazione riluce l’assoluzione degli innocenti.
[2] “Con un pezzetto di pane, disse, puoi essere convinto a parlare o a tacere”.
[3] «Domandiamo ora, senza alcun riguardo per questa definizione abituale, come venne intesa la verità all’inizio della filosofia occidentale, e cioè che cosa pensassero i Greci di ciò che noi chiamiamo «verità». Quale parola avevano per nominarla? La parola greca che sta per «verità» – non lo si sarà mai ricordato abbastanza, e bisogna sempre tornare a farlo, quasi ogni giorno – è alètheia, svelatezza. Qualcosa di vero è un alethès, uno svelato», Martin Heidegger, L’essenza della verità, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1997, «Considerazioni introduttive», pp. 32.
[4] «Con il mio nastro rosso stretto intorno al collo. È così che sono morta: con un nastro rosso stretto intorno al collo. Strangolata, diranno. E non è nemmeno di seta, diranno. D’altronde la seta non le sia addiceva. Quella sgualdrina», p. 24.
Questi immigrati brutti e sporchi, che vengono a degradare le nostre città, a contaminarle… Leggere il verdetto su una panchina qualsiasi, con in mano una busta qualsiasi, la differenza tra la libertà e la galera… Figlio mio, che ne sanno gli altri, quando ti chiamo così, di cosa condividiamo io e te, mio peloso compagno… Perché non possiamo anche noi darci un bacio per la strada, camminare mano nella mano?… Da tanto tempo non succedeva, di svegliarmi così angosciato, di soprassalto. È bastato incrociarla per strada e tutte le antiche ferite si sono riaperte… Mi chiamate tutti Dondolo perché per me dondolare è stare in equilibrio in mezzo al vostro clamore, magari un modo per tenervi lontani… Iole si laurea, oggi, Iole la temeraria, Iole dalle mani veloci con cui comunica con tutto il mondo… La spiaggia al tramonto è il ritrovo ideale degli innamorati, ma chi ha detto che debbano essere per forza ragazzini al primo bacio?… Sto male papà, ho una malattia incurabile, e tu sei vecchio papà, chi si prenderà cura di te quando io non ci sarò più?… Solo adesso mi ricordo di cosa aveva biascicato tutto il giorno mio padre, furioso, tra i denti stretti, quando aveva dato un passaggio a quella ragazza, diceva “uomini di merda”… Sto uscendo di galera, sono libero ma questo odore non se ne andrà mai… Antonio mi citofona a mezzanotte della Viglia di Natale. È solo, vuole uscire. Anto, ma sei pazzo?… Alessandro e Anita in un attimo sono nudi nella camera d’albergo, a farsi una scopata di puro istinto e passione… Ulisse proprio non se l’aspettava, un ritorno così…
Quattordici racconti piccoli piccoli, storie di vita, momenti segnanti di intere esistenze. O forse è meglio dire esistenze segnate, perché i racconti fotografano vite diverse, al margine della società o della normalità o dell’equilibrio. Ma poi diverse per chi? I protagonisti si sentono diversi perché qualcuno, il mondo, la società, gli altri appiccicano loro questa etichetta. Così, è diverso l’immigrato, il disabile, l’omosessuale, l’ex galeotto, il malato terminale. E perfino chi ha un cane. Perfino chi è vecchio. Perfino chi ha subito una violenza. Come a dire, a ben pensarci, che siamo tutti diversi, perché vittime o carnefici siamo comunque diversi agli occhi di qualcun altro. Un tema attualissimo trattato senza retorica che, anzi, dalla formula breve del racconto trae una maggiore forza perché gli stati d’animo sono cristallizzati lì, in quel preciso momento, senza quindi dare l’occasione al lettore di seguire un percorso razionale ma quasi chiedendo la pura e semplice adesione empatica, umana. Una raccolta che ben si inserisce nella generosa produzione dell’autore, che già conosciamo grazie anche alla bella intervista proprio su “Mangialibri” e che non poteva che concludersi con un racconto tutto capitolino, un finale alternativo, amaramente comico, per l’amore tra Ulisse e Penelope, che qui sfugge alla retorica dell’eroismo del poema per prendere una dimensione, di nuovo, completamente umana.
Il mondiale di calcio polarizza l’interesse di molti anche non direttamente coinvolti dall’avvenimento sportivo e a sua volta risente di eventi più grandi e catalizzanti. Altre volte l’evento sportivo e gli accadimenti estranei ad esso camminano come rette parallele che mai si intersecano. Nel libro In un cielo di stelle rotte(Miraggi Edizioni, 2019) di Lorenzo Mazzoni il mondiale è coprotagonista o spettatore o semplicemente convitato di pietra nel grande spettacolo dell’esistenza.
Si parte dal primo mondiale nel 1930 via via fino all’ultimo che ha visto la presenza della squadra italiana e cioè l’edizione del 2014. L’autore sceglie in parallelo partite a volte importanti e nell’immaginario collettivo altri incontri meno noti a chi non è troppo calciofilo per costruire dei racconti paralleli o influenzati o influenzabili dall’evento sportivo. Il lettore si tuffa in situazioni decisamente originali. Nella fascistissima Italia del 1934 Mazzoni descrive con dovizia i riti voodoo che avrebbero favorito la prima conquista della coppa Rimet da parte degli azzurri. Nel 1982 mentre la Nazionale Italiana si muove prima imbrigliata poi sempre più libera verso la conquista del terzo titolo, si parla di una squallida vicenda di bassa criminalità con implicazioni più politiche, ma altre situazioni decisamente extra sportive sono al centro del libro.
In In un cielo di stelle rottetroviamo una scrittura originale, che non celebra lo sport più bello del mondo, né lo demolisce, ma semplicemente lo inserisce nelle umane vicissitudini.
Di recente Walter Siti, parlando della scrittura di Roberto Saviano, ha dichiarato che ‘difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti’. E’ un assunto condivisibile e necessario, che riporta le due questioni al denominatore comune del loro carattere di urgenza. Esiste però anche una terza possibilità e cioè che le due cose non debbano affatto essere contrapposte, e semmai che si rafforzino sinergicamente. E’ in questa direzione che va Uno di noi di Daniele Zito (Miraggi Edizioni), che scegliendo di farlo in forma drammaturgica racconta la vicenda di quattro quasi cinquantenni che dopo una partitella di calcetto, fanno una bravata e danno fuoco a un campo rom, uccidendo colposamente una bambina disabile e dunque impossibilitata a scappare. Storie di povertà spirituale ma anche storie di una follia un bel po’ ordinaria, in anni in cui in Italia è diventato normale autorizzare sui migranti scelte politiche di morte, in qualche caso persino legittimate da un’accorta retorica dell’odio e da una violenza di Stato avallata dallo scorso governo, un odio irrelato che spesso discende da generiche frustrazioni personali camuffate da necessità logistiche (“o noi o loro. Non c’è posto per tutti, etc.”). Daniele Zito affida a voci diverse la narrazione di una verità che per forza di cose risulta prospettica, raccontata in soggettiva dai personaggi che in quella verità hanno un ruolo: il carnefice (“Uno di noi”, appunto) che in sé riassume anche gli altri tre balordi che hanno incendiato il campo, sua moglie, il medico dell’ospedale dove viene portata la piccola vittima, il padre, la bambina stessa. Fa da sapiente controcanto il coro che, come è tradizione della tragedia antica, esprime il punto di vista della città, della comunità entro cui la vicenda si svolge. E dunque parla quel linguaggio ‘comune’ che ben conosciamo, si serve di espressioni come “Prima gli Italiani” e affini, ormai diventate automatismi al punto che rischiano di risultare scusabili, di non produrre più l’indignazione che meritano senza tuttavia perdere nulla della loro violenza. Ma l’opera di Zito non è un documentario, non è un’inchiesta e intenzionalmente non si inserisce nel genere tardo neorealistico (alla Saviano, per intenderci) che nell’urgenza di denunciare l’orrore, considera la forma un fatto accessorio. Già nella scelta del genere infatti, Zito si posiziona su un versante più sperimentale e, trascegliendo volutamente solo alcuni elementi strutturali della tragedia greca (mancano infatti molti tratti distintivi: agnizione, espansione tragica, complessità dell’eroe e sua dialettica interna ed esterna, catarsi, fato e necessità, etc.), racconta una storia di privata aberrazione che consiste innanzitutto nella mancanza di coscienza del protagonista che non si pente affatto del suo gesto e non mostra nessun senso di colpa, in tal senso smarcandosi completamente da potenziali modelli dostoevskiani, esclusivamente agito dalla paura d’essere scoperto, dalla volontà ‘di farla franca’. Zito mette in gioco un contro-eroe umanamente poverissimo, un nano se paragonato ai titanici protagonisti della tragedia greca, un personaggio che non evolve e in nessun momento ci dà speranza di redenzione, incapace fino alla fine di maturare una consapevolezza. ‘Uno di noi’ è quello in cui non vogliamo immedesimarci perché ci disturba e che proprio in assenza di una punizione o un ravvedimento, cioè di una rassicurante catarsi finale, resta a molestarci ancora e ancora. Come deve essere. È qui lo scopo di quest’opera drammaturgica ed è forse questa la ragione per cui Zito intende ricollegarsi alla tragedia greca: la sua militanza civile, l’intenzione destabilizzante che però qui, in questo consiste la modernità dell’opera, non viene compensata. Il carnefice infatti non guadagna la conoscenza profonda del senso della sua azione né della sua povertà spirituale, proprio perché sennò sarebbe in contraddizione con sé stesso: non ne ha i mezzi, non può. Nell’intenzione di raccontare questa storia così tristemente plausibile nel nostro tempo, Zito fa delle scelte stilistiche accorte che miscelano il linguaggio mimetico, trito e basico con cui i personaggi si esprimono, con un registro poetico che via via nel testo progredisce verso un abbandono del primo a favore di un linguaggio sempre più onirico, poetico fino a diventare musica soltanto, con cui, altra scelta felicissima dell’autore, viene data voce alla bambina rom (vero ‘pharmakos’, capro espiatorio innocente su cui si riversano tutti i mali della comunità). Con ritmo pienamente drammaturgico e agio tecnico, Zito fa dunque frequente ricorso all’anafora ossessiva (“Nessuno ha visto niente/Nessuno ha sentito niente/Nessuno è in grado di testimoniare”, oppure ”Tu prova ad andare nelle fabbriche/Tu prova ad andare nei bar/Tu prova ad andare nei cantieri”), alla ripetitività di alcuni mantra (“Il buonismo ci sta ammazzando”, “Questa è un’invasione bella e buona”) che hanno infestato l’immaginario collettivo verbale fino a pochi mesi fa e che ora l’autore fissa sulla pagina nella loro posa sconcia, nella banalità espressiva cui fa da contrappunto la finezza lirica che dà espressione ai pensieri della bambina, metafora di tutte le vittime che subiscono la Storia. Come è norma della tragedia greca, non vediamo l’atto criminale compiersi sulla scena ma l’orrore che si consuma affiora poco a poco dalla ricostruzione a posteriori che ne fanno le voci, riemerge e galleggia una bruttura morale che resta anche dopo, quando il martirio della bambina diventa metafora di tutti i morti in mare, vittime come lei di una collettiva ingiustizia autorizzata dalla legge, e che sono tanti. Tantissimi. Come le stelle, innumerabili. L’orrore resta e ci interroga, anche quando ‘Uno di noi’ rimane “a guardare quei granuli dissolversi nel liquido aromatico/finché non ne è rimasta più alcuna traccia”; anche quando ognuno di noi, che l’autore chiama a testimoni responsabili di questa Storia, lascia dietro di sé “soltanto le barchette”.
Prima delle periferie urbane ci sono quelle della ragione, prima dell’occupazione abusiva c’è una casa del cuore non autorizzata a odiare, prima delle mense per i poveri ci sono le tavole imbandite di rancore, prima dei campi Rom ci sono le anime nomadi che si spostano tra un ghigno e un urlo, prima delle ruspe ci sono i barconi fatti rovesciare nel Mediterraneo con il loro carico di morte innocente, prima degli italiani c’è uno di noi, uno qualunque perduto nell’abisso della propria inadeguatezza e sconfitto dalla rabbia e dall’astio covati nel chiuso di vite banali. Uno, uno qualunque può bruciare la propria abiezione morale tra le fiamme di un campo di emarginati, può non avere consapevolezza delle conseguenze del proprio sardonico gesto, può uccidere una bambina, la più fragile di tutte, lei che somma su di sé tutta l’ingiustizia del mondo, lei così piccola e rom e disabile. Uno, uno qualunque può continuare a non comprendere davanti alla sofferenza e alla morte. Uno, uno qualunque può continuare a giustificarsi, a stordire il proprio cuore con parole d’inumana sensatezza. Uno qualunque non ha la caratura di un eroe tragico: occorrono sentimenti forti, azioni grandi, magnificenza di pensiero. Eppure, mettilo, uno qualunque, dentro una sequenza barbara del romanzo del nostro tempo ed ecco che al romanzo subentra la tragedia, il canto terribile e terrificante di un’umanità ancestrale diretta verso la catastrofe. La tragedia greca chiamava catàrsi la catastrofe, purificando il pathos nella libertà, fosse questa persino una punizione divina. Se non fosse troppo meschino nei pensieri e negli atti, uno qualunque potrebbe restare schiacciato dall’anànke che schiacciò il più contrastato degli eroi tragici, l’Edipo di Sofocle. Ma l’anànke a volte ha un’armonia di fisarmonica, mentre suona a un angolo di strada o si “sfarina” nel mistero del confine grigio e acquoso tra la vita e la morte. La necessità fatale ignora il risarcimento. Il lutto non presuppone la luce. L’eroe non è l’eroe e la nuova Ifigenia muore per una guerra ancora più assurda di ogni altra guerra, della prima delle guerre terminata nell’infamia del fuoco: nel buio tempo di quell’uomo e ancora adesso nel buio del tempo di quest’uomo “ciò che brucia/ non ritorna/mai”. Non è un essere straordinario ad appiccare il fuoco ma uno qualunque, uno apatico, annoiato, livoroso, frustrato. Un idiota, l’avrebbero detto ai tempi dei tragici; magari anche utile avrebbero detto secoli dopo. Utile a chi? Utile a cosa? “ero come incantato/tutto questo vociare/ tutte queste parole”. Parole d’ordine, propaganda. Uno qualunque con i tacchetti alle scarpe da calcetto, una moglie e una figlia, un lavoro, gli amici, lo stress, la paura. L’indifferenza, l’egoismo. Uno qualunque è un dis-eroe al quale può scattare l’adrenalina e allora agisce e incendia una baraccopoli, mentre dentro gli risuona l’eco nefasta “o noi o loro/questa è un’invasione bella e buona”. Ma loro abita un fiume di miserie e di sofferenze, loro è la bambina ustionata. Uno qualunque non ha pietà ma paura, la guarda nel letto d’ospedale e spera che si salvi per salvarsi lui stesso. Dalle indagini. Uno qualunque perde tutto per la follia di una sera, ma non se ne rende conto. Uno qualunque può riempire le pagine di una tragedia classica. Una storia di criminale guerriglia urbana entra nei luoghi del più alto dei generi letterari. Accade però che la forma letteraria dei conflitti estremi si plasmi dentro una materia paradossalmente antitragica in cui la mediocrità dell’azione e dei personaggi fluisce dentro un contesto anch’esso mediocre. Non esiste l’eccezionalità, piuttosto avvampa in un’inarrestabile deriva di luoghi comuni, alimentati da pericolose idee sovraniste e razziste. La tragedia di un uomo e di una bambina, il razzista e la diversa, si fa manifesto contro l’idiozia degli italiani, contro il rissoso spirito del tempo, contro la disumanizzazione dell’uomo. Noi che siamo tutti quell’uno, noi colpevoli “viviamo l’abbaglio di una visione/ abitiamo il frastuono”: canta il popolo/coro che dà ora voce agli zingari ora fa rimbombare gli slogan dei razzisti, ora ricrea il Kommos, lo scambio tra l’uno e il noi, tra coro e personaggio. E il tirso dionisiaco chiede ai Don Caballero il ritmo metallico, perché c’è rumore di ferraglie e di coscienze arrugginite là dove si è spianato il fiume, che ora scorre nella memoria disperata della bambina. Sono tre i fiumi, gli episodi della tragedia. A tre fiumi somiglia la baraccopoli all’uno qualunque sulla cartina mostratagli in commissariato. Il fiume è l’agorà- tempio- bosco della tragedia classica. Il fiume non è lavacro né trascina detriti dell’anima ma fa scorrere vite non vite: della bambina ferita, della moglie incredula, della figlia inconsapevole, dei testimoni, di “uno di noi”. Tutti sospesi nell’indeterminatezza morale, tutti stasimi di un patetico coro. Tutti dentro l’ultimo libro di Daniele Zito “Uno di noi”. Una tragedia contemporanea: intensa, disturbante, crudele, straziante, dirotta, sconcertante. Una formidabile intuizione di scrittura. Da leggere tutta d’un fiato e d’un pudore. E poi aspettare di vederla in scena. Perché no?
Quattro amici di vecchia data, alla fine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Lo fanno così, senza una ragiona precisa, spinti dall’euforia del momento. Purtroppo, il loro gesto si trasformerà in tragedia. Il drammatico evento lascia su tutti i personaggi coinvolti tracce indelebili, Uno di noi ne è il resoconto, senza escludere nessuno, né le vittime, né i carnefici. È un libro duro, fatto di rabbia, di odio, di frustrazione. Parla di padri minuscoli, delle loro colpe, del loro inutile pentimento. Parla del ventre molle del Paese, della sua inesorabile deriva forcaiola. Parla dell’impossibilità del perdono. E poi c’è la scrittura, che divora ogni cosa, trasformandola in letteratura.
* * *
Daniele Zito ha trentanove anni, è nato a Siracusa, vive e lavora a Catania. Collabora con L’«Indice dei libri del mese» e «Che fare». Ha esordito nel 2013 con La solitudine di un riporto (Hacca). Il suo secondo romanzo, Robledo (2017, Fazi) è stato pubblicato anche in Francia. Nel 2018 ha pubblicato: Catania non guarda il mare (Laterza Contromano).
Per gli antichi greci le tragedie erano rappresentazioni teatrali con una forte valenza religiosa, morale e sociale. Opere affascinanti e mistiche che hanno lasciato un’impronta nella storia del teatro, del costume, ma anche della letteratura.
Uno di noi, Miraggi edizioni, è l’ultimo lavoro editoriale di Daniele Zito. Siracusano, autore influenzato dalle radici culturali della sua terra, ripropone qui una tragedia in chiave contemporanea, ambientata in Italia.
Quattro amici con l’abitudine della partita di calcetto settimanale, a fine serata, cercano brio e spensieratezza giocando col fuoco.
Chi merita il fuoco?
Sicuramente i “neri”, gli invasori, “che tornassero a casa loro”, questi i pensieri striscianti della combriccola sportiva. Mariti, padri di famiglia, lavoratori, persone dotate di un organo pulsante nel petto, trasformano una serata come tante in un buco nero. Le fiamme appiccate in una baraccopoli prendono il sopravvento e a farne le spese è una bambina. Una piccola disabile che vede fumo, fiamme, ma non può scappare.
Costretta a respirare esalazioni tossiche e crudeltà fluttuanti e gratuite. Vittima sacrificale della stupidità umana. Una piccola anima sospesa nel limbo tra vita e morte, al cospetto della certezza spavalda di quattro miserabili convinti di non essere scoperti.
La verità, prima o poi, viene sempre a galla. E se quasi tutti i protagonisti non riescono a fare i conti con la propria coscienza, non possono sfuggire ai conti con un altro stato d’animo: la paura.
Paura di essere scoperti. Paura di perdere la libertà. Paura di essere arrestati.
Le voci dei protagonisti si susseguono in un vorticoso tifone di stati d’animo, contrastanti tra loro. Crudeltà ed efferatezza di ciò che hanno consapevolmente fatto tornano in superficie, proprio come l’olio sull’acqua. L’eco struggente dell’agnello sacrificale e la sua voce infantile e tenera squarcia il cuore come se fosse una lama.
Uno di noi è un’opera estremamente attuale: un libro che si stratifica nei meandri del male. In un periodo storico nero, in cui il diverso, lo straniero, l’immigrato, diventano capro espiatorio di frustrazioni e intolleranze becere. Stati d’animo che armano il polso di guerrieri “italici”, che, in nome di un falso patriottismo ideologico, scalfiscono la dignità umana, calpestando etica e moralità.
Leggere questo libro è stato difficile (e necessario), perché l’epica di Zito rimbalza dalle pagine e arriva prepotente al lettore, quasi fosse un ceffone in piena faccia. Attraverso le voci disparate e disperate degli “attori in scena” osserviamo la realtà che ci circonda come attraverso un caleidoscopio.
Questa tragedia 2.0 ha il dono dell’immediatezza, brutale e concreta. Difficile abbandonare quest’opera a cuor leggero, perché il sentimento della vergogna emerge tra acque stagnanti. Un germoglio di speranza, che può far fiorire le coscienze. Sperando, come scriveva il buon vecchio Queneau, che dal fango possano nascere fiori blu.
Forse sempre meno, ma in alcune risacche con maggiore devozione, il calcio resta metafora dell’Italia, quel campo da gioco nel quale ancora si prova a essere eroi, a fare squadra, a lottare contro la quotidiana mediocrità, a fare i campioni attirando a sé consenso nazionalpopolare, lottando per non retrocedere, facendo dello scandalo e della corruzione una banalità da espiare come peccato veniale, invocando una religione laica.
È la metafora di una società sfasciata, sull’orlo del fallimento la raccolta di racconti del siracusano Angelo Orlando Meloni Santi, poeti e commissari tecnici, Miraggi edizioni, cinque storie che usano il calcio per raccontare lo sport che è la carta di identità nazionale. Il titolo della raccolta è anche quello del primo racconto, dove si narrano le imprese della Vigor, squadra di Vezze sul mare, che da sempre non ha mai vinto una partita, condannata a un eterno limbo perché gioca in una categoria dalla quale non è possibile retrocedere. E anche la retrocessione a volte è salvezza. Gli altri racconti si intitolano “Ode al perfetto imbecille”, “Aeroplano”, “Perché no” e “Il campionato più brutto del mondo”.
I personaggi sono perdenti predestinati, ma in qualche modo con un grande cuore. C’è l’ex campione che medita vendetta perché ormai dimenticato, ci sono padri ansiosi che vessano gli allenatori pur di far giocare i figli, proteggendo la loro scarsa bravura, anzi portandola a modello, e ragazzini scattanti e gagliardi che pagano le conseguenze di un sistema corrotto.
Meloni ha una scrittura barocca che nel contesto calcistico innalza tutto a epica. Esagera, carambola sulle parole, esaspera i personaggi rendendo tutto comico e drammatico insieme, ma con lucidità e una penna felice che lo contraddistingue sin dai suoi esordi. Sullo sfondo delle storie alcune volte si intravede Siracusa, senza prosopopea, ma anzi rasoterra, con uno sguardo minuzioso e tenero si raccontano alcune ingiustizie sociali, drammi ambientali come se a guardar bene si giocasse tutti in uno sfigato campo di periferia, senza erba e senza porte, ma con l’ebrezza di essere in serie A.
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