Sintassi, solitudine e Simmenthal. I Pellicani di Sergio La Chiusa
A cavallo tra Beckett e Lo Sgargabonzi, tra Topolino e Kafka, I Pellicani di Sergio La Chiusa (Miraggi 2020) si snoda come un sogno lucido, un’allucinazione verbale in cui il lettore viene risucchiato e imprigionato in un trilocale claustrofobico assieme al protagonista e al suo (presunto) padre. L’appartamento dell’anziano Pellicani è assieme stanza, mondo, e l’interno della mente di Pellicani figlio (?), che – narratore prepotente e assolutamente inaffidabile – filtra attraverso la sua logorrea ogni frangente della realtà, rendendola indistinguibile dalle sue fantasie e angosce. Il libro è l’appartamento e l’appartamento è il libro, e i protagonisti non possono uscirne perché vorrebbe dire uscire dalla narrazione, staccarsi dalle pagine.
«Il corpo è la gabbia dalla quale nessuna fuga è ammessa e che ci rende tutti simili […] anche l’immobile fatiscente in cui entrano in contatto i Pellicani potrebbe essere visto come un grande corpo-gabbia, o, meglio, un corpo sociale in rovina – e se un’etica del corpo è rintracciabile nel romanzo va forse cercata nella presa d’atto di questa precarietà e impossibilità di fuga che ci rende tutti simili.» [1]
Questo corpo-gabbia di cui parla La Chiusa, prima ancora di essere «immobile fatiscente», pezzo di carne o costrutto etico-sociale, è il testo stesso. O meglio, è soltanto il testo: la scrittura non s’immerge nella storia e nei personaggi, non si mimetizza, non si fa immagine, ma seguendo un moto inverso che dalla profondità porta alla superficie mette al centro se stessa e le parole, il loro suono, il flusso che creano. Utilizza un italiano eccentrico, desueto e pop, che attraverso un’ipotassi prepotente spinge il testo a perdersi in mille diverse linee di pensiero, voli pindarici senza capo né coda, un vortice senza un centro che col sorriso sotto i baffi fa progressivamente sfaldare il senso del discorso e delle parole. L’incertezza tracotante di Pellicani figlio, l’angoscia muta e scatologica di Pellicani padre, la decadenza marcescente del palazzo, non vengono tanto descritte, quanto letteralmente incarnate dalla prosa stessa. Tutto viene messo in discussione, anche l’identità della voce narrante in prima persona, che – nel momento di massima incertezza semantica e formale – non regge la tensione e, prendendo le distanze da sé e persino dal lettore, muta per qualche paragrafo in una terza persona.
«Il vecchio ci stava ipnotizzando, risucchiando nei vortici del suo naso, e anzi in un certo senso eravamo tutti accucciati lì dentro, rannicchiati, al calduccio, trasportati nel suo mondo, incavernati, per così dire, inselvati tra ruvidi peluzzi e ivi vezzeggiati da una brezzolina […].»
L’attenzione di La Chiusa alle possibilità espressive della prosa è senza ombra di dubbio l’elemento più originale e riuscito del libro (che non a caso ha ricevuto la Menzione speciale Treccani alla XXXII edizione del Premio Calvino), approccio in controtendenza rispetto un panorama letterario che solitamente privilegia l’eccessiva semplificazione, e che ricorda per certi versi quello (più filologico ma altrettanto fantasioso) di Massimo Roscia, un tour de force linguistico venato di un’ironia nera e surreale. Non sempre però la lettura scorre, non tanto per la lingua, quanto per certi momenti di ridondanza, che, a volte, più che scelte di stile sembrano provare a nascondere una prematura stanchezza drammaturgica. Come nel recente La Madre Assassina di Ermanno Cavazzoni (La Nave di Teseo, 2020) – formalmente opposto, ma dalle tematiche simili, entrambi racconti kafkiani incentrati su protagonisti che mettono in dubbio tutto ciò che vedono e che sono, intrappolati in un mondo ostile ma da cui dipendono, uno che cerca di emanciparsi da una madre/mostro, l’altro da un padre/parassita – l’impressione è che quello che sarebbe stato un racconto incisivo sia stato diluito in un romanzo sì piacevole, ma meno pregnante.
Con I Pellicani, La Chiusa ha tentato l’impossibile: una summa della trilogia beckettiana – di cui tocca tutti i temi salienti, dall’identità sfaldata, alla solitudine esistenziale, al caos, alla malattia, alla morte, all’incomunicabilità, e di cui rievoca la prosa fiume – ibridata con una vena satirica allucinata che, tra il trash e il nostalgico, tra la Simmenthal e Amleto, racconta di un Paese infantile e senile assieme, che si riconosce soltanto nella pubblicità andata in onda tra un cartone e l’altro quando eravamo piccoli. Un’ambizione mastodontica, insomma, destinata a fallire in partenza: ma La Chiusa sa che, stando a Beckett, il fallimento non è che il risultato ineluttabile di ogni azione umana, il motore che ci muove e paradossalmente ci spinge a vivere, e che, non a caso, è anche il fulcro de I Pellicani; dunque si può tranquillamente affermare che si tratta di un fallimento riuscito. In fondo il sottotitolo del libro è storia di un’emancipazione: emancipazione dalla società, da se stessi, dal falso mito capitalistico del dover “riuscire” per potersi definire umani.
«You must go on. I can’t go on. I’ll go on.» [2]
[1] Intervista a Sergio La Chiusa di Angelo Di Liberto. [2] da Samuel Beckett, L’innominabile
Prendi due amiche come la (ex) saviglianese Francesca Angeleri e la torinese Alessandra Contin, due giornaliste, fai loro scrivere un romanzo e ti trovi tra le mani una “tosta” opera prima a due mani dal titolo “l’EDOnista”.
«Siamo molto diverse – racconta Francesca – ma anche molto amiche. Ci siamo divise le parti ma con piacere abbiamo scoperto che si amalgamavano particolarmente bene. Nella storia di questo ricco ed edonista/narcisista della collina di Torino c’è molto Piemonte ma anche molta Inghilterra. Lui è un bad boy ma stranamente sensibile, con un rapporto difficile col padre e molto legato alla mamma. C’è, nel racconto, molta vita tormentata, c’è tanta droga, ma anche lo studio, la serietà, la redenzione, la crescita di un ragazzo che diventa uomo».
Francesca Angeleri scrive per il Corriere della Sera, mentre Alessandra Contin, che è stata la prima donna a scrivere di videogiochi, ora pubblica per la La Stampa.
Pur essendo scritto da due donne, l’EDOnista parla “al maschile” ed è intriso di scene di sesso, anche molto esplicito e quando Francesca ha fatto leggere il libro a sua mamma… «un po’ di, ovvio, imbarazzo c’è stato, ma poi lei mi ha fatto i complimenti».
Nota di merito anche ad Andrea Raviola, l’illustratore (che ha lavorato anche sull’ultimo video di Loredana Bertè) che ha realizzato il disegno della copertina.
L’editore è il piccolo “Miraggi edizioni” e Luca Ragagnin ha il merito di aver apprezzato il romanzo decidendo di darlo alle stampe, forse la “casa” giusta per un bel libro di esordio.
In questa storia le parole vengono in qualche modo prima di tutto. E allora comincio proprio dalle parole che riempiono gli spazi, le distanze tra le mots et les choses, tra Luca Ragagnin, l’autore, e le cose, tra sé e il mondo. Tra i mobili della stanzetta in cui era bambino, la sua scrivania, il suo lettino, e i muri perché da bambino il narratore non sopportava che il suo letto fosse stretto alla parete. Quello spazio è l’insostenibile vertigine del vuoto. E le parole che devono riempirlo, “mettersi tra” (intermettersi), diventano infinite, quasi quanti sono gli atomi che ci separano, sempre più lontane dalle cose, che finiscono per perdersi in descrizioni e sovradescrizioni, voragini e burroni. Per avvicinarsi però all’autore, alla sua psiche e nevrosi. Berg, così si chiama il narratore, in fondo sta lì, in quello scarto, in questa distanza. Dove appunto la digressione e i suoi flussi sono uno stato d’animo, un modo di stare al mondo. L’opposto della digressione è la mancanza di immaginazione, la pigrizia, così ci dice. L’immaginazione invece per Berg è quello che separa la parola dall’azione, il reale dalla realtà, tutto quello che sta lì in mezzo. Lì senza argini, il bambino che contava numeri si allunga nell’adulto che conta parola per allungare il tempo.
Le parole hanno un’origine materna o paterna. Quelle del padre sono tassonomie, quelle della madre aspettative. Tra parentesi mamma o papà perché i genitori sono separati e quindi non solo doppie vacanze ma anche cose separate, quelle di mamma e quelle di papà, parole separate, e in qualche modo due universi separati, gli uomini da un lato e le donne dall’altro. Ad un certo punto della storia la madre di Berg, una maestra, compra una casupola in campagna che il narratore descrive nei minimi particolari con la solita autoironia che è un modo per nascondere a se stesso quei sentimenti scomodi che si nutrono nei confronti dei nostri genitori e che non sempre siamo disposti a vedere ed accettare. Questa casina dove tutto batte contro tutto, dove ogni spazio si scontra con quelli contigui, avviluppata da erbe e cose ed insetti minuscoli, una casa giocattolo, una casina delle bambole, un fortino è, allo stesso modo del romanzo, una rappresentazione perfetta dello scrittore, almeno di quello che si nasconde dietro Berg, e delle sue fobie. Ma è anche la forma del ricordo. Cos’è in fondo quella casa in cui siamo vissuti quando cresciamo e tutto cambia, e siamo nelle nostre case e ci mancano tante cose, se non uno spazio minuscolo, un nocciolo, chiuso e perfetto nelle sue imperfezioni come un carillon, come una casa giocattolo, appunto?
Ma anche la casa o stanza che il narratore va costruendosi è un piccolo cerchio forse ancora più angusto della casetta della madre. Un cerchio che allontana tutti gli altri, per snobismo, le ragazze stupide, i figli di papà, e tutti quei nemici, reali o immaginari, che ci costruiamo, forse solo per paura, prima che quegli altri ci facciano del male o ci feriscano di nuovo. “Non sarà un cerchio perfetto, probabilmente non sarà nemmeno un cerchio; sarà una forma chiusa, irregolare, spezzettata, ma avrà una porta, per lasciare fuori”.
Nella stanza, tra i muri e sipari del cerchio, le parole devono assolutamente sostituirsi agli oggetti, coprirli, nasconderli. Soprattutto alcuni: quelli che hanno occhi e ingranaggi, quelli da cui il narratore anche adulto continua a distogliere lo sguardo. Le cose che lo fissano con occhi inanimati, come le bambole di pezza nella stanza della madre. Le bambole sono come tre bambine che odiano Berg. Così come la sveglia, che il bambino osserva mentre la madre riposa nella sua stanza, scatena la visione del cadavere di una donna nuda (di nuovo una figura femminile, di nuovo legata alla stanza intima della madre) e insidiosa. Oggetti che portano con sé quell’angoscia che nel romanzo di Saramago, Las intermitencias de la muerte, è per assurdo moltiplicata dall’assenza del tempo e della morte. Quegli oggetti sono il tempo che si prende beffa di te andando indietro per poi prendere quella rincorsa che si porta appresso tutte le illusioni.
Intorno alle parole ci sono le parentesi anche loro oggetto di infinite moltiplicazioni. Poi ci sono le forme che non si adattano alle cose e alle parole che le descrivono, ma hanno una consistenza propria, un’idea, forse l’immaginazione propria dell’infanzia, che si interpone tra la cosa e la parola, trasformandola e creando un lessico molto intimo.
Le parole-talismano o piuttosto parole-leggendarie attorno a cui si materializzano i passaggi da un età ad un’altra, che sono sempre piccoli salti o piuttosto passi attorno a un punto, sempre lo stesso, in sfere che da quel punto si allontanano sempre di più. Fino a quando quel punto resterà dentro pulsante o soffocato. Catavoletto è una di queste: il tavolo posato su due cavalletti che gli regala il padre e che in qualche modo rappresenta il luogo della scrittura che per Ragagnin è un tavolo-sorella. Una sorellina immaginaria, Kyoko, (ancora una versione della femminilità della madre) della cui mancanza il bambino in qualche modo si è fatto una specie di colpa. Un cappello che è un po’ come un orsetto. C’è la panchina. Nel mio immaginario la panchina è un posto romantico, lo spazio stretto di un appuntamento, un bacio svolazzante come quelli di Doisneau sulle piazze e i bancs publics di una Parigi che sopravvive ancora, fedele a se stessa. Niente di più lontano dalla panchina di Ragagnin: luogo della comitiva ristretta di pochi ragazzi, sicuramente appassionati di musica cult, non il pop dei comuni mortali. Solo ragazzi, magari un po’ misogini ma per timidezza. Queste parole sono soprattutto oggetti su cui ancora scorre il tempo. Ma questa volta non minacciano Berg, piuttosto lo difendono come bastioni.
Ragagnin si mette sotto torchio. E quando ci si mette sotto torchio le parole diventano labirintiche e hanno ganci che trascinano con sé tutto, pieni e vuoti. Ganci ancora sono quelle parole tra parentesi a fine capitolo che visivamente devono anticipare ed afferrare l’inizio del capitolo successivo. Il suo bambino intermittente è un bambino distratto, un adulto con la testa tra le nuvole, incapace di portare a termine qualsiasi progetto, uno che inciampa, si scontra continuamente nelle cose che sporgono e quando resti impigliato anche le parole e i ricordi fanno cadute rocambolesche, giri vorticosi. E allora possono far male. È un bambino che probabilmente la madre ha sempre cercato di incasellare. Il biglietto da visita che la madre gli regala in una risma e che il bambino riscrive continuamente è una metafora di questa necessità di inquadrarlo. Che poi diventa una necessità quasi maniacale del ragazzino e dell’adulto di nascondersi, e di coprire sotto tutto il suo vero me. E su quel biglietto ci sono alcune delle definizioni che sentiamo dire distrattamente o con grande apprensione ai nostri genitori: bambino iperattivo, bambino problematico, Ragagnin aggiunge, bambino tra parentesi, bambino maltagliato, bambino indeciso… Tutte tristi testimonianza della difficoltà dell’adulto di accogliere un bambino. Lui quei biglietti racconta di averli inceneriti ma nel romanzo ritornano. Il romanzo stesso è l’ennesimo biglietto da visita, un’altra identità.
Berg è un collezionista, di libri, di musica e vinili, di erudizione musicale. Ma soprattutto di parole e ricordi e di immaginazioni, che hanno una consistenza diversa dalla sabbia della famosa collezione che Calvino sceglie come metafora della sua raccolta. Eppure anche tutti quegli oggetti e fantasie ancora così corporee, accumulate, a volte affastellate in queste pagine finiranno per diventare granelli di sabbia, edifici che crollano.
Come raccontare la propria infanzia? Forse meglio nello spazio incompiuto del frammento, di quelle poche scene che sopravvivono di un tempo del prima. Difficile farlo in una narrazione classica, dove a una pagina segue un’altra, ad un anno segue quello successivo. Difficile farlo quando si pretende di raccontare invece di mostrare. In questa narrazione l’adulto Ragagnin è sempre presente anche troppo, accompagna sempre per mano quel bambino ne completa il gesto, lo interpreta, lo racconta con parole troppo adulte. Eppure, nonostante il narratore si intrometta continuamente, provi a rientrare negli spazi vuoti, quel bambino impacciato, che pende dalle labbra degli adulti sta lì, eccolo. E quanto più l’io narrante non si ridimensiona, non si rimpicciolisce, dà libero corso alle sue fantasie gotiche e non, tanto meglio vedo quel bambino protetto ma sempre vigile, che ha paura di dormire, paura di mangiare, paura che accada qualcosa alla madre mentre dorme. Il bambino che guarda gli enormi vagoni merce dal terrazzo della nonna.
Il bambino intermittente è un bambino che avanza e si ferma, si accende e si spegne. Ma è anche quel bambino che ritorna continuamente e involontariamente nell’adulto, nella scrittura. Evoca le “intermittenze del cuore” di Proust. La memoria involontaria che sola può farci sperimentare il vero dolore, e restituirci la persona che si ricorda assieme a un sé più vero e autentico. Un sentimento intermittente è incompleto, anacronistico, non freudiano. Una rivelazione in cui si inciampa senza volere.
All’intermittenza del cuore si addice forse uno stile frammentario (Roland Barthes nel Journal de deuil, e in La chambre claire), invece qui il ricordo è sostenuto da una narrazione fitta, lunga, più o meno cronologica, stilisticamente agli antipodi di qualsiasi frammentarietà. Eppure a ben guardare la scrittura non è un ponte che conduce dal passato al presente. Ragagnin si muove piuttosto nell’indeterminatezza, una specie di confusione che forse è il suo modo di sopravvivere. Così la scrittura confonde e trasforma un imbarcadero nel punto romantico in cui Berg immagina che i suoi genitori si siano scambiati quella lontana promessa, nel punto dannato in cui si ritrova con un gruppo di musicisti, l’infelicità dei bicchieri vuoti sul tavolo, dei travestimenti ben stirati, delle parole acide, fino a dissolversi in un luogo di occasioni mancate avvolte in una nebbia che morde le parole.
Nella nebbia dove la realtà compare a blocchi intermittenti, nonostante tutte le parole e tutti gli appigli, il ricordo è ancora più rotto di un frammento, più frammentario di una scaglia, è un punto statico, desolatamente irraggiungibile, amplificato all’infinito. Sul quel punto Ragagnin-Berg si ferma e cerca di imbalsamarlo, “non dimentico più nulla”, applica gli unguenti, l’impronta morbida del silenzio delle nonne “su tutti quei bambini che sono stato” e sull’unico bambino che è stato, sulle sue paure e solitudini che sono forse il biglietto da visita più vero.
Dopo “Dio se la caverà” dallo scrittore bergamasco arriva il sorprendente “L’uomo che rovinava i sabati” Romanzo picaresco che richiama la commedia all’italiana, “suona” come una sarabanda, fa ridere e anche riflettere
L’andatura narrativa è picaresca, in diversi luoghi richiama la commedia all’italiana, e si potrebbe anche scomodare il romanzo di formazione, o meglio il viaggio iniziatico, quello che osa spingersi oltre gli angusti limiti della coscienza ordinaria. Il termine esatto è sarabanda, forse. D’altronde, in chiave musicale la sarabanda per eccellenza è la “Follia Spagnola”, consiglio la versione di Corelli per un assaggio. Di sicuro il romanzo di Alan Poloni, “L’uomo che rovinava i sabati”, edito da Miraggi a fine 2020 – seconda prova dello scrittore bergamasco dopo “Dio se la caverà” (Neo 2014) – ha pochi paragoni con le opere che van per la maggiore: e questo sia detto a merito, s’intende.
Questo romanzo non ha genere, semmai crea un genere nel segno dell’invenzione continua, divertita e divertente. Per restare in ambito musicale, è una sorta di Arte della Fuga, e magari anche un Enigma, come quelli che Bach si divertiva a far risolvere a Federico II di Prussia. Altri tempi, altri sovrani.
Tre amici
Tutto nasce da tre amici scombinati, che fanno fatica a “starci dentro”, come ama dire Poloni: un poeta, Jack Ebasta, in perenne bilico e conflitto sia con gli affetti primari, sia con il sistema editoriale; un cantautore tombeur de femmes, Malcolm Chiarugi, che campa installando cessi chimici; un liutaio che realizza chitarre per intenditori, Palmiro detto Palma, che però fatica a separarsene, ovvero non le vende al primo che passa, ci mancherebbe anche quella. E poi c’è il contesto, la fantomatica Val Crodino, nicchia antropologica che ospita una popolazione sopra – meglio: sotto – le righe, gente dall’animus anarcoide che non ha certo di mira il posto fisso e men che meno il consumo, refrattaria com’è ai centri commerciali, che qui non hanno il permesso di soggiorno; gente che si contenta di poco o nulla, eccezion fatta per certi funghi psicotropi, opportunamente ripassati in pentothal dal druido di turno. Date un occhio alla copertina del libro: il serpente tenta Adamo ed Eva avvinto a un Amanita Muscaria, qui albero del Bene e del Male, proprio come accade in un affresco medievale.
Messa a fuoco
A onor del vero, andrebbe anche aggiunto un quarto personaggio, che magari passa via minore, ma che minore non è affatto per la messa a fuoco della trama: trattasi di Cecchini, figlio del farmacista, ovviamente ipocondriaco, una sorta di Roi Ipnol, di sacerdote del monte Tavor. A me il libro si è acceso proprio all’arrivo del Cecchini, per la precisione a pagina 136. Prima i tre stiracchiano le loro vite in assenza di direzione certa, o perlomeno retta. I sodali hanno una vocazione, eccome, ma la medesima marciava sul posto, ingavinati com’erano nelle rispettive ossessioni: Palma a elaborare il lutto della separazione dalla Rossana e a cacciare dal negozio clienti indegni delle sue creature; Chiarugi a impiantare bagni chimici e a tener testa al suo parco donne, che a quanto pare proprio cessi non sono; Jack che resiste alle gioie della serenità familiare e in cambio di due palanche declama in pubblico poesie con «fredda cantilena da monatto incallito» (21).
Bene: entra in scena il Cecchini e gli altri tre trovano la via, guarda caso uniti e solidali. Siccome il Palma insegue un misterioso antropologo disperso tra i monti – vuole a tutti i costi provare una sua teoria sull’ostinata stanzialità dei Camuni, antichi abitatori della Valle –, gli altri due lo accompagnano nel fantastico viaggio finale; nel mentre, in quattro e quattr’otto Malcolm sforna un album con una canzone dedicata a ciascuna delle donne del suo harem, invitando l’intero parco al concerto di lancio, per vedere da vicino l’effetto che fa; Jack verrà richiamato in servizio permanente effettivo dagli affetti familiari e dal sistema editoriale, cercando di mantenersi passabilmente impuro e folle.
Sorriso benevolo
Alan Poloni si mette in traccia dei suoi personaggi, li pedina, a volte li affianca facendosi il quarto di tre, certo li scruta col sorriso benevolo del genitore che sorvola sui difetti, ci regala l’utopia delle intenzioni, arreda con cura questo suo ripostulato altrove. Esibisce uno stile libero, crepitante come il fuoco quando prende bene, felice per inventiva e dismisura. Si ride di gusto, preparatevi, ci sono giri di frasi da sbellicarsi, e la commedia si fa largo con felice grazia e levità. Come avete capito, i temi del libro sono parecchi. Uno, l’amicizia virile, che prova a dare un senso al mondo a partire da quelle primitive vocazioni che non devi mai scordare per strada, o peggio tradire. Due, il romanzo è fitto di rimandi musicali, il sapore è pop e soprattutto rock, mondo che mi sfugge abbastanza, per cui mi astengo. Certo l’intera narrazione è musicale in senso stretto, cioè fatta di intro, sviluppo del tema, ritornello polifonico, ripresa finale, chiusa a sorpresa, con una ritmica solida a scandire il tempo. Terzo, per me delizioso, l’infinito gioco di rimandi e citazioni letterarie, altrettanti segreti omaggi ad autori che Poloni evidentemente predilige.
Però, ecco, a ben vedere, al centro di tutta la narrazione, e dunque delle intenzioni dell’autore, sta la preoccupazione per la sorte della poesia, che poi sarebbe la vocazione allo stato puro, o bellezza che dir si voglia: questo è il cuore segreto dell’orologio, la forza propulsiva generata dalla coppia conica persuasione/retorica.
Chiariamo il concetto: Poloni non sta dicendo che la bellezza salverà il mondo, che è roba da involucro dei cioccolatini; no, dice che tocca al mondo, cioè a ciascuno di noi, salvare la bellezza, cosa possibile solo se si lascia campo alla poesia. Il che non significa solamente alla parola, che della poesia è la versione sciamanica per eccellenza, ma anche alla misura di un gesto, all’ascolto dell’altro, all’etica del prendersi cura, all’inevitabile ossessione dell’artigiano, alla felice mania dell’artista. In questa chiave, allora, si può sorridere sull’ossimoro “grosso editore” laddove si parla di poesia(97), piuttosto che meditare sul fatto che in Val Crodino non ci sono «automobili di cilindrata superiore ai milletré (in un’enclave dove poetesse come Mariangela Gualtieri e Livia Candiani venivano invitate quasi ogni anno dalla Mary, “Quattroruote” coi suoi interessantissimi test prestazionali vendeva un paio di copie a far bello)» (132); ci si commuove al ricordo di Pierluigi Cappello (221), o riflettere sul fatto che a Jack per stare meglio basta «girare per la cucina in mise anni cinquanta, sentirsi sandropenna, lui e la sua cheta follia…» (87); infine, e per certi versi soprattutto, si conviene sulla lucida analisi riservata al sistema editoriale: «Il poeta, come il romanziere, fa di tutto per creare il personaggio, per fare in modo che l’extra-libro traini il libro…» (257).
Il circuito letterario premia gli autori permeabili alle logiche della rete, i personaggi televisivi, il chiacchiericcio dei media, l’intrattenimento fine a se stesso, l’Assunzione del nulla. A richiamare il titolo, questo sabato del villaggio globale si merita un calcio nel didietro, che Poloni assesta con felice vigore. A simmetrica chiusa, la poesia s’incarna nella Roxanne dei Police citata in esergo: la giovane prostituta può scegliere di non vendere il proprio corpo perché ha finalmente incontrato qualcuno che la ama davvero.
Edoardo giovane rampollo di famiglia borghese con villa sulla collina “bene” torinese, vive in una bolla nella quale ha tutto ciò che vuole, ma definisce le sue giornate “fotocopie”.
Giornate sempre uguali: studio, amici alcool, droghe e donne per il suo puro piacere sessuale, tutte definite “Disturbia” con qualche aggettivo che le differenzia, ma tutte con la stessa caratteristica: la magrezza eccessiva. Le usa a suo piacimento e poi devono sparire dalla sua vista quanto prima possibile. Con gli amici fa scorribande nei locali dove c’è musica e si “tirano neri” fino all’alba. Una famiglia in cui il padre fedifrago è sempre più fuori casa, lavora molto, il loro rapporto è nullo e la madre ricompensa con ritocchi di botulino e vita solitaria.
Finiti i bei tempi di quando era piccolo e andavano in vacanza dai nonni, non c’è rimedio il tempo non torna. Viola sua compagna fin dall’asilo è la donna del suo cuore, ma lei ha molto da fare, tanti progetti di studio e ad un certo punto pure un fidanzato. Non è un ragazzo tranquillo, sì bello e brillante, ma non sereno, ne prende sempre più consapevolezza e comincia la sua transizione scaricando, una sera, la sua rabbia contro il padre, dicendogli tutto quello che covava dentro e soprattutto a difesa della madre.
Uno tsunami arriva improvvisamente nella sua vita, quando va in Inghilterra dopo la laurea per un corso di studi, dalla zia Ginevra, sorella molto più giovane del padre e da lui detestata.
Il percorso per la presa di coscienza di quello che è Edo realmente e di quello che vuole essere, non è privo di ostacoli, ma scoprire nodi familiari sconosciuti ,riprendere a fare musica, apprezzare la solitudine e affrontare tante strane concomitanze impensabili, sono la condizione che potrebbero permettergli di ritrovarsi e finalmente scegliere quello che ritiene il meglio per lui.
Libro piacevole che si legge tutto d’un fiato, che affronta tematiche all’ordine del giorno, ma non semplici , una vetrina su una realtà giovanile complessa, scritto con linguaggio scorrevole.
Torino, si sa, è una città di libri e di librerie. E anche di scrittori, locali e adottati, capaci di raccontare luoghi e figure tipicamente cittadine. Sullo sfondo, troneggiano (sempre e per sempre) due inarrivabili giganti come Fruttero & Lucentini, con il loro sguardo sapiente su tic e cliché sabaudi. Era dai tempi dei primi romanzi di Enrico Remmert e di Giuseppe Culicchia che non si leggevano pagine così specificamente dedicate a una gioventù borghese e peculiarmente torinese come quelle de L’EDOnista, scritto a quattro mani da Francesca Algeleri del Corriere della Sera e Alessandra Contin, pubblicato da Miraggi. Edo, il protagonista, è il giovane rampollo di una famiglia agiata (molto), con villa in collina (di rigore) e un’ossessione: il sesso con le ragazze magre. Pare aver avuto tutto dalla vita, e certo non si fa mancare nulla. È bello e intelligente, lo descrivono le autrici, e ha una vita apparentemente perfetta, che però perfetta non è. Tra sogni e ambizioni messe da parte, droghe e locali esclusivi, Edo e i suoi amici vivono tutti i possibili scarti tra convenzioni sociali e pulsioni estreme. Ma anche molto casalinghe, come suggerisce l’incipit del romanzo: «Sono qui, in mutande, seduto sulla mia poltrona Frau con il telecomando che punta al sessanta pollici, dove mi imbatto in una replica urlata di Uomini e donne». Fin dalle prime pagine, ambienti tratteggiati con arguzia («A casa mia si fa colazione, rito che sopravvive solo da noi e nelle pubblicità del Mulino Bianco. Ma casa mia è il Mulino Bianco, infatti mia mamma ha assunto un giardiniere peruviano che assomiglia a Banderas») si alternano ad analisi disinvoltamente autoriferite: «Chi ti ha detto che potevi farcela, ti ha ingannato, perché nella vita contano i soldi e quelli fatti in una sola generazione non sono sufficienti». E ancora: «Bellezza, ricchezza e potere sono gli unici ingredienti per un successo duraturo e questi elementi non sono dovuti a capacità individuali, sono un diritto di nascita e non importa quanto ti prodighi a essere un degenerato». Secondo il modello del romanzo di formazione e «educazione sentimentale», L’EDOnista racconta, con il protagonista come io narrante, un percorso di perdita di sé e (forse) di redenzione. Con alcuni riferimenti letterari assai ambiziosi: a che cosa mirare, con un protagonista bello, ricco e dannato, se non a un capolavoro del minimalismo americano come Meno di zero, il primo, impareggiabile e indimenticato romanzo di Bret Easton Ellis? Da leggeremo la musica dei Radiohead e dei Clash nelle orecchie: Should I stay or Should I go?
La sua intenzione non è quella di stabilirsi, di “installarsi” a casa del padre; sta solamente passando per quelle zone -per impegni di lavoro, naturalmente- e sarebbe poco cortese non andare a trovarlo; giusto una visita di cortesia, per educazione. Al massimo potrebbe fermarsi per una notte, certo non di più. Alla fine, si tratta sempre di suo padre. Chissà che faccia farà, pensa Pellicani figlio, dopo vent’anni di assenza. Sarà stupito, sorpreso di vederlo in quel suo completo grigio con la valigetta ben salda in mano. “Affari, un’impresa import-export” gli spiegherà, ponendo ben in mostra la valigetta, mentre il padre si adopererà per mettere a suo agio il figlio, rispettabile uomo in carriera. Certo, il vestito non è perfettamente stirato, appena un po’ sgualcito -ma sono gli effetti dei continui viaggi di lavoro, le trasferte, i voli. Ed è vero, la valigetta contiene solo qualche oggetto di cancelleria di cui Pellicani figlio si è appropriato prima di andarsene dalla sua occupazione precedente e, che altro? Ah sì, una mutanda pulita come ricambio, che non si sa mai. Il palazzo non è, però, come se lo ricordava. Tutta la via, in realtà, si mostra come un cumulo di macerie e pilastri e tubi ed il caseggiato nel quale viveva Pellicani da giovane si staglia come unico edificio sopravvissuto, quasi vergognosamente, tra i resti di altre costruzioni. Pellicani figlio entra nel caseggiato attraverso il portone d’entrata tenuto aperto da un mattone e imbocca le scale…
Partiamo dai fatti: il romanzo in questione è stato finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino e in questa occasione ha avuto la Menzione Speciale Treccani: in effetti, l’elemento che forse maggiormente caratterizza e conquista di questo romanzo è l’utilizzo della lingua, puntuale e affascinante. La scrittura è davvero equilibrata, sapiente e il lettore si sente rassicurato, guidato dall’autore cui si affida pienamente: tale precisione e armonia cozzano irrimediabilmente con la storia raccontata, che narra di decadenza sociale, personale, fisica. Il tema centrale è il rapporto fra padre e figlio (o, per la precisione, fra Pellicani figlio e quello che si presume essere suo padre) che implica il conoscersi e il riconoscersi, comprende la necessità di fare i conti con il ciclo della vita, la necessità di dialogo e l’incomunicabilità fra diverse generazioni o ruoli sociali. Mentre i personaggi – limitati, essenziali – sembrano non riuscire a instaurare una comunicazione alla pari, gli oggetti attorno a loro hanno una potenza espressiva e iconica sorprendente (la valigetta, la carne Simmenthal, i fumetti e i giocattoli). Pur svolgendosi effettivamente e quasi completamente entro quattro pareti, il romanzo parla di una realtà (e follia) attualissima e universale, incrociando sensi di colpa e voglia di riscatto, malattia fisica e squilibrio mentale, disagio sociale subito e incapacità di adattarsi alle norme imposte. Un romanzo consigliatissimo.
Padri tormentati dai figli, tra immaginazione e realtà
La scrittura è fitta. Trascina il lettore in una spirale ossessiva, a tratti claustrofobica. «I Pellicani, cronaca di un’emancipazione» di Sergio La Chiusa si consuma all’interno di un edificio decadente e disabitato. O meglio, un residente c’è: Pellicani padre, anche se l’io narrante del figlio, in visita dopo vent’anni d’assenza, ha qualche dubbio sulla reale paternità. Unica somiglianza? Un naso ingombrante. In un continuo rimando tra realtà, finzione, aspettative, vecchiaia e giovinezza, si assiste all’immobilismo di un giovane uomo alle prese con temi sociali ed esistenziali. Lo scrittore, tra i finalisti del Premio Bergamo, ne parlerà oggi alle 17 sui canali social della manifestazione, intervistato da Maria Tosca Finazzi.
Come nasce il titolo?
«Pellicani è il cognome dei protagonisti, richiama il loro naso ingombrante e ironicamente anche la simbologia cristiana del pellicano: il padre che si sacrifica per i figli, mentre nel romanzo un ipotetico padre è tormentato da un ipotetico figlio».
Il sottotitolo «cronaca di un’emancipazione» è più ironico che reale.
«Sì, gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Non si tratta di una cronaca, ma di una continua interpretazione tendenziosa e contraddittoria. Poi le emancipazioni sono parodie di un’emancipazione: il giovane vive confinato nella trappola della propria mente, il vecchio nella trappola del proprio corpo, entrambi nella trappola dell’immobile».
Nel testo si relaziona molto con gli oggetti, valigetta, pantofole, peluche, Pinocchio, mollette… Perché?
«Gli oggetti affollano il romanzo supplendo alla povertà di personaggi. Sono usati come protesi del corpo, simboli, sintomi, indizi e agenti provocatori. Formano una specie d’inconscio fisico e si presentano allo sguardo paranoico di Pellicani come maschere dietro le quali si nasconde qualcosa di minaccioso, enigmatico, ostile. Anche se il rapporto che egli v’instaura ha spesso esiti comici, risultano perturbanti e possono essere visti come fili di un’immensa ragnatela tesa intorno alle nostre esistenze dalla società dei consumi».
L’io narrante afferma che «l’ozio è la forma assoluta della ribellione», «il nullafacente il vero sovversivo dei tempi moderni». Lo crede anche lei?
«No. L’io narrante è un portatore di conflitti, contraddizioni, ambiguità. Non il portavoce dell’autore. In taluni casi però la diserzione, non l’ozio, è la sola forma possibile di ribellione».
Nel romanzo il protagonista afferma che l’inclinazione a scomparire è una prerogativa degli asociali. Lei è sociale o asociale con la tendenza a scomparire nei suoi libri?
«Mi ritengo un essere sociale. Scrivere però è intimamente contraddittorio: un lavoro di solitudine e tuttavia rivolto idealmente a una folla ignota d’individui, sconosciuti gli uni agli altri, distanti nello spazio e nel tempo».
Si ritrova una continua relazione tra realtà e finzione.
«Uno dei temi del libro è il rapporto tra immaginazione e realtà, tra la fabbricazione di un mondo fittizio e la miseria del reale e della nuda vita, con i suoi limiti biologici, e il vecchio, con le sue esigenze di semplice sopravvivenza, rappresenta per il giovane uno specchio deformante che produce ossessioni».
La storia è ambientata in un caseggiato disabitato e decadente. È reale o il labirinto della mente?
«È un caseggiato reale, ma anche metafora d’una società in rovina e soprattutto labirinto mentale, intrico di stanze, scale e corridoi immateriali nel quale si consuma il confronto tra vecchiaia e giovinezza».
Pellicani figlio si presenta dopo 20 anni alla porta del padre. Non si vedono da quel giorno in cui lui se n’è andato sottraendo al genitore i risparmi che erano in casa.Pellicani arriva e trova un caseggiato disabitato e in rovina, l’unico appartamento ancora abitato sembra essere proprio quello di suo padre, ma al suo interno non trova il genitore, ma un vecchio paralitico, immobilizzato a letto e assistito quotidianamente da una donna, che ogni mattina lo nutre, si occupa della sua igiene e del lavaggio della biancheria.Fin qui tutto normale, tutto plausibile, tutto verosimile, vero?E invece no, non è così. Pellicani figlio racconta in prima persona ogni suo movimento e ogni suo pensiero, ed è così che ci accorgiamo che siamo all’interno di una mente allucinata, che siamo nella mente di un Don Chisciotte al contrario.Un eroico renitente, che con fierezza critica e si sottrae alla società, che non riconosce il padre in quel vecchio paralitico, che vede in ogni gesto umano, in ogni oggetto inanimato intorno a lui, un qualche messaggio diretto a lui, un giudizio, un rimprovero, che lui, da renitente, rifiuta.L’allucinazione è la realtà in cui Pellicani si muove, portando i suoi gesti al grottesco e crudele, verso se stesso e verso il padre, in nome di quel rifiuto della società che lo anima.È un romanzo esilerante, eppure scioccante e doloroso. Sergio La Chiusa è geniale e senza remore varca i limiti del verosimile e del moralmente accettabile, con una capacità narrativa e di pensiero che generano nel lettore un’empatia disturbante.
Stando agli ultimi dati dell’AIE (associazione Italiana Editori), i libri pubblicati nel 2019 sono stati più di 78mila. Una giungla di carta all’interno della quale ci si orienta a fatica. Anche perché i colossi dell’editoria (e non solo) strizzano sempre meno l’occhio alla letteratura e preferiscono affidarsi ai prodotti editoriali, possibilmente partoriti dal personaggio di turno, la cui durata nel tempo, a dispetto del clamore socialmediatico che sono soliti suscitare, è paragonabile a un battito di ciglia.
Insomma, non è facile scovare qualcosa di interessante. Ecco perché vale la pena parlare de I Pellicani – Cronaca di un’emancipazione di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi (186 pag., 17 euro). Un romanzo sorprendente e gustosissimo, che prevede molteplici livelli di lettura ed è intriso di quello spessore letterario che è lecito attendersi da uno scrittore. E La Chiusa lo è, non c’è dubbio: la sua parola è levigata e venata di elegante umorismo. Elementi peraltro propizi al suggestivo teatro dei paradossi da lui allestito, che rifugge da qualsiasi pretesa di linearità. A cominciare dai Pellicani, che non hanno niente a che vedere con i volatili che tutti conosciamo. Qui abbiamo invece a che fare con due uomini misteriosi (padre e figlio? forse sì, forse no, ma poco importa), che, dopo vent’anni e vecchie ruggini, si ritrovano quasi magicamente in un tempo e in un luogo indefiniti. Uno, il Pellicani-giovane, ha le fattezze di un bizzarro figuro lontano parente dei dannati di Dostoevskij; l’altro, il Pellicani-anziano, è un ottantenne paralitico bisognoso di cure che si trascina stancamente al pari del vecchio stabile in cui abita e che lo ha incatenato a una triste solitudine.
L’incontro tra i due è il detonatore di una commedia dell’assurdo sapientemente congegnata dai pensieri ad alta voce del Pellicani-giovane, che si diverte con la realtà come Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello fa con il suo io: scompone, ricompone, trasfigura ciò che vede, quasi travolge il lettore con il suo torrenziale flusso di coscienza. E noi non possiamo far altro che star dietro ai suoi soliloqui tragicomici, ma senza illuderci di trovare le giuste corrispondenze tra ciò che è e ciò che appare. Perfino l’evidente asimmetria tra i due personaggi (l’invadenza del Pellicani-giovane fa da contraltare alla remissività del Pellicani-vecchio) si risolve lentamente in un enigmatico gioco di specchi, che si nutre di visioni degne di Sorrentino e lascia intravedere una bizzarra crociata in nome dell’emancipazione di entrambi.
Eppure, mentre ondeggiamo tra sogno e realtà, ci risulta difficile prendere le parti dell’uno o dell’altro. Forse perché i Pellicani sono solo due simpatici inetti a vivere che non si vergognano della loro condizione. O forse perché la stanza in cui si consuma tutta la storia è il palcoscenico con cui, volenti o nolenti, tutti noi dovremo prima o poi fare i conti per sbarazzarci delle nostre paure più profonde.
Il romanzo, finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, è un bijou anche dal punto di vista tecnico, tanto da meritare la “Menzione Speciale Treccani 2019” per l’originalità linguistica e la creatività espressiva. Quello di La Chiusa, infatti, è un esempio ben riuscito di prosa poetica, che mette in vetrina un linguaggio curato nei minimi dettagli e assai distante dalle banalizzazioni con cui vengono imbanditi certi best sellers. Un piccolo poema sul senso della vita capace di trasformare l’apparente fuga dal mondo delle sue creature in un coraggioso atto di ribellione pirandelliana nei confronti della società e delle sue forme statiche.
Ma il lunghissimo monologo del giovane Pellicani, interrotto da scenografici squarci onirici e oscure presenze quasi kafkiane, è anche la cronaca di una convivenza mancata che prova disperatamente a ritrovarsi, anche se nel farlo è essa stessa una nuova impostura. Dieci e lode all’autore. Raramente infatti, per utilizzare le parole di Giulio Mozzi, “la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé”. Senza contare che qui, come del resto lo stesso critico suggerisce, c’è anche altro. Molto altro.
Sergio La Chiusa presenta il suo libro «I Pellicani» nella cinquina dei finalisti al Premio Bergamo «I protagonisti, incapaci di emanciparsi, si dibattono in una realtà spettrale, inafferrabile, inattendibile»
I disegni appesi alle pareti «rivelavano una precoce ansia di emancipazione. Bambini volanti, sollevati per aria da grappoli di palloncini colorati, ridevano entusiasti, come solleticati dalla mancanza di gravità, ma invece di prendere il largo e rimpicciolirsi nelle vaste lontananze del cielo, restavano a mezz’aria, tenuti saldamente per una caviglia da certi signori assennati, nerovestiti, regolarmente incravattati e radicati al suolo con smisurate scarpe aziendali».
Penultimo a presentare il suo libro, nella cinquina dei finalisti della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, giovedì 27 maggio, alle ore 17, in streaming sui canali social dell’Associazione, Sergio La Chiusa, con «I Pellicani» (Miraggi, euro 17). Centottantasei pagine di monologo interiore del personaggio che dice Io, forse figlio di un forse padre in una forse ex casa sua.
Dopo vent’anni, e l’indebito prelievo dei suoi risparmi dal comodino, Io, o Pellicani junior, torna a casa del padre: unico, vecchio caseggiato superstite in un paesaggio da Waste Land, mucchi di macerie, detriti e piloni incompiuti, residui del vento della modernità che ha spazzato (quasi) tutto, con la sua «smania di rinnovamento».
Ma, nel letto, trova un vecchio paralitico che è/non è suo padre, glielo ricorda ma, insieme, non può essere lui.
Una straordinaria prova di fantasia-immaginazione, una torrentizia ambiguazione del senso di realtà, identità, e relativi rapporti fondativi.
Un «parolare» inesausto che assume in sé il crollo delle certezze, per cui l’«erlebte rede», il discorso vissuto, si materia soltanto di ipotesi e contro-ipotesi.
Come si può spiegare il sottotitolo, «Cronaca di un’emancipazione»? Quella che il protagonista sembra perseguire sin dai disegni infantili, vuole rivendicare ossessivamente, quasi «ritmicamente»…?
«Cronaca di un’emancipazione un sottotitolo ironico, che gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Innanzitutto perché non si tratta di una cronaca, cioè di un resoconto impersonale di avvenimenti, ma di una continua interpretazione, peraltro tendenziosa e contraddittoria. Poi perché le emancipazioni alle quali si allude sono delle parodie di emancipazione: il giovane Pellicani vive infatti confinato nella trappola della propria mente paranoica, il vecchio nella trappola del proprio corpo paralizzato, ed entrambi nella trappola dell’immobile fatiscente, una specie di corpo sociale in rovina. L’emancipazione che il protagonista tenta di perseguire è inoltre una reazione alla società della prestazione nella quale viviamo, e quella che tenta d’imporre al vecchio l’esito paradossale della sua personale incapacità di emanciparsi».
Il fatto che il padre forse non sia padre, il figlio forse non figlio, la camera dei giochi forse di qualcun altro, un’iperbole del discorso sull’incertezza identitaria, l’incertezza sulla sostanza reale dei rapporti, anche i più importanti, sull’incertezza, persino, della cosiddetta «realtà»?
«Sì, la realtà nel romanzo risulta incerta, inafferrabile. In parte perché è filtrata dalla parola inattendibile e dallo sguardo allucinato del protagonista, cui la realtà visibile appare come il travestimento di una seconda realtà, enigmatica e minacciosa, e tutte le cose gli si presentano dietro un velo d’impostura, epifenomeni di un più vasto e impenetrabile complotto ordito ai suoi danni. In parte perché la realtà non solo è trasformata dagli occhi di chi guarda, ma ha anche una sua intima natura spettrale. Basta voltarsi indietro: cosa rimane della realtà del nostro passato? Le esperienze più importanti e i rapporti più solidi non risultano a un certo punto come svaporati, illusori, equivoci abbracci di spettri?».
Come nel Pirandello di «Uno, nessuno e centomila», il discorso sulla dissoluzione del senso «solido», granitico, univoco dell’identità, si concentra sul naso (è il naso di mio padre? Di un Pellicani?). Ha elevato a potenza un tema del girgentino?
«La radicalizzazione di un tema pirandelliano che però s’intreccia con molti altri temi: per esempio, per citarne uno particolarmente rilevante, il rapporto tra immaginazione e realtà, che è il tema della letteratura stessa, che viene dal Don Chisciotte e sta alle origini del romanzo moderno. Il protagonista, infatti, perennemente intento a fabbricarsi una sua realtà immaginaria, alternativa, abitabile, la realtà verbale del romanzo appunto, e in ciò è uno dei molti discendenti del cavaliere errante e dei personaggi creati da quegli autori che hanno saputo trasportare lo spirito di Cervantes nel Novecento; e quindi più ancora che di Moscarda, Pellicani mi pare un parente “povero” dei personagginarratori di Gombrowicz, e di Kien, il protagonista di “Auto da fé”, l’uomo dei libri uscito dall’intelligenza di Canetti».
Il naso è un po’ anche il becco del pellicano in copertina…
«Sì, il becco del teschio di pellicano in copertina richiama il naso particolarmente pronunciato dei due Pellicani e, anche, il Pinocchio di legno che compare allusivo in più parti del romanzo».
Se la «Cognizione del dolore» di Gadda è una lunghissima (auto-) analisi, incentrata sul tema del rapporto con la madre, qui sembra valere qualcosa di simile per il rapporto con il padre…
«La figura del padre rappresenta per il figlio una specie di specchio deformante, e infatti nel vecchio padre paralizzato, il figlio rivede sé stesso proiettato nell’avvenire: è insomma la personificazione della malattia e dell’incombenza della morte. Inoltre, il padre rappresenta anche l’autorità su cui riversare il proprio risentimento di persona incompleta, inadeguata, impotente: una specie di parodico simulacro della società che regola, pretende, giudica».
Entrambi i «protagonisti» sono due «renitenti-resistenti», alle lusinghe e seduzioni del mercato, agli stili di vita dettati dal mainstream, all’essere solo «consumatori», ecc.: come si intreccia questo tema sociale con quello dell’identità e del senso di irrealtà che sembra promanare dal rapporto fra ospite e ospitato: lontani, incomunicanti, eppure simili in questa loro resistenza/renitenza…?
«Il mercato contamina i rapporti interpersonali e condiziona le nostre identità suggerendoci insistentemente come comportarci, come vestirci, cosa comprare, quali applicazioni scaricare per stare al passo con i tempi, svalutando così le nostre esperienze, facendoci sentire sempre in ritardo, in difetto, insinuandoci un sottile, persecutorio senso di colpa. Le due dimensioni, quella sociale e quella esistenziale, procedono naturalmente insieme, nel romanzo come nella vita reale, perché una condiziona l’altra, e il senso d’irrealtà che sembra promanare dai rapporti tra ospite e ospitato proviene, in parte, dall’esterno. I protagonisti inoltre non sono dei veri “resistenti”, ma delle scorie prodotte dalla società dei consumi, e proprio per questa loro comune natura di scarto sociale si ritrovano, e anche il risentimento del figlio che si trasforma in sadismo nei confronti del padre è in certa misura un prodotto della società».
A proposito: la «modernità» ha distrutto tutto quanto era attorno al condominio dove vivevano i Pellicani. Cittadella superstite perché soprattutto reperto memoriale, sopravvivenza di un passato?
«Un reperto spettrale, sì. Il vecchio Pellicani è il passato, inservibile, e persino molesto, che s’attarda tra le macerie e, maceria anch’egli, intralcia con la sua timida ma cocciuta presenza i piani speculativi della modernità».
Quando la potenza della scrittura e la fantasia si coniugano nascono questi gioielli. Il libro inizia con una sorta di vademecum che è preambolo ai capitoli e un elenco di nomi -Cerca di ricordarti.
Conosciamo Berg che è un bambino che va alla scuola materna, non va affatto volentieri. Lui non è un bambino e basta è: goffo, distratto, impreciso, stupido, bambino parentesi, maldestro incompreso, intermittente e ha tanti nomi tutti inventati così come inventata è la sorella con la quale discute come fosse sempre con lui, assumendo le forme di oggetti vari a lui preziosi, ed ha le sue “copertine “ come Linus ma non sono copertine.
“Ho tre anni e la vita sta diventando difficile……”
E a tre anni trova la radio noiosa e comincia il suo ritornello “ mamma, comprami GIRADICCHI! Io DICCHI…..” Comincia da piccolo ad amare la musica che insieme alla fantasia e ai tratti della sua personalità non l’abbandoneranno mai.
E con questo bagaglio già così pieno fin da piccolo affronterà la vita, con delle difficoltà ogni volta diverse e uguali con cui fare i conti. La madre insegnante, il padre con un maggiolino giallo a pois rosa. I nonni di mare e quelli di città. Con ognuno crea un rapporto unico, con qualcuno anche speciale e sarà la nonna di mare quella con la quale vivrà esperienze di complicità e amorevolezza e che lo porterà un giorno anche a crescere più in fretta e a scoprire l’inutilità del dolore.
Lo troviamo tra i ragazzi dell’orario alla scoperta di se e degli altri, a volte impacciato o timido, “la prima ombra di barba … la barba fu un piccolo trama “, a 16 anni Amanda “ era come arrivare impreparati ad una interrogazione”.
Con “ gli amici della panchina “ a parlare della passione comune: LA MUSICA , forse l’amore suo più grande, quello che non è mai svanito. La musica diversa da quella che ascoltavano gli altri “stavo sviluppando una curiosità maniacale e bulimica “. Sopra un treno per andare a pranzo dalla nonna di mare durante il periodo del servizio militare, vicino casa di nonna, che buttava la pasta quando vedeva il treno passare dal balcone.
E in crescendo a fare per un periodo il commesso in un negozio di dischi e poi in un’altra città e un’altro amore e… Con salti temporali tra un capitolo e l’altro e tanti rimandi in cui la vita del bambino, ragazzo, adulto è un vortice che assorbe tra fantasia e realtà e tanta tanta umanità.
È un racconto ironico, pieno di tenerezza di malinconia di una vita unica e speciale che appassiona dalla prima pagina.
E non finisce con l’ultima pagina del libro ( pag 665), perché c’è una playlist di tre pagine da sentire
“ per chi ha paura della fine, del silenzio, ovvero l’inutilità del dolore ……………..Se vuoi farne parte ti serve un suono “.
Non è facile recensire questo libro perché c’è tanto da dire, può essere solo letto. E merita di essere letto, si cresce insieme al bambino intermittente e a volte ci si scopre intermittenti , quasi come lui.
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