Quando cinque anni fa Sergio La Chiusa, palermitano d’origine e milanese d’adozione, fu finalista al Premio Calvino e premiato con la Menzione Speciale Treccani per il romanzo I Pellicani, poi pubblicato da Miraggi, ci fu chi ne salutò l’eterodossia rispetto alle forme narrative dominanti. Ispirato a maestri della letteratura umoristica come Gombrowicz e Beckett, quell’esordio in prosa di un ex-poeta attestava in effetti doti stilistiche non comuni, un senso pronunciato dell’assurdo e la capacità di osare senza manierismi il richiamo a certi capisaldi del modernismo letterario. Oggi sappiamo che quel libro fu scritto tra una fase e l’altra del lavoro quasi ventennale a un’opera più ampia, ora proposta con altrettanto coraggio dallo stesso editore torinese: Ilcimiterodellemacchine(Miraggi, pp. 400, euro 26) è un romanzo – mondo esaltante e benefico, perché dimostra come l’arte nata con Rabelais e Cervantes possa ancora esercitarsi in piena libertà.
ILBELLO è che fa ridere e non spaventa: il protagonista si chiama Ulisse Orsini, la sua peregrinazione estiva nella «città delle opere» (o «della moda e degli eventi») ammicca tanto all’antenato joyciano quanto al progenitore acheo di entrambi, la rete intertestuale è fitta e sfacciata nel chiamare in causa altre pietre miliari della cultura occidentale, letterarie quanto figurative o spirituali, eppure il romanzo non pecca né di grandeur né di epigonismo. Alto e basso vi si amalgamano anzi con una tale divertita disinvoltura da non lasciare dubbi sulle intenzioni dell’autore: abbordare ogni stortura del nostro presente con un mezzo più duttile possibile, sia linguisticamente sia nella composizione, e farlo attraverso un protagonista sfigato per bene, ma privo di una dimensione tragica. Orsini è infatti un quarantenne senza più lavoro, trascurato e depresso di conseguenza, indebitato quanto basta, che vive da solo fra condòmini più o meno molesti e da uno di questi si lascia avviare alla prima tappa del suo smarrimento: nel palazzo fatiscente dove ha sede l’ambulatorio del dottor Klammermann, kafkiano per nome e imperscrutabilità.
È solo l’inizio, ma già qui il narratore s’immischia parlando per sé e il proprio personaggio alla prima persona plurale, con il disincanto di chi sa quando rompere la finzione perché sa anche come ripristinarla, per poi di stazione in stazione concedersi divagazioni, accumuli, proliferazioni a latere che illuminano direttamente aspetti del reale. Il quale per il resto è qui trasfigurato in un cosmo metropolitano ad alto tasso immaginifico, non importa se si tratta di un artista mancato fattosi prete o di una venere dell’immondizia, di un bordello o di un reparto geriatrico: sempre le vicende di Orsini attraversano luoghi e s’imbattono in esseri di sorprendente vividezza e icasticità, e la sorte bislacca e inconcludente che sembra perseguitarlo nella prima parte è solo la premessa della sua avventura centrale – poiché a un eroe dei nostri tempi può toccare, nel migliore dei casi, di finire in una discarica.
È QUESTOILCIMITERO delle macchine: lo scenario alla periferia di una Milano mai nominata ma ben riconoscibile dove convergono gli estromessi di un sistema votato alla catastrofe. Ci sono i giovani incendiari, che dibattono puerilmente da posizioni ideologiche complementari ma inconciliabili, le antispeciste che indossano la mascherina per non ingerire i moscerini, gli imbrattamuri infoiati, il palestinese in crisi post-traumatica e la
naturista gravida. Ma soprattutto c’è Lazzaro Lanza, guru del «Movimento per la sopravvivenza dell’umanità» nonché imbianchino con l’Ape, capace di affondi profetici sull’oggi come di dialoghi notturni con Lao Tzu e altri «intellettuali insonni», e parente figurale sì di Gesù, giacché toccherà anche a lui una via crucis sui generis con annessa ascensione, ma anche del Franchino di Fantozzi, con pari dignità.
Non è tuttavia tra i rifiuti e gli scarti del capitale che finirà la deriva di Ulisse Orsini, né a Lanza basterà teorizzare ai margini, intenzionato com’è a conquistare il centro urbano con un nutrito seguito di diseredati inneggianti alla rivoluzione. Il trionfo pseudo-apocalittico in cui tutto culmina, prima del congedo di un Orsini sfrattato e spogliato, si sdoppia: ora in due varianti opposte e soltanto sognate di un diluvio che sommerge la città, ora in un ingresso cristico nella medesima che, quando non finisce a manganellate, è la farsa di un anzianotto accolto con ogni onore dalle autorità. Smarrito pure lui, non fosse per un’irresistibile ostia al cioccolato.
QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/archivio?autore=Stefano%20Zangrando
Quando nel 1926, in una nota a “Il Castello”, Max Brod divulga la volontà di Franz Kafka di fare terminare il romanzo con la morte dell’agrimensore K. proprio quando dal castello arriva la concessione all’uomo di poterci vivere e lavorare, Kafka apre una questione mai risolta sul rapporto tra essere umano e libertà.
Già nel quinto paragrafo del quinto libro di Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, dal titolo “Il Grande Inquisitore”, l’autore russo mette l’Inquisitore nella condizione accusatoria contro il Cristo ritornato, che aveva tentato di portare la libertà a un popolo non in grado di riconoscerla e di usufruirne. In questo al pari di Vasilij Vasil’evič Rozanov, che nel suo “La leggenda del grande inquisitore” analizza quel rapporto in seno al potere ecclesiastico, vero responsabile della deriva nichilistica dell’essere umano, allontanato da se stesso e da Dio.
Perché sei venuto a infastidirci?, dice l’Inquisitore a Cristo, disvelando quell’inquietante verità del bisogno di un’autorità che governi e induca l’illusione di felicità negli uomini, che è una finta libertà, che acquieta e abiura l’incertezza.
La domanda viene ripetuta ancora, è il cardine di un consolidamento di potere, perché è nel binomio potere-libertà che l’Uomo fa i conti con la persecuzione, la solitudine e la colpa dinnanzi all’autorità.
Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato».
E prosegue, “I fratelli Karamazov”, col dubbio su chi fosse nel giusto, se Cristo o colui che l’interrogò.
In questa enunciazione vi è la forte opposizione dell’essere e del non essere, che è propria del gioco sottile del potere, che tenta di annientare qualsiasi volontà. L’Uomo acconsente perché il peso della libertà è insopportabile. L’irresolutezza, secondo l’Inquisitore, condurrà l’essere umano a innalzare una nuova Torre di Babele al posto del Tempio di Dio, in mezzo alla pena, agli affamati, ai torturati, nel ciarpame e nelle discariche del mondo. E in questo inganno consisterà la sofferenza. Nel non trovare un posto nel Castello, nel non poter incontrare Klamm, il sommo funzionario, sfuggente, iperboreo, a cui K. vuole rivolgersi per risolvere la sua situazione. In ceco “klam” significa inganno, illusione, e tale sarà il funzionario, le cui competenze non verranno mai esperite nel romanzo.
Ulisse Orsini invece non ha nessuno a cui rivolgersi. Nella sua innocua nullità non ha nemmeno un Mefistofele moderno che gli insidi l’anima. Ulisse Orsini è un ultimo, un esodato, un rifiuto, una crosta purulenta, un ibrido umanoide senza identità. Ce l’aveva, Ulisse Orsini, ma l’ha persa. È stato costretto, Ulisse Orsini, ad andare via da casa, dal lavoro, dalla società. Ulisse Orsini non esiste più. E al suo creatore, Sergio La Chiusa, non resta altro che regalargli la parte in un romanzo per tenerlo in vita, da cui entra ed esce, con un “tu”, con un “noi”, a seconda di chi lo segue, se i lettori da soli o insieme a lui, il protagonista, lo scrittore e chissà chi.
Calma però, calma: Ulisse non sa d’essere in un romanzo: è un personaggio serio, a suo modo, e invece di perdere tempo mettendo in discussione i ruoli cerca una via d’uscita.
Lo inducono ad andare dal dottor Klammerman, il deus ex machina, in ospedale, che il suo sia un caso clinico?, quest’Ulisse che sragiona, che non sa che farsene della sua libertà, ora che la società non lo vede più.
Ma è l’inizio di un’odissea tra gli antispecisti, tra statue e manichini, in un condominio frequentato da fantasmi, tra incendiari ed enigmisti, con la sua valigia piena di vestiti o di niente, come un moderno “Bad Boy Bubby”, alienato, visionario pronto a tutto, che non è capace di ribellarsi, o per meglio dire, che in una smaniosa, affettata e quanto mai disperata ribellione non trova la felicità. E allora vaga tra discariche e relitti umani scambiati per guru, mentre Sergio La Chiusa svuota le frasi del superfluo, quei pensieri che a Ulisse Orsini mancano, vanno e vengono si fanno ipotattiche paralisi dinnanzi all’abisso.
Come aveva fatto nei precedenti testi, La Chiusa, “Che ci facevo sulle scale di un caseggiato in rovina?La mia situazione mi sembrava così irreale che sospettai di essermi inventato tutto (“I Pellicani”, pubblicato da Miraggi Edizioni, finalista al Premio Italo Calvino – Menzione Treccani; al Premio Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Megamark) e “Tali interrogativi mi spaventano e m’allontanano pericolosamente dalla realtà” (“Madre nel cassetto”, pubblicato da Industria & Letteratura), dicevo, come aveva fatto nei precedenti testi, lo scrittore induce il suo protagonista in una realtà deliroide fatta di frasi stroboscopiche sapientemente dosate, che allargano la visione del lettore e la costringono a vedere tutto in primo piano, non esiste più la tridimensionalità, la visione di fondo, ogni cosa è percepibile accanto all’altra, senza soluzioni di continuità ma con forme nitide e riconoscibili nonostante non siano scisse dalle altre.
A La Chiusa non resta che l’ironia, il tragico umorismo come primordiale autocoscienza del personaggio, in questi tempi in-drammatici e non più tragici. E così Cristo torna tra noi, in una versione burlesque e anacronistica alla James Ensor, autore del quadro che lo stesso La Chiusa cita nel romanzo, “L’entrata di Cristo a Bruxelles”, un’opera pittorica del 1889, in cui Gesù è attorniato dalla trasfigurazione epigonale di categorie ridicole. Buffoni, medici, paladini, maschere da ruolo sociale. Quest’opera è da subito ribattezzata “L’ingresso di Cristo nella città della moda e degli eventi nel 2004”, alludendo a Milano, nella sua impostura più spietata, città finta e di superficie.
«Cari concittadini, come potete vedere vi abbiamo riportato Gesù in persona, la nostra giunta comunale ha lavorato a lungo per arrivare a questo risultato che ci ha permesso di vincere un’agguerrita concorrenza internazionale. Tutte le capitali europee se lo contendevano: Parigi, Berlino, perfino Londra, che avrebbe voluto metterlo in coppia con la regina ed esibirli insieme a Buckingham Palace, e più tardi al museo delle cere, e siamo davvero onorati che nonostante le molte proposte alla fine Gesù abbia scelto la capitale morale del Belpaese per ripresentarsi nell’arena pubblica, e ciò è motivo d’orgoglio per la nostra città delle opere, sempre all’avanguardia, sempre un passo avanti… Ma ora basta! Ve l’abbiamo fatto vedere!».
Il Cristo pare vacillare, non è più di questi tempi, il Grande Inquisitore l’ha spodestato, tra palestrati, assessori, imprenditori, tutti a chiedere sciocchezze da talk show, incapaci di focalizzare le questioni essenziali. Sindaco e Cristo, come ne “I fratelli Karamazov”, solo che ora è una farsa, la farsa dei pomeriggi in tv, degli esperti che vedono talenti dappertutto, anche se il talento è fuggitivo ed è meglio che quello vero si disperda, liquefatto dalla prestazione posticcia di un qualsiasi saltimbanco da circo, fino a distorcere la parabola dei talenti.
Perché oggi si preferisce il fenomeno e tra tutti il morto singolo, fenomeno dei fenomeni, quello empatico, che scippa una lacrima al tizio seduto in poltrona a casa sua.
E chi vuole la verità?
Sono io il vero Ulisse, il signore è un impostore. Un personaggio! Posticcio e inattendibile pure come personaggio!
Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.
In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi; quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.
Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.
Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.
Ada Sirente segnalata col suo Duramatertra le «quattro autrici per l’estate: dal ‘taccuino’ alle voci degli expat, ecco i libri da portare con sé»:
Vanta natali abruzzesi anche Ada Sirente (il nome è d’arte), autrice di un libro straordinario come Dura mater (Miraggi Edizioni), sperimentale e intriso di un post-stream of consciousness, palpitante di preziosa poesia. Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello. Dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i suoi due luoghi: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica. Miscelando un affilato argot medico e corruschi tratti lirici, alla fine la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempedei contadini abruzzesi. Il ripartire sempre daccapo insieme al volgere delle stagioni, sublimando il dolore delle sciagure: quelle individuali, quelle collettive di terremoti e frane.
I libri food da leggere sotto l’ombrellone per gli appassionati di cibo e vino
Ricettari, trattati di storia, perfino libri gialli in cui i cuochi più famosi d’Italia vengono uccisi da un killer misterioso: ecco tutti i libri che gli appassionati di enogastronomia dovrebbero portare con sé in vacanza.
In ogni valigia che si rispetti c’è sempre posto per un paio di libri da leggere sotto l’ombrellone. E perché no, quei libri possono essere un bel momento di approfondimento sul cibo e sul vino, visto che l’estate è sempre un buon momento per dedicarsi a ciò che ci appassiona. Se quel qualcosa è il mondo dell’enogastronomia, ecco ad esempio che un viaggio si trasforma facilmente in un appuntamento con la scoperta di nuovi piatti, nuovi sapori e nuovi ingredienti.
Ma anche quando le ferie sono una più rilassante vacanza sotto l’ombrellone, ecco che il cibo e il vino possono tornare a essere protagonisti, e non solo nel pranzo al sacco da portare con sé sulla spiaggia.
I libri di cibo e di vino da leggere, in quest’estate 2024, sono tanti, e molto interessanti. Un’occasione utile per imparare qualcosa di più su quello che abbiamo nei nostri piatti: qualche ricetta sfiziosa, qualche tecnica particolarmente difficile, qualche storia appassionante e perfino qualche soluzione per i problemi delle nuove generazioni.
C’è tutto questo nelle letture estive a tema food & beverage che vi suggeriamo per il 2024: una selezione di libri molto diversi tra loro per scoprire qualcosa di nuovo e interessante sul magico mondo dell’enogastronomia.
Smarrirsi infinite volte in un albergo, ma per quale motivo? “Gli amanti perduti nel transfinito” sembrano suggerircene più di uno
Perdersi…
Che pensate di questo verbo, cari lettori? Ha un’accezione positiva o negativa?
«Dipende», direte voi…
«Mi sono perso di notte in una zona poco abitata. Mi sono perso nel nulla».
Oppure… «Lei si era persa nei suoi occhi». O ancora «Entrambi si sono persi nel centro di Parigi al tramonto. Che giornata fantastica!».
Evidentemente il concetto di perdersi ha una valenza che risente del “dove” e del “quando”. Ma cosa succederebbe se tale smarrimento avvenisse infinite volte in un luogo infinito?
Succede che la Miraggi Edizioni ha avuto il coraggio di credere in un testo che davvero risulta appartenere alla nicchia della nicchia. Questo fa del titolo di Piergianni Curti un libro dignitosamente emblematico dell’editoria indipendente.
In poco più di centoventi pagine l’autore dà vita ad una storia che non ha un inizio ed una fine, nel senso canonico dell’espressione, ma potremmo dire invece che si tratta di una finestra sull’infinito.
La trama, di base, non esiste: una coppia, Maria e Giuseppe, si reca in un albergo dove si rivolge al concierge per prendere una camera. Fine. Non sembra molto interessante, vero?
La chiave del libro, invece, è proprio nell’entità di questi 4 elementi. Chi è Maria e chi è Giuseppe? Sono quei famosi Maria e Giuseppe della Storia? Quel concierge è un portiere d’albergo qualunque? Ma soprattutto questo Hotel Hilbert, che prende il nome da un matematico tedesco di metà ottocento inizio novecento, che tipo di struttura è? Una sorta di residence con infinite stanze per infiniti clienti può davvero esistere nel mondo? Magari non esiste nel mondo finito, ma nell’infinito funziona egregiamente.
Come potete vedere tante le domande, perché tanti sono gli spunti di riflessione che lo scrittore, fisico e matematico, ha voluto sottoporre alla nostra attenzione.
L’idea di base è che l’hotel sia ubicato nel transfinito: un concetto introdotto dal matematico Cantor per esprimere la molteplicità degli insiemi infiniti. Di fatto lo studioso ha concepito e spiegato DIVERSI GRADI DI INFINITO nelle sue teorie.
Una volta chiarito che il luogo in cui si incontrano questi tre personaggi è collocato in un posto che non ha un limite, tutta la “vicenda”, estremamente semplice nella sua essenza, avrà conseguentemente delle sfaccettature “infinite”. Quella Maria, una influencer della castità, e quel Giuseppe, attivo nel settore della lavorazione di materiali fra i quali il legno, hanno problemi di coppia che risentono anche dell’ingombrante presenza del padre di lei. Entrambi finiscono per esternare le proprie difficoltà e il Signor F. dell’accoglienza tenterà di sfruttare la situazione per sedurre l’unica donna protagonista. Anche se… Maria è davvero l’unica protagonista de Gli amanti perduti nel transfinito? La riposta è “no”, perché esistendo infiniti insiemi, infiniti numeri ed infinite situazioni, ci saranno altre Marie che nello stesso momento e nello stesso albergo staranno subendo le stesse avances da altri signor F. di fronte ad altrettanti Giuseppe contrariati e scorbutici.
Le riflessioni, le ipotesi e le teorie ed i drammi che si consumano all’interno di queste declinazioni di persone costituiscono, di fatto, il libro di Piergianni Curti.
Il testo è un continuo susseguirsi di stimoli che vanno al di là della trama, dell’autore e dello stesso lettore. Per quanto possa sembrare assurdo, paradossale ed inattuabile, il concetto di transfinito non è poi così lontano nella vita di noi tutti.
Intendiamoci in molti si sono espressi sulla concezione dell’infinito con annessi e connessi. La matematica è il campo più adatto per affrontare questo tipo di elaborazioni. Niente è più concreto e, allo stesso tempo, più astratto dei numeri. L’autore cita Cantor, Hilbert, Gödel, ma nomina anche Sant’Agostino, Nietzsche e Borges.
Il suo testo narra ancora della crisi di coppia che si confronta con il sesso, della crisi dei fondamenti della matematica, ma racconta anche che nell’infinito esiste una ripetitività che di fatto non potrà mai mettere la parola fine a qualcosa. Infiniti noi si troveranno a svolgere le nostre azioni infinite volte, magari cambiando qualcosa oppure senza cambiare nulla.
Gli amanti nel transfinito non è certamente il primo scritto che affronta tali tematiche, ma è certamente uno dei pochi che imposta tutta questa complessa impalcatura composita a livello di intrattenimento.
Nel titolo della collana “scafiblù”, della Miraggi, c’è un occhio critico che attrae, perché da un lato è funzionale alla narrazione, ma dall’altro lato è la narrazione stessa. Ritroviamo così religione, psicologia, delusione e speranza, inganni, gelosia, passione, filosofia, drammi irrisolti e addirittura un colpo di scena finale, collegato all’ingresso di un (altro?) personaggio storico.
Persino imprese colossali come la Marvel o la Shūeisha assieme alla Toei Animation (quelle di Dragonball per intenderci) si sono servite degli sviluppi di concezioni simili alle teorie utilizzate da Piergianni Curti.
Il concetto del multiverso, tanto sfruttato dai comics e dai cinecomics, o la visone delle altre dimensioni, nei manga e negli anime giapponesi più recenti, è così diverso dal punto di partenza dell’autore?
Condensare tante tematiche in poche pagine non era facile. Orchestrare ogni aspetto in maniera tale che il testo potesse essere fruibile per tutti, era ancora più difficile. Credere in un titolo del genere, in conclusione, è davvero raro.
Complimenti all’autore, alla Miraggi ed a tutte le Miraggi Edizioni che amano perdersi nel transfinito e non solo.
Valeria Carletti è innanzitutto una stalker di professione e una groupie accanitissima. Cerca sempre di infilarsi nei backstage dei concerti e, perché no, se possibile anche nei camerini, così da scambiare quattro chiacchiere con i suoi artisti preferiti. C’è però un piccolo dettaglio da aggiungere: Valeria è in carrozzella, ma sogna comunque di fare uno stage diving. Ma non importa se ciò (per ora) è irrealizzabile, perché la musica la fa sentire viva, e molti cantanti ormai la conoscono bene e sono diventati veri e propri amici (Zen Circus, Dario Brunori, Samuele Bersani, Max Gazzé, eccetera eccetera). Poi con il suo cane Luna… Anzi, diciamolo bene: la sua cana… Ecco, con la sua cana Luna, si aggira sempre per le vie di Torino con le cuffie nelle orecchie. Ogni canzone le spalanca mondi ed emozioni fortissime, che la fanno vibrare di quella vita che a volte sembra sfuggirle. Perché sì, la sua non è soltanto una storia di entusiasmi e di “andràtuttobene”! Tutte cazzate, quelle. Ci sono anche i momenti bui, in continuazione. Alcuni amici le dicono che lei ascolta troppe canzoni tristi, ma non importa: si sa che le canzoni tristi sono anche la cosa più bella del mondo. E poi Valeria ha già organizzato in un’occasione un festival (naturalmente incentrato sulla musica) avente l’obiettivo di discutere, e se possibile abbattere, le barriere architettoniche: l’Oltranza Festival. Ora sta già pensando a una seconda edizione. E per via di tutto questo attivismo, di conseguenza, non riesce proprio a sopportare gli odierni governanti, del tutto indifferenti alle fatiche degli ultimi ma con la bocca sempre impastata di cristianesimo. Valeria, in effetti, talvolta pensa: “Chissà come si vergognerà quel crocifisso che tengono in mano”…
Cinquanta canzoni. Cinquanta canzoni che, se si ha tempo e voglia (trovateli), si possono anche ascoltare su internet grazie a QR Code presenti all’inizio di ogni capitoletto. Cinquanta canzoni che ci introducono alla vita, alle esperienze e agli innumerevoli concerti a cui Valeria Carletti ha preso parte. E va specificato: cinquanta canzoni di artisti per lo più indipendenti, tanto si sa: ormai (concordo con Valeria) la buona musica si trova soprattutto da quelle parti. Questo è dunque un diario, ma un diario di un genere molto sghembo e simpatico. Stracolmo appunto di musica (sono felicissimo di aver dovuto recensire io questo libro, dato che con gli Zen e Brunori ci sono cresciuto, e quindi…) e stracolmo di emozioni. Non tutte positive, sia chiaro, ma non stiamo qui a trattare Valeria come una poverina, né al contrario come una donna di forza eccezionale o altre scemenze del genere. Valeria è una donna, punto. Anzi no: devo aggiungere una cosa (del resto sarei qui proprio per questo). Valeria è una scrittrice. Questo infatti è un libro magnificamente scritto, struggente in molti punti, e capace di trasmettere un dolore intenso come solo certi libri sanno fare. Ci pone insomma dinanzi alle difficoltà della vita (di lei, ma anche nostra) con grande sincerità. In conclusione, davvero, qui c’è bellezza.
Qui l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/oltranza-disavventure-di-una-vecchia-groupie
Il clima è cupo, nella Francia appena liberata dalle forze alleate. Perché sono brucianti le scorie, non solo materiali, del conflitto ancora in corso. Il momento di fare i conti con quello che è accaduto è, infatti, arrivato. E tanti francesi non hanno la coscienza limpida. Così, in un campo di prigionia controllato dagli Alleati, esattamente nel 1944, si raduna un’umanità eterogenea di diseredati, relitti, prigionieri politici. Costretti ad una coesistenza forzata, in cui il caso può fare incrociare destini inconciliabili. Accade così che si incontrano due vecchi compagni d’infanzia, approdati per vie traverse alla medesima scelta politica. Il primo, François, ex comunista poi diventato collaborazionista dei nazisti al tempo della repubblica di Vichy; il secondo, Antoine, vecchio vicino di casa e fascista convinto. L’incontro innesca nel primo un flusso inarrestabile di ricordi, partendo proprio dall’infanzia, vissuta in un piccolo borgo francese. Qui matura le prime esperienze, passa dal cattolicesimo al comunismo, vive la lacerante condizione di orfano di guerra. E poi arriva Vichy…
Francesca Veltri dipana la trama del racconto lungo un arco spazio-temporale ampio. Lo fa concedendo lo spazio maggiore alla rievocazione memorialistica, condotta in prima persona dal protagonista-narratore. Lo sfondo è quello degli anni tumultuosi che vanno dal primo conflitto mondiale, vissuto in Francia in un’atmosfera di acceso patriottismo, fino all’occupazione nazista e all’arrivo degli alleati. Ciò che più conta è che il protagonista vive il suo processo di formazione in maniera intensa, facendo comunque delle scelte controcorrente. Così è quando abbraccia il verbo pacifista negli anni della Grande Guerra, e così è quando diventa comunista, prima, filonazista dopo. E perciò si stacca, talvolta in modo sinistro, dalla massa grigia degli ignavi, che preferiscono defilarsi. Rinunciare, cioè, a partecipare ai grandi rivolgimenti storici, restando così nell’ombra. Una scelta, questa, di viltà, che il protagonista rifiuta recisamente. La sua fisionomia caratteriale risulta quindi minutamente analizzata, ma sempre inerendola nel flusso degli eventi del suo tempo.
Un libro che scava, in maniera dissimulata, nella profondità della relazioni personali, della quotidianità e dell’autrice stessa. La recensione di Gennaro Ricolo
“
Chi è la Lorenza che scrive un diario in cui annota le vicende martoriate e a volte, loro malgrado, irresistibili dei pazienti di un ospedale psichiatrico di cui è “consulente filosofico”? È l’autrice stessa? È un caso di omonimia? Un alter ego, un Doppelgänger, ovvero un sosia, un viandante ubiquo? Luca Raganin
Così scrive Luca Raganin nella bella quarta di copertina del Buon auspicio, un romanzo non-romanzo, molto particolare, appena uscito per Miraggi edizioni.
Lorenza è l’autrice, è la protagonista, ed è Lorenzo, amico, desiderio e doppio. E racconta, con parole sue «in presa diretta, come in una stenografia del reale», e in più di 500 pagine, pezzi della sua vita, con tanto di nomi dei protagonisti, semplici conoscenti, amici, personaggi noti (gustoso e poetico il racconto di un week end con Houellebecq), senza filtri, in un modo così diretto da risultare urtante, inappropriato, e per questo affascinante.
Si sente spesso parlare di romanzo-mondo, quando un libro vuole ricreare da zero un intero immaginario. Il buon auspicio di Lorenza Ronzano non ha questa pretesa, ma è fatto di riflessi incoerenti, un collage apparentemente casuale di eco sovrapposte, in cui ricostruire qualcosa di unitario più che impossibile risulta inutile, e infine non necessario. Se ci siamo assuefatti alle storie intime, e “ombelicale” è un giudizio negativo, qui partiamo invece da un dato viscerale, doloroso ed entusiasta, capace di toccare il nostro stesso stare al mondo nella sua essenza più profonda.
Antonio Moresco, estimatore di Lorenza Ronzano e presente più volte nel testo, ne parla così, dopo aver tentato a lungo di farlo pubblicare:
“
Si lamentano sempre che non escono libri spettinati, e poi quando ce n’è uno spettinato e pieno di spigoli non lo vogliono!
Antonio Moresco
E ancora, in quarta di copertina:
«È strano, in questi anni in cui la grande editoria sembra fare a gara nel pubblicare libri scritti da donne (purché stiano dentro una certa cornice edificante e un certo spirito culturale del tempo), quelle che faticano a trovare accoglienza sono proprio le voci femminili più originali, più forti, più scomode, più irriducibili. Quella di Lorenza Ronzano è una di queste.»
Da quello stesso racconto di pancia e cervello si originano poi delle esplosioni di umanità e riflessione più ampia, a contorno per esempio dei racconti dei pazienti psichiatrici che Lorenza raccoglie, e che incontra per lavoro. Malati lo sono poi davvero? O sono “solo” stati sfortunati? Hanno sofferto nella vita e vengono per comodità sociale chiamati malati e sedati con terapie?
«Sto qui in ospedale a chiacchierare, mi metto a disposizione dei cosiddetti pazienti psichiatrici, loro mi chiamano Dottoressa, ma io sono il loro grande orecchio, la loro cassa di risonanza. Voglio sdoganare la follia, per questo ho deciso di lavorare contro una visione del mondo proprio nel luogo in cui questa visione viene creata. Sono l’anticorpo del sistema in vigore.»
Lorenza Ronzano sembra applicare lo stesso metodo a ogni cosa: cercare di forzare la superficie del mondo visibile, del consueto, dei rapporti interpersonali, con un racconto apparentemente piano, con uno stile fatto di «gergo quotidiano. Talvolta più sorvegliato, nella maggior parte dei casi immediato, concreto, persino grezzo», e lo fa indifferentemente che si tratti di raccontare sogni (assurdi come tutti i sogni, spesso esilaranti), desideri di amplessi sessuali, visite al padre in casa di cura, serate più o meno mondane nella sua città, Alessandria.
Impigliato e in balia del flusso del racconto, il lettore deve subirne i colpi emotivi per essere ricompensato – come accade nella vita – dall’intenso premio di vedere smuovere leve dello spirito che non sapeva di avere (più). Uno spirito che ha un corpo, che è in un corpo.
E qual è allora il “buon auspicio” citato nel titolo? Lo ritroviamo in un passo, riportato sul retro del volume, esemplificatico e come un marchio a definire l’identità di questo libro così inaspettato:
«Oppure, anziché portarlo in Svizzera per praticare l’eutanasia, potrei lasciarlo in un campo. Mi balugina per un attimo davanti agli occhi, come in un delirio visivo, l’immagine di mio padre sulla sedia a rotelle abbandonato in fondo a un campo. Quest’immagine mi è sempre sembrata di buon auspicio.»
Lettera, come tassello di un alfabeto, o lettera come un veicolo per comunicare nei tempi prima delle mail, degli sms, dei whatsapp, dei tweet, dei post. C’è una bella storia su una lettera speciale, il fondamento del movimento della scienza per la pace. Si tratta della lettera che AlbertEinstein spedì al filosofo Bertrand Russell, accettando di firmare il manifesto Einstein-Russell per la messa al bando delle armi nucleari. La storia racconta che Russell scrisse il manifesto e lo inviò ad Einstein perché lo firmasse. In attesa della risposta, in aereo da Roma a Parigi, apprese la notizia della morte del grande scienziato, un lutto mondiale, che per lui significava anche aver perso il cofirmatario di un appello di vitale importanza per il pianeta. All’arrivo in albergo lo aspettava però un plico da Londra, che conteneva la lettera firmata e inviata da Einstein prima di morire.
L’ultima lettera di Einstein per la storia è rimasta quella, ma per la letteratura è diventata un espediente, il nucleo di un romanzo sulla salvaguardia della specie umana, non solo dalla potenziale distruzione per via di un conflitto nucleare globale. Il romanzo si intitola appunto“L’ultima lettera di Einstein” e l’autrice è Daniela Cicchetta, per la casa editrice Miraggi Edizioni. L’ho conosciuta in presenza a Plpl2022, o meglio l’ho riconosciuta come una persona già incontrata chissà dove e chissà quando. L’autrice, in quell’occasione, mi ha regalato la parola sincronicità, che ha a che fare con il tema profondo del suo libro.
La parola significa letteralmente un evento fortunato, una scoperta fortuita, che nasce dalla coincidenza di fattori solo apparentemente casuali. E nel libro di Daniela Cicchetta, la sincronicità la troviamo in un mondo del futuro, nel quale, il ritrovamento di manoscritti originali di Albert Einstein, conservati segretamente e tramandati per generazioni fino all’anno 2190, potrebbe preludere alla realizzazione di una tecnologia capace di viaggiare nel passato e salvare il pianeta terra dalla sua autodistruzione.
“Una settimana prima della morte di Einstein”, scrive Daniela Cicchetta dando voce allo scienziato del futuro Marcel, “Russell gli aveva mandato la bozza di una dichiarazione a favore della collaborazione tra le nazioni per il disarmo nucleare che, senza il suo appoggio, non avrebbe di certo avuto la giusta risonanza. Mentre si recava a Parigi per incontrarlo seppe che era appena morto. Arrivato in albergo, però, trovò una lettera del fisico, con la quale aderiva all’iniziativa: ti rendi conto? L’ultimo pensiero di Einstein, l’ultimo suo atto pubblico è stato quello! Ovviamente i media gli diedero grande risonanza, la dichiarazione divenne nota come “Il manifesto di Einstein-Russell” e fu firmata anche da una decina di prima Nobel”.
Nel romanzo l’autrice riporta l’incipit del famoso manifesto: “Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare, riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del documento che segue. Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano, la cui stessa sopravvivenza è ora in pericolo. Il mondo è pieno di conflitti, e su tutti i conflitti domina la titanica lotta tra comunismo e anticomunismo. Chiunque sia dotato di una coscienza politica avrà maturato una posizione a riguardo. Tuttavia noi vi chiediamo, se vi riesce, di mettere da parte le vostre opinioni e di ragionare semplicemente in quanto membri di una specie biologica la cui evoluzione è stata sorprendente e la cui scomparsa nessuno di noi può desiderare. Tenteremo di non utilizzare parole che facciano appello soltanto a una categoria di persone e non ad altre. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. (…)” La trama potrebbe essere questa, se la storia avesse un andamento lineare. Ma l’autrice non intendeva raccontare di un mondo distopico, seppure in un certo senso lo fa, né scrivere un romanzo storico incentrato sull’impegno di Einstein per la pace e sulle sue posizioni spirituali nell’età della saggezza, per quanto anche di questo il romanzo narri, piuttosto l’autrice spiraleggia con la sua penna tra passato, presente e futuro, roteando attorno a un asse incentrato tra le rovine di Stonehenge.
Il personaggio perno della storia è una donna, Dunia, che tra quelle rovine capisce il senso delle visioni che l’hanno accompagnata fin da quando era bambina. Le visioni sono le vite di altre due donne, che lei accetta conoscendole e grazie a loro imparando a conoscere se stessa, fino alla sintesi estrema, che è poi il messaggio che io ho colto dal romanzo: sviluppare la capacità di ascolto al femminile è la via per arrivare a sentire la vita pulsare in ogni elemento del pianeta, uno stato talmente illuminato che lo si raggiunge solo attraverso molte vite votate alla ricerca di armonia con la vita stessa.
Einstein fu un fervente pacifista, a causa della comprensione profonda degli sviluppi tecnologici ai quali le sue scoperte rivoluzionarie avevano portato. E alla fine della sua vita dedicò quasi tutte le sue energie a tramandare l’idea di un pensiero scientifico capace di abbracciare anche la sfera spirituale come ambito di ricerca. Pur non sostenendo pratiche religiose, le sue idee aprivano la strada all’immaginario di una concezione del tempo che non avrà mai più una direzione prestabilita. E ancora oggi l’idea della freccia del tempo è in dubbio, così come l’idea che il tempo esista o che non sia piuttosto una nostra creazione mentale. L’espediente di un’ultima lettera, in cui Einstein abbia affrontato questioni sul tempo e sui viaggi astrali, questioni al confine tra la razionalità e l’emotività o il sentire del cuore, è secondo la mia lettura, il vero perno di questo romanzo. Attorno a questo ruotano i temi attuali della crisi della nostra specie, di un pianeta in bilico, ma capace di sopravviverci, e delle scelte che ognuno di noi può fare, per mettersi in ascolto della vita.
“«La senti l’erba crescere?» E io un giorno l’ho sentita”, racconta la protagonista del romanzo Dunia. “Ero sdraiata sul prato della casa in campagna dove giocavo da bambina, e mentre guardavo gli uccelli rincorrersi in uno spettacolo inconsapevole, la testa sprofondata nel tappeto verde, mi sono svegliata alla Natura. (…) Da quel momento nulla è stato più invisibile”. È questa la via indicata nel lontano passato dai druidi, per i quali “la Natura aveva un significato mistico”, continua, “intesa come manifestazione del mistero che ha dato vita all’uomo e all’universo. Non avevano bisogno di dei o religioni. Una ecospiritualità, ci pensi. Vivere in armonia con l’ambiente e tutte le forme della vita”.
Ma quando sarà possibile un cambiamento del genere? Viene da chiedersi leggendo parole che lo scienziato del Secolo Novecento aveva espresso già nel famoso manifesto. La sola risposta è adesso. Perché non c’è più tempo per esitare. Non c’è nella finzione letteraria, ma non c’è nel presente che ci è dato di vivere. “Non senti questo dolore del mondo?” riuona l’appello della protagonista al lettore. “Dobbiamo fare qualcosa, ma c’è sempre qualcosa che distrae, che non conviene e così si rimanda, in attesa che qualcun altro lo faccia al posto nostro. Come possiamo credere che il solo dichiararlo basti per attuare un cambiamento? (…) Il nostro futuro è oggi, il nostro passato è oggi. E oggi non c’è tempo ma è anche l’unico tempo per cambiare le cose”.
Si pensa che gli editori stiano talmente tanto tempo in mezzo ai libri, alle novità, ai libri che non hanno avuto fortuna, che quando chiudono la porta di casa, l’ultima cosa che fanno sia guardare la libreria, perché sentono ancora la polvere sulle mani, anche se sono lavate con fin troppa cura. Credo sia l’abitudine. Quindi un editore divenuto scrittore per un’altra casa editrice sembrerebbe essere una “goliardata”.
Invece Patrizio Zurru, editore di Arkadia, diventa scrittore e centra l’obiettivo: è bravo non solo a scrivere, ma anche a dispensare emozioni. La sua opera Endecascivoli (Miraggi edizioni, 2021) comprende ben sessantacinque racconti. Tra un racconto e l’altro viene lasciato mezzo foglio in bianco per il lettore, per dipingere o scrivere i vocaboli che hanno emozionato lo scrittore e dunque anche noi lettori.
C’è una grande purezza in questi racconti, di un adulto che guarda al passato con emozione, certo, ma anche con il sollievo di essere grande ora e qui. A fare l’editore nella sua terra. Poteva capitare, invece, che un bambino nato in Sardegna a metà degli anni Sessanta, dopo l’adolescenza andasse in miniera come gli altri uomini e padri di famiglia, oppure trasferirsi sul “continente” o addirittura all’estero per trovare opportunità lavorative.
I passaggi per una vita in cui non hai gli occhi rossi e dove respiri aria e non terra lo capiamo abbastanza presto, con la testimonianza fin dall’inizio di una giovinezza attraversata da viaggi, avventure in spiaggia e anche prima, con Patrizio più piccolo a giocare a pallone con urla della madre e delle sorelle maggiori a fare da sfondo, fino all’arrivo del padre che poteva anche picchiare i figli maschi con la cinghia. Ma poi bastava solo la voce paterna per trovare la quiete familiare, perché la terra nei polmoni era già uno scandalo tutti i santi giorni. Picchiare i figli sarebbe stata una resa, aver avuto proprio una giornataccia.
Nella collana Golem di Miraggi c’è sia narrativa che poesia e quindi Patrizio Zurru ci si inserisce di incanto, con questi brevi racconti poetici, dei magnifici “tableaux vivants“. Ricordi o epifanie? Tutta vita vissuta? Ma come ormai chi scrive lo dice fino alla noia la Letteratura è trascrizione di un evento che ha perso per strada l’oggettività, perché il ricordo scritto è mendace, pieno di buchi neri.
La letteratura è il tempio dell’impostore, che racconta quello che ha vissuto o non ha vissuto in forma nuova. Pensate a tutti i ricevimenti, le passeggiate e le parole dette in un salotto scritte da Proust ne La Recherche mentre lui, invece, scriveva a letto, pieno di malanni, senza vedere nessuno. L’eccezione che conferma la regola? Giammai. Nelle cose scritte con l’immaginazione non ci sono regole prefissate, sennò sarebbe cronaca. Invece ci troviamo in un vero e proprio libro col titolo da “calembour“. Quindi il Patrizio letterario gira per l’Europa, torna in Sardegna, sa già quello che non vuole fare, mentre il resto rimane nelle possibilità: non vuole andare in miniera ma non lo vorrebbe neanche per i suoi parenti di sesso maschile, perché non ci si abitua mai.
Vi riporto un estratto del racconto della miniera, o meglio dei racconti della miniera che da soli valgono il prezzo del libro:
Torna anche oggi. Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e col carbone attaccato addosso, non c’è stato il tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirar fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.
L’autore sente nei ricordi la stanchezza e “il mestiere di vivere“, attraversati come sono non tutti, ma alcuni, da un sentimento doloroso e umbratile tipico dello scrittore Cesare Pavese. Ma queste ondate di emozione non sono tutto il libro; anzi, la goliardia, lo scherzo, il cameratismo maschile, gli approcci amorosi sono tutte tappe per un uomo fatto, ora, mediamente tranquillo, con due figli, una moglie, un gatto e la sua professione.
Ovviamente lo spazio dedicato ai disegni il lettore non lo deve compilare per forza; lo si può vedere anche come semplice parentesi tra un racconto e l’altro. Chiaramente in certi passaggi sono chiamati in causa più i lettori che sono stati adolescenti o giovani negli anni Ottanta, dove bisognava fare la fila ai telefoni pubblici e, se ci si trovava all’estero, i gettoni erano conservati in una capace busta di plastica. Senza Unione Europea l’estero era già Mentone dove accettavano i franchi, a Parigi, manco a ripeterlo. A Berlino si pagava in marchi.
La scrittura di Patrizio Zurru è poetica ma con moderazione, ha spunti di umorismo che si ricordano con piacere, è spaziosa e quindi si può iniziare da un racconto che sta in mezzo al libro; ma se hanno deciso di metterlo in quel modo e inserirlo proprio in quello spazio un motivo ci sarà.
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