Con I vigliacchi, edito in Italia da Miraggi Edizioni, Josef Škvorecký ci regala un romanzo di formazione anomalo, che si muove tra il ritratto generazionale e la critica sociale, senza mai cedere alla retorica eroica. Pubblicato per la prima volta nel 1958 in Cecoslovacchia, il libro è ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale e segue un gruppo di giovani della provincia ceca, appassionati di jazz e poco inclini ai grandi gesti patriottici.
Lontano dalle narrazioni classiche di resistenza e coraggio, Škvorecký tratteggia un’umanità sospesa tra il desiderio di libertà e la paura di esporsi. La sua scrittura, ironica e vivace, racconta le contraddizioni di una gioventù che sogna l’America ma vive sotto l’ombra della guerra, facendo del jazz non solo una passione musicale, ma un simbolo di ribellione e di un altrove sognato ma irraggiungibile.
Trama: un attimo prima della libertà
Il romanzo si svolge in una piccola città ceca nel maggio del 1945, proprio mentre le truppe naziste si stanno ritirando e l’arrivo delle forze sovietiche sembra imminente. Il protagonista, Danny Smiřický, è un giovane sassofonista che trascorre le giornate tra la musica, le fantasie amorose e le discussioni con i suoi amici, senza un vero impegno politico o militare.
Danny e il suo gruppo non sono eroi né resistenti, ma nemmeno collaborazionisti: sono semplicemente ragazzi che cercano di capire da che parte stare, mossi più dalla paura e dall’incertezza che da una reale convinzione ideologica. Il titolo stesso, I vigliacchi, suggerisce l’ambiguità di questi giovani che si trovano a vivere un momento storico cruciale senza avere il coraggio o la voglia di essere protagonisti.
Il romanzo si sviluppa come una serie di episodi che oscillano tra il comico e il tragico, mostrando l’assurdità della guerra e la difficoltà di prendere posizione in un mondo in cui le certezze si sgretolano di fronte agli eventi.
Un protagonista antieroico: Danny Smiřický
Danny è un personaggio che si distacca dai classici eroi della letteratura di guerra. Non ha il coraggio di unirsi alla resistenza, ma nemmeno la spietatezza di chi ha abbracciato il nazismo. È un giovane che vorrebbe solo suonare il jazz e conquistare le ragazze, ma che si trova invischiato in una realtà che non può ignorare.
Attraverso il suo sguardo, Škvorecký mostra l’ipocrisia della società dell’epoca. Mentre alcuni si affrettano a dichiararsi partigiani solo quando la vittoria è ormai certa, altri cercano di ripulire la propria immagine per sopravvivere al nuovo regime che sta arrivando.
La grandezza del romanzo sta proprio in questa assenza di giudizio morale. Škvorecký non condanna Danny e i suoi amici, ma li racconta per quello che sono: giovani confusi, pieni di paure e desideri, costretti a confrontarsi con una storia che non hanno scelto di vivere.
Il jazz come simbolo di libertà e disillusione
Uno degli elementi più affascinanti del romanzo è la centralità del jazz, che non è solo la passione di Danny, ma un vero e proprio simbolo della libertà sognata e mai raggiunta.
In una Cecoslovacchia ancora sotto il giogo nazista e presto destinata a cadere sotto il regime sovietico, il jazz rappresenta un anelito di evasione, un collegamento con l’America e con un mondo che sembra così lontano dalla realtà quotidiana. Tuttavia, proprio come Danny e i suoi amici, anche il jazz resta sospeso tra il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo pienamente.
Škvorecký, che nella vita reale era un grande appassionato di musica, utilizza il jazz come filo conduttore per esprimere la frustrazione di una generazione privata della possibilità di sognare davvero. La musica diventa un linguaggio alternativo alla guerra e alla politica, un rifugio in cui cercare un’identità in un mondo che sembra non offrirne alcuna.
Stile e tono narrativo: ironia e disincanto
Uno degli elementi distintivi de I vigliacchi è il suo stile narrativo. Škvorecký adotta un tono ironico e a tratti dissacrante, che smonta la retorica eroica tipica delle narrazioni di guerra. Il suo sguardo è disincantato, capace di cogliere la comicità involontaria di certe situazioni senza mai perdere di vista il dramma sottostante.
Il linguaggio è scorrevole, colloquiale, quasi cinematografico. I dialoghi sono vivaci e realistici, e i pensieri di Danny, spesso contraddittori e confusi, contribuiscono a rendere il protagonista estremamente umano e credibile.
Nonostante l’ironia, però, il romanzo lascia addosso un senso di inquietudine e di malinconia. Il lettore sa che la storia non darà a Danny e ai suoi amici la possibilità di vivere la vita che desiderano. L’occupazione nazista sta per finire, ma presto arriverà un’altra oppressione, e i sogni di libertà resteranno, ancora una volta, irrealizzati.
Un romanzo scandaloso e attuale
Alla sua pubblicazione, I vigliacchi suscitò enorme scalpore in Cecoslovacchia. La critica ufficiale lo accusò di essere anti-patriottico e offensivo nei confronti della resistenza. In un’epoca in cui si cercava di costruire una memoria collettiva fondata su atti eroici e sacrifici gloriosi, il ritratto di giovani indecisi e spaventati apparve come una provocazione inaccettabile.
Oggi, però, il romanzo si rivela di straordinaria attualità. In un mondo in cui le guerre e le crisi politiche continuano a mettere le persone di fronte a scelte difficili, I vigliacchi ci ricorda che non tutti sono pronti a essere eroi, e che spesso la storia è fatta anche di esitazioni, paure e compromessi.
U classico del disincanto
In conclusione, con I vigliacchi Josef Škvorecký ci consegna un romanzo che sfida le narrazioni eroiche della storia, offrendo un ritratto sinceroe realistico di una gioventù senza certezze. Grazie a uno stile ironico e coinvolgente, e a un protagonista tanto imperfetto quanto umano, il libro si impone come una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere il lato meno celebrato della guerra: quello di chi ha avuto paura, di chi ha esitato, di chi ha cercato di sopravvivere senza diventare un martire.
Una domanda che risuona nella testa dopo la lettura di un romanzo che penetra, come una sonda, lo spazio e il tempo di una famiglia come altre. Ogni cosa ha il suo tempo, di Petra Soukupová.
La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice,Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.
In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.
La prima cosa che salta all’occhio tenendo fra le mani questo libro è il titolo in lingua originaleche emerge da quello in italiano e il nome della traduttrice,Letizia Kostner, in copertina. È un segno di riconoscimento della casa editrice Miraggi in generale e in particolare della collana NováVlna, dedicata alla letteratura ceca.
In quarta di copertina appare un intero brano scritto in entrambe le lingue, riga per riga a ricordarci che l’autore di un libro tradotto non è mai uno solo. Ma forse ogni libro non ha mai solamente un autore.
Difficilmente in famiglia si parla con chiarezza e sincerità. C’è una dinamica di aspettative e di sottintesi che spesso corre più veloce di noi. Ma a volte può capitare di essere ascoltati: “Tutto qui?” (p. 198) esclama Kája sorpreso di non ricevere punizioni dai genitori dopo aver detto loro che non vuole più nuotare. Mettersi nei panni dell’altro è un esercizio poco praticato, è un esercizio difficile. Più leggiamo e più ce ne accorgiamo. Passando da un punto di vista all’altro, entriamo nella mente dei personaggi e capiamo che non esiste un “cattivo” e “un buono”.
Esistono relazioni e cambiamenti. Esistono egoismi, sussulti di un’io che si scontra col noi. Non è facile costruire una comunità, grande o piccola che sia. È facile che una comunità si disgreghi per far posto ad altre forme di esistenza. Richard pensa alla sua famiglia che “si regge solo per inerzia”, e si chiede: “se invece avessero ancora tutti la possibilità di avere qualcosa di meglio?” (p. 252). “Ormai è tutto una noia”, gli fa eco Alice, “non chiacchierano più di nulla, solo di questioni organizzative” (p. 272). Ma la rottura spaventa, la perdita dell’abitudine, la paura del nuovo. Alice è tormentata tra la noia e la rabbia, fra l’abitudine e il desiderio di vita. “Quasi tutta la giornata trascorre così, rabbia, tristezza, determinazione, rabbia, tristezza, lavoro, pranzo, nel pomeriggio porta di nuovo il cane a fare una passeggiata, senza nemmeno fingere di voler fare giusto due passi. Niente” (p. 275).
Nel susseguirsi dei capitoli, che aprono ogni volta il punto di vista di un personaggio diverso, entriamo nella quotidianità asfittica di una famiglia tradizionale, madre, padre, figlio e figlia, con cui intraprendiamo un viaggio lungo più di trecento pagine, percorriamo un pezzo della loro storia, una storia ordinaria, sviscerata nei minimi dettagli. È come una vivisezione, la dissezione di un corpo vivente per guardarne i meccanismi il più vicino possibile, accorgendoci che la chiave di tutto è sempre il mutamento, l’instabilità (necessaria) che comporta scomposizioni e ricomposizioni, respiri lunghi o tagli netti che permettono a un organismo di rigenerarsi.
“In men che non si dica prende il ritmo che le è più congeniale” (p. 141). Fra scegliere un compromesso e seguire il proprio tempo ci si smarrisce spesso, e si resta in uno spazio indefinito in cui la coppia mal assorbe l’individuo, ne digerisce un po’ e un po’ lo perde. La tenerezza spontanea svanisce e un gesto o uno sguardo insolito provocano ansia, sospetto, perfino fastidio, più che piacere. L’abitudine viene a coronare il malassorbimento, ma le parti indigerite prima o poi tornano a galla. Conosciamo mai veramente chi abbiamo accanto? Quand’è l’ultima volta che siamo stati felici?
I vigliacchi Josef Škvorecký è uno dei grandi classici della letteratura ceca.
Siamo in Boemia agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, e gli ultimi giorni, dal 4 all’11 maggio del 1945, sono altrettanti capitoli. La guerra, con le sue atrocità, resta costantemente sullo sfondo, ma è un romanzo in cui vengono celebrate la vita e la giovinezza. Protagonisti sono i ragazzi che suonano in un complesso jazz, stravedono per tutto ciò che è americano e inglese, e a modo loro sono già dei “ribelli” nel confronto del mondo degli adulti: costretti malvolentieri ad arruolarsi in un arrangiato esercito cecoslovacco basato, guardacaso, in una fabbrica di birra, tra ironia e sarcasmo, slanci ideali e comprensibile paura – i tedeschi sono in ritirata incalzati dai sovietici – i loro principali interessi restano la musica e le ragazze. E pensare al futuro, come fanno i giovani di ogni epoca, con atmosfere quasi da film che precorrono gli anni Sessanta.
Scritto nel 1948-49 da uno Škvorecký ventiquattrenne e pubblicato solo nel 1958, era arrivato una prima volta in Italia nel 1969 nella traduzione di Giuseppe Mariano per Rizzoli, condotta, all’epoca, sulla seconda edizione del romanzo (1964), una stesura in parte censurata e in parte riscritta dallo stesso autore perché ne fosse concessa la pubblicazione. Ora il romanzo si può di nuovo leggere integralmente e nella sua forma originaria e più viva.
I vigliacchi si distingue per una lingua e uno stile molto personali che alternano registri bassi e quotidiani a una struttura letteraria articolata. I dialoghi tra amici, diretti e cinematografici, sono pieni di gergo giovanile – non è facile mantenere quella freschezza e immediatezza a distanza di generazioni e di decenni senza indulgere alle mode passeggere del contemporaneo, e senza utilizzare espressioni che in italiano sono regionali. Invece le lunghe elucubrazioni, i sogni a occhi aperti e le riflessioni post-adolescenziali del protagonista Danny (alter ego dell’autore in molti suoi romanzi) sulle ragazze, sulla guerra, ma in fondo sempre sul senso della vita, spesso sono periodi talvolta più lunghi di una pagina. Solo la sapienza letteraria di un autore amante del jazz e del cinema consentono al lettore di non perdersi e percorrere le pagine una dopo l’altra con leggerezza e apparente semplicità.
In Škvorecký la vita, che sia amore o guerra, risuona con i contrappunti del jazz, dello scat, dell’improvvisazione studiata, del ritmo sincopato. E moltissimi sono i verbi che richiamano suoni e rumori, si “sente” la colonna sonora almeno quanto si “vedono” i personaggi: un film su carta. Ma del jazz e del cinema ci sono anche l’abbandono della ragione e della ragionevolezza per le ragioni del cuore, che sono quelle dell’essere giovani, da ragazzi e sempre.
di Alessandro Catalano, professore di Letteratura ceca presso l’Università di Padova e socio di Memorial Italia
La scrittrice ceca a Huffpost: «Noi che siamo nati nell’est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo”… “Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte».
La scrittrice Radka Denemarková rappresenta una delle voci più originali e provocatorie della letteratura ceca, ha vinto numerosi premi ed è un’intellettuale con grande visibilità nell’ambiente culturale tedesco. In italiano sono stati tradotti i romanzi I soldi di Hitler, sul complesso processo di denazificazione seguito alla Seconda guerra mondiale dal punto di vista di una ragazza sia ebrea che tedesca (Keller 2012), e Contributo alla storia della gioia, sulla dilagante violazione del corpo femminile nella storia (Sovera 2018, entrambi tradotti da Angela Zavettieri). Poche settimane fa l’editore Miraggi ha pubblicato, nella brillante traduzione di Laura Angeloni, il monumentale romanzo Ore di piombo, che la scrittrice ha appena presentato a Torino, Parma e Firenze.
Da quando l’ho intervistata l’ultima volta per lo spazio di Memorial Italia sull’HuffPost, due anni e mezzo fa, sono successe molte cose. Vorrei affrontare con lei sia la ricezione del suo romanzo appena tradotto in italiano, Ore di piombo, sia la situazione politica internazionale. Partirei da quando è stata invitata a inaugurare il festival Pordenonelegge, dove ha dialogato con la scrittrice Silvia Avallone. In una sera caratterizzata da una bella partecipazione di un pubblico caloroso, non sono mancate le polemiche da parte del sindaco della città, Alessandro Ciriani, che ha usato parole forti: “Ho assistito a una serie di luoghi comuni triti e ritriti di un vecchio femminismo che non esiste più”. Perché le sue parole provocano spesso questo tipo di reazioni?
Credo che molti esponenti politici odierni non siano più abituati al fatto che gli scrittori violino lo spazio della politica, la percepiscono come un’invasione. Ma non dobbiamo dimenticare che gli scrittori si sono sempre espressi sul mondo, fornendo spesso una prospettiva nuova e diversa, e sono persuasa che dobbiamo continuare a difendere la nostra autonomia e a dire quello che pensiamo. La politica è in fondo solo un servizio, anche se molti credono di essere immuni dal controllo della società. Io sono una scrittrice e una cittadina, e il XX secolo ci ha insegnato che il diritto di criticare è importantissimo. Un diritto che da una parte fa paura, ma dall’altra costituisce la nostra grande forza. Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma allo stesso tempo è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte. Ricordo bene l’appassionata reazione del pubblico a Pordenone. Ecco, quello che mi sta più a cuore è ricevere il sostegno di chi ascolta. Credo che sia oggi molto importante dare voce a chi non ha la possibilità di manifestare pubblicamente le proprie idee, a chi non può rischiare. E credo che di questo tipo di coraggio avremo sempre più bisogno.
Lei ha più volte richiamato l’attenzione sul persistere di una cultura patriarcale anche in contesti dove stentiamo a riconoscerla, ad esempio tra i dissidenti. Quanto c’entra il fatto di essere donna?
Sì, naturalmente le cose non erano affatto diverse neanche nella dissidenza. Se pensiamo ai dissidenti in Cecoslovacchia, ci vengono in mente i nomi di Václav Havel, o di Milan Kundera, sempre di uomini si tratta. Anche se a nessuno piace sentirlo, il mondo odierno è dominato ancora da un pensiero patriarcale, solo gli uomini vengono presi sul serio. Se le stesse frasi le pronuncia una donna, hanno minor peso.
In questi giorni lei è in Italia per presentare il romanzo Ore di piombo, uscito in ceco nel 2018. In questi sei anni trascorsi, secondo lei è cambiato qualcosa di essenziale nel modo in cui possiamo leggere questo romanzo, in buona parte ambientato in Cina?
Quando il romanzo è uscito, poteva paradossalmente suonare come un avvertimento. Oggi invece alcuni degli argomenti affrontati sono realtà. Viene quindi spesso letto come un romanzo che contribuisce a svelare i meccanismi del nuovo potere. Il mio intento era quello di mettere in guardia contro un nuovo tipo di totalitarismo. Molti erano convinti che un’economia che funziona porta automaticamente al benessere. Ma quando il governo è monopartitico, l’economia non fa che rafforzarne il potere. Avendo trascorso molti mesi in Cina, ho constatato con orrore quanti europei hanno sostituito i nostri valori con il denaro, allineandosi cioè al modus operandi degli oligarchi di tutto il mondo. E non parlo solo di Trump e Putin, il discorso può essere esteso anche altrove, generando un sistema che sfugge a tutti gli strumenti di controllo della democrazia.
In diversi punti del romanzo mi sembra anche di percepire una forte critica, o se preferisce, un avvertimento, nei confronti della tecnologia, o meglio del mondo virtuale.
Sì, volevo in effetti mostrare quanto la tecnologia sia ormai onnipresente nelle nostre vite, cosa di cui soltanto adesso cominciamo a renderci pienamente conto. In internet si sono ormai formati dei veri e propri Stati, che nessuno controlla: Facebook, Meta, perfino il loro nome cambia di continuo. Per non parlare del fenomeno dell’intelligenza artificiale, con tutti problemi connessi. Sono realtà che non possono rimanere senza una forma di controllo. Pensiamo per esempio alle fake news: sono ormai talmente diffuse, che per il cittadino medio è difficile orientarsi; inoltre, creano il sostrato ideale per insabbiamenti di vario tipo, distolgono l’attenzione dai temi davvero importanti. Chi fa circolare menzogne dovrebbe essere punito, come del resto in molti paesi già viene punita la negazione della Shoah. In questo momento storico è fondamentale riaffermare il concetto di responsabilità.
Che troppo spesso è invece dimenticato proprio dalle alte sfere della politica…
Il problema è che abbiamo a che fare con individui che avanzano la pretesa di influenzare la politica mondiale, pur non essendo mai stati eletti. E penso alle immagini della “incoronazione” di Trump: in prima fila non c’erano di sicuro premi Nobel e artisti, ma individui che non dovrebbero avere nulla a che fare con la politica, visto che manifestano un aperto e profondo fastidio nei confronti della democrazia e hanno costruito veri e propri imperi sul verticismo, sul dominio assoluto. La politica dovrebbe occuparsi di organizzare la società così da garantire il benessere dei cittadini. Noi purtroppo avvertiamo il pericolo solo quando vediamo i fucili, ma il modo in cui questi individui influenzano la struttura sociale è molto più pericoloso di un fucile. Dovrebbero essere controllati con la massima attenzione e invece sono loro a controllare noi.
Eppure, dovremmo avere imparato la lezione…
Esatto, guardando al passato, rimaniamo sempre attoniti all’idea che una sola persona sia riuscita ad alterare così profondamente l’idea stessa di democrazia, ma quando una cosa analoga si verifica davanti ai nostri occhi, nemmeno ce ne accorgiamo. Il ruolo peggiore lo ricopre sempre la maggioranza silenziosa, spalleggiata da una lunga serie di utili idioti. In un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, non c’è via di fuga. C’è un gruppo ristretto di persone — e parlo di tutti gli oligarchi che proliferano ovunque, tutti con la stessa forma di narcisismo — che sembra aver preso il mondo per una sorta di giocattolo privato e si sente padrone del destino di interi paesi, più o meno piccoli. Se anche i grandi paesi cominciano ad agire nello stesso modo, allora è facile che scoppi una guerra, di solito contro gli stati più deboli. E sono guerre che non riguardano solo i paesi aggrediti.
È quello che è successo in Ucraina, per esempio?
Direi di sì, Putin a mio avviso non odia soltanto l’Ucraina, ma l’idea delle tradizioni democratiche in sé. E la sua forza è amplificata dalla debolezza dell’Europa. Sono discorsi che richiederebbero lunghe e dettagliate disquisizioni, ma non vorrei che si pensasse a Ore di piombo come a un trattato politico. I livelli di lettura del romanzo sono molti e diversificati.
Infatti, vorrei anche chiederle, a beneficio di chi non ha letto il romanzo, come si declina poi tutto questo sotto forma di opera narrativa.
Ore di piombo è un esperimento. Mi sono chiesta se fosse possibile rappresentare la complessità dell’epoca che stiamo vivendo attraverso una forma nuova. Io credo che solo il romanzo sia in grado di affrontare contemporaneamente un gran numero di aspetti diversi da diversi punti di vista. Come rappresentare, infatti, questo processo di disgregazione dei valori che coinvolge la società, la famiglia, l’individuo e, perché no, perfino l’anima? A differenza della storia, che fotografa e analizza gli avvenimenti, la letteratura può cogliere il mondo interiore dei personaggi e far emergere la percezione individuale della mentalità di un’epoca. La metafora dell’“ora di piombo” in quanto momento fatale nella vita dei personaggi, ma anche della società e persino dei paesi, funziona secondo me meglio di tanti saggi sull’argomento. Il mio è un romanzo a più voci, anche se ovviamente il lettore è spesso portato a identificarmi con il personaggio di Scrittrice. Ma lei non capisce il mondo che ha attorno spesso provoca con i suoi atti la rovina di chi la circonda, per esempio nel caso di Ragazza cinese. Ho poi voluto dilatare il tempo e lo spazio, contrapponendo all’incomprensibile agire umano il mondo animale, gli uccelli e due gatti, Arancio e Mansur. Soprattutto il primo, Arancio, è un gatto millenario, ha vissuto varie epoche e ha visto la storia ripetersi innumerevoli volte, dunque osserva tutto con indulgenza, con il suo caratteristico umorismo nero. Questa pluralità di prospettive sulla storia raccontata è una cosa che solo un romanzo è in grado di far emergere.
In Ore di piombo c’è poi un particolare lavoro sulla lingua…
La battaglia della vera letteratura, oggi, è combattuta con la lingua e per la lingua. Un romanzo scritto con una lingua debole, incerta, senza prese di posizione chiare, non è in grado di svelare alcunché sul mondo. Ogni mio libro ha una lingua e una forma diversa. È il mio tentativo di recuperare una lingua che abbia un significato reale, facendo sì che ognuno si assuma la responsabilità di ciò che afferma. Il lavoro sulla forma è complesso, i singoli capitoli del romanzo rappresentano dei mattoni con i quali ho edificato una cattedrale. Al tempo stesso ogni linea narrativa e ogni capitolo possono essere letti come storie a sé stanti. Ore di piombo rappresenta quindi un esperimento con la lingua e con la forma: mi piace ripetere che contiene in realtà cinque romanzi diversi, che può essere letto come un romanzo d’amore, un romanzo su un singolo personaggio, sulla Cina e sull’Europa, su cosa sta succedendo oggi alla famiglia e su cosa significa essere “non rieducabili”.
Volevo in effetti chiederle cosa significa per lei l’espressione “non rieducabile”, utilizzata spesso nel romanzo ed estendibile a molti episodi tragici del passato, basti pensare a una “donna non rieducabile” come Anna Politkovskaja.
I “non rieducabili” sono quelli che un tempo chiamavamo dissidenti, ma oggi la parola “dissidente” non basta più. Le nuove forme di totalitarismo esercitano un controllo così capillare sul singolo, che per loro non è sufficiente chiudere in prigione chi non si conforma. Il “non rieducabile” va eliminato in tutto e per tutto. Per questo, oggi, è estremamente importante non arrendersi.
Perché ha deciso di ambientare il romanzo proprio in Cina?
La Cina rappresenta una grande novità, in quanto ha sviluppato una nuova forma di totalitarismo che riunisce in sé il peggio del capitalismo e il peggio del comunismo. Pensi solo al totale silenzio sugli oppositori concreti. A suo tempo, quando Havel, il più famoso dissidente cecoslovacco, veniva arrestato, ne parlavano i giornali e le televisioni di tutti i paesi occidentali, insorgevano tutti i governi occidentali… Oggi in Cina spariscono spesso persone che all’estero sono del tutto sconosciute, quindi chi se ne preoccupa? È una forma di totalitarismo molto più efficace, che controlla i cittadini in modo feroce.
Non trova a suo modo curioso che, parlando della Cina, si continui a usare la parola “comunismo”?
Sì, senz’altro. Se definiamo oggi la Cina “comunista”, qual è il significato di questa parola? Il potere è una questione che riguarda i più ricchi, ovvero i capitalisti della peggior specie. La parola comunismo è stata completamente svuotata del suo significato. In un momento in cui l’unico valore sembra quello del denaro, dobbiamo tornare al vero valore delle parole, a partire da: che cos’è l’uomo?
La guerra in Ucraina ha cambiato qualcosa da questo punto di vista?
La guerra in Ucraina ha fatto emergere altri problemi della nostra epoca. Solo adesso ci rendiamo conto, per esempio, di quanto siano efficaci le guerre ibride e di quante persone abbiano assorbito la propaganda russa. Secondo me, comunque, alla base di tutto c’è un rovesciamento dei valori che fa sì che la vittima venga trasformata in colpevole. È per questo che è così facile rovesciare l’idea di chi sia il vero aggressore.
La Repubblica ceca che posizione ha assunto nei confronti della guerra in Ucraina?
Per fortuna la nostra politica ha assunto una posizione chiara, anche perché a Praga è stato tutto percepito in relazione al 1968 e ai vent’anni successivi, lasciando scarso adito a dubbi. Vari paesi dell’ex Europa dell’Est hanno ancora una conoscenza profonda della mentalità della Russia, convinta che ciò che le è appartenuto un tempo, le appartenga ancora… Ora, però, vediamo anche che alcuni paesi sono tornati ad assorbire forme di propaganda esplicita, basta pensare all’Ungheria. Il sogno di Putin non è scomparso, del resto, e mentre osserviamo la reazione coraggiosa dell’Ucraina discutendo nei nostri salotti, intanto lì si combatte. Ora la situazione politica mondiale sta cambiando, l’atteggiamento degli Stati Uniti è naturalmente essenziale, il che dimostra tra l’altro che basta un singolo narcisista per trasformare radicalmente tutto. Trump è fatto della stessa pasta e sarebbe disposto a sacrificare anche l’Europa intera. La guerra ha svelato anche a quali pericoli potremmo andare incontro, quali ore di piombo ci attendono. Se tutto è incentrato solo sull’economia, ogni rivendicazione riguarderà cose concrete, come hanno dimostrato la discussione sulle terre rare e la mentalità delle tante imprese che hanno fatto di tutto per aggirare le sanzioni. Purtroppo, pochi comprendono l’essenza della questione: in ballo non c’è solo qualche chilometro di un territorio lontano, ma siamo di fronte a un’epoca di rottura, in cui lo svuotamento dell’individuo è cosa reale. Il numero dei caduti rende necessario, dopo tre anni, fare blocco attorno all’Ucraina, altrimenti sarà troppo tardi e seguiranno altri casi simili: Groenlandia, Canada, Taiwan, Gaza etc.
Se lei dovesse ridefinire l’Europa, nei cui confronti in passato è stata più volte critica, descriverne i confini e ridisegnare le etichette che si continuano a usare (Occidentale, Orientale…), come la descriverebbe oggi?
Molti di questi termini hanno ancora senso perché riflettono un’eredità condivisa da diverse generazioni, ma oggi non mi pare abbiano più un valore reale. Solo un’Europa realmente attiva potrebbe funzionare, perché c’è un grande bisogno di ribadire i valori nei quali ci identifichiamo. Ma in vari paesi la situazione è palesemente problematica. I valori sono una cosa, l’eredità un’altra. Se pensiamo all’Est e all’Ovest di un tempo, all’eredità del nazismo prima e del comunismo poi, e confrontiamo tutto questo con i recenti risultati politici, capiamo bene che fare i conti con i totalitarismi è un processo molto complesso. Questo dovrebbe anche insegnarci a riflettere sul futuro, mentre purtroppo continuano a prevalere, da una parte, una sorta di arroganza dell’Ovest e, dall’altra, una specie di senso di inferiorità dell’Est. Sarebbe necessario superarle e invece abbiamo sottovalutato molte cose. Rispetto all’occidente, in cui si pensava che tutto si potesse risolvere con le sanzioni, noi che siamo nati nell’Est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me, in quanto scrittrice, è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo.
E cosa può fare oggi la letteratura?
Si è parlato tanto di crisi del libro e naturalmente ho percepito anch’io gli ultimi anni come una crisi senza precedenti. Ma poi mi sono resa conto di quanto io stessa senta il bisogno della letteratura. In epoche simili, quando è in agguato una crisi di tale portata, le persone riscoprono la propria natura animale e si sforzano di comprenderne la ragione. Ho l’impressione che in alcuni paesi questo si stia già verificando. Nel mondo arabo, ad esempio, i cittadini assediati trovano un momento di aggregazione proprio attorno alla letteratura, che funziona come una sorta di oasi. Può sembrare assurdo, ma non mi stupisce che in tempo di guerra la gente si incontrasse proprio per leggere poesie, per non cadere in depressione: per questo si scriveva anche nei campi di concentramento. Tutte le proprie energie venivano riversate in un’attività come la scrittura. Io non ho mai creduto al fatto che si legge sempre meno. In fondo, se guardiamo la storia, la lettura non è mai stata un’attività chissà quanto diffusa. La letteratura ha il potere di salvare le persone, così è stato anche in passato. Anche se si tratta degli ultimi sopravvissuti, di un piccolo gruppo, molto distante dalle grandi masse, è comunque importantissimo. Magari ora potremmo sembrare dei paladini delle cause perse, guidati da un idealismo inutile e fastidioso, ma facciamo comunque parte di una lunga catena. Anche in passato ci sono stati scrittori che hanno pagato: sono rimasti incompresi, si sono suicidati, hanno bruciato i loro manoscritti, sono morti. È quindi anche un modo per proseguire nella loro tradizione, nella tradizione della “vera letteratura”.
Ho l’impressione che per lei abbia un significato particolare questa idea di “vera letteratura”?
Sì, per me c’è una differenza essenziale tra “scrivere” e fare vera letteratura. Esistono tanti tipi di scrittori, ma non tutti sono disposti a rischiare, a seguire sentieri che non sono stati ancora battuti. È anche un’attività difficile perché in un’opera letteraria deve funzionare tutto, la forma, la lingua, la storia. Se un autore mette tutto sé stesso in un romanzo, i lettori se ne accorgono. Se ad esempio ripensiamo a Gita, la protagonista dei Soldi di Hitler, e al tema della Shoah, quanti libri kitsch, sentimentali, pieni di cliché sono stati scritti sull’argomento… Invece, gli autori che hanno davvero saputo fare i conti con sé stessi, Primo Levi, Imre Kertézs, Paul Celan, Jean Améry, lo hanno pagato sulla loro pelle. Si tratta di qualcosa che non è facile da definire, ma che avverto in modo molto forte. Pensi solo a quanti libri hanno enorme successo e due anni dopo non li ricorda più nessuno. Poi, certo, scrivere è anche una forma di narcisismo. Io, che ho avuto seri problemi finanziari e ho cresciuto da sola i miei figli, ho temuto spesso di dover cambiare modo di scrivere per vendere più copie. Per fortuna poi le cose sono andate in modo diverso.
A questo punto non posso fare a meno di chiederle cosa rende un romanzo durevole nel tempo?
Non è il tema che rende certi romanzi immortali, ma il fatto che riflettono un intero mondo. Le faccio due esempi molto diversi tra loro. Anna Karenina può essere letta in tanti modi, come una storia d’amore, una storia sul senso della famiglia, sull’infedeltà etc., ma se volete cogliere l’essenza della mentalità della Russia del XIX secolo, lì dentro c’è tutto. E questa è una forza che può avere solo un romanzo. L’uomo senza qualità riflette l’atmosfera di disgregazione della monarchia asburgica, e per coglierla Musil ha lavorato molto con la forma. Ma scrivere così comporta dei rischi. In Ore di piombo ho lavorato profondamente sulla forma, è un romanzo con tendenze liriche, riflessioni storiche, elementi saggistici, dialoghi con Confucio e Havel. E tante altre cose. Volevo verificare se oggi è possibile costruire un romanzo in questo modo. Io scrivo ogni mio romanzo come se fosse l’ultimo. E ritengo che riflettere sulla propria epoca significhi anche riflettere in termini di eternità. Funzionerà? Non lo sa nessuno. Ma è necessario provarci.
Alla luce di tutta la nostra conversazione, mi viene in mente una domanda finale, forse paradossale. Ma lei si sente una scrittrice ceca?
Io sono allergica a queste etichette, la letteratura italiana, la letteratura ceca etc. Per me esiste solo la vera letteratura. E sono convinta che in futuro la vera letteratura avrà un significato ancora più ampio, perché saremo investiti da un’alluvione di testi che riscriveranno la storia. L’intelligenza artificiale diventerà un’arma potente in mano a molti dilettanti. Ma dobbiamo imparare a conviverci: alcuni ambiti ne riceveranno un grosso aiuto, ma il pericolo c’è e non si può negare. Molti non si limiteranno a creare brevi video molto efficaci, ma anche testi più articolati in cui la verità e le menzogne saranno mescolate con sapienza. Solo la letteratura è in grado di raccontare i destini individuali e a illuminare la realtà da una prospettiva diversa, e ne abbiamo bisogno perché è un processo liberatorio. La fantasia ci aiuta a sviluppare il pensiero critico, attraverso cui decodificare la realtà.
Nei Vigliacchi Josef Škvorecký distilla in otto giorni e in altrettanti capitoli quelle ore sature di potenziale drammatico delle quali parla Stefan Zweig in Momenti fatali, quel progressivo addensarsi di eventi gravidi di fato dopo i quali nulla sarà più come prima. L’azione, situata in una cittadina della Boemia, copre il periodo che va dal 4 all’11 maggio del 1945, durante il quale i nazisti presenti in Cecoslovacchia stanno per essere travolti dall’Armata Rossa. In questi scenari si muove Danny Smiřický, alter ego dell’autore stesso in numerose sue opere, personaggio irriverente e anticonformista, perennemente in bilico fra la noia esistenziale e il vitalismo irrefrenabile. Come Svejk ha la capacità di resistere all’orrore della guerra, facendosi beffe del male. Meno caricaturale e grottesco del buon soldato di Hasek, Danny può ricordare l’Holden di Salinger, e non è un caso considerando che Škvorecký era imbevuto di cultura angloamericana. L’individuazione di un linguaggio perfettamente funzionale alla narrazione è tratto comune. Salinger si esprime alla maniera degli adolescenti americani, con il loro slang e i loro manierismi. La lingua è il grimaldello che scardina l’ipocrisia della società del benessere. La medesima operazione viene messa in atto da Škvorecký, veicolando nel lettore uno straordinario senso di autenticità. La sua critica è rivolta all’ambiente piccolo borghese, che è riuscito a restare a galla persino durante l’occupazione nazista. Su tutto questo si innesta l’andamento musicale della struttura narrativa, la sua ispirazione jazzistica. Non a caso l’apertura e la chiusura del romanzo mostrano Danny impegnato con la sua band. Il jazz rappresenta la rottura con qualsiasi elemento stereotipato, l’aspirazione verso una libertà di espressione totale. Il sax tenore, con il suo chiaro simbolismo sessuale, invita allo sberleffo, all’eccitazione dionisiaca. Da questo punto di vista anche i pensieri di Danny, con il loro continuo oscillare da un estremo all’altro, forniscono l’impressione di una coscienza preda di una musica selvaggia, ancora non completamente formata, alla ricerca di una propria direzione.
Siamo indubbiamente di fronte a un romanzo di formazione. Un’immagine, un ricordo precipitano il protagonista in un caleidoscopio di riflessioni dalla sostanza onirica, perché “il sogno era nella mia natura da tempo immemorabile”. Significativamente ogni capitolo, eccetto l’ultimo, termina con il protagonista che si addormenta, consegnato all’oblio in un sonno senza sogni, oppure popolato di cose che, al risveglio, dimenticherà. L’amore per Irena diviene ossessione a causa del rifiuto della ragazza a concedersi. Un sentimento incerto e illusorio in quanto legato all’apparenza estetica. Fondamentale è vivere, anche se tutto quello che è bello rivela una natura effimera. Momentanee oasi di beatitudine sono garantite dalla musica, come quando Danny si ferma ad ascoltare un’orchestrina russa, con la vibrazione profonda della balalaika che ha del miracoloso. Il piacere sparisce, rapido come è venuto, perché «stavo male per l’impotenza dell’uomo e per un mondo dove tutto era organizzato così male che ogni meraviglia, se mai capita, la si può conoscere così di rado, oppure, una volta conosciuta, si finisce per perderla subito, restando disperati e tristi e con tanta voglia di morire».
Neppure la religione è di conforto. Il dubbio riguardo l’esistenza di Dio dà vita a elucubrazioni contrastanti. Il dramma si manifesta all’improvviso, in un gruppo di ebree appena uscite da un campo di concentramento, pallide come spettri, o in una ragazza tedesca convinta della superiorità della razza ariana fino al fanatismo. Momenti cruciali nella storia europea vengono descritti in maniera peculiare, proprio perché filtrati attraverso lo sguardo disincantato e irriverente di Danny. «Qualche giorno di entusiasmo e poi di nuovo la stessa pappa, sempre uguale, appiccicosa e vischiosa». Un mondo è al tramonto, ma il nuovo appare ugualmente estraneo e ostile. Siamo distanti dalla mitizzazione di un’intera generazione operata ad esempio da Fenoglio nel Partigiano Johnny, dove la resistenza ha una forte motivazione esistenziale. Danny è un antieroe, distante da qualsiasi retorica ideologica e per questo inviso al regime comunista. I liberatori, dei quali non comprende la lingua, gli appaiono: “completamente diversi da me e incredibilmente estranei”. Sin dal titolo, ci troviamo in un sistema di valori totalmente contrario ai dettami del socialismo. L’eroismo di Danny è una posa, una finzione, come dimostra l’episodio della foto con il mitra usata unicamente come esca per le ragazze. Una strana sensazione di vuoto e di inutilità lo minaccia. “Tutti eravamo dei morti viventi”, dice. Con il suo anelito libertario e le sue contraddizioni insolubili, con il suo vitalismo e i suoi ripiegamenti malinconici, Danny è il simbolo dell’irrequieta indole giovanile, della ribellione desiderata e mai del tutto compiuta; in quanto testimone di un’età irripetibile, ci commuove con la sua profonda e imperfetta umanità.
Nasce dal dissenso l’urgenza della scrittrice ceca Radka Denemarková di comporre un romanzo-tempio sulla Cina, dopo viaggi e incontri che l’hanno portata a riflettere sullo scarto tra la percezione di sfaldamento e trasformazione sociale e la rappresentazione di equilibrio e armonia. Le tetre affinità con un’idea di controllo collettivo vissuto nella Cecoslovacchia della normalizzazione producono nella scrittrice un senso di contaminazione, in un “vortice di censura e autocensura”. Voce di spicco del dibattito pubblico ceco, Denemarková è autrice di saggi, opere teatrali, romanzi, e traduttrice di Tokarczuk, Müler e Stavaric.
Ha ottenuto per la quarta volta il prestigioso Magnesia Litera con Ore di piombo, costato il bando perpetuo dalla Cina, anche per la vicinanza con gli attivisti del manifesto Charta 08 (ispirato alla Charta 7 dei dissidenti cecoslovacchi). Definito un romanzo di perenne stupore, di dialoghi socratici, di domande, iniziazioni e variazioni dolorose, è un “peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asia”. Con un racconto fluviale strutturato su stratificazioni di storie di soggetti che incarnano visioni agli antipodi e con una narrazione dal passo apparentemente favolistico in cui si avvicendano Scrittrice, Ragazza Cinese, Madre Cinese, Programmatore, Diplomatico, Studentessa Americana, Avvocato, etc., l’opera riflette sugli esiti individuali e collettivi dei totalitarismi. Denemarková si approccia a questo tema faustiano, polisemico, archetipale vestendolo di nuovo”, attraverso lo studio narrativo di “questo animale che chiamiamo società, in un romanzo di concreto realismo e infusa astrazione”. Tra diario di viaggio, romanzo corale, saggio filosofico, studio poetico, indagine sociologica, il romanzo si regge su frammenti ricomposti del dialogo aperto tra Oriente e Occidente da cui emerge una vicinanza di destini per condizionamenti famigliari, alienazione contemporanea, confinamento nella norma, logoramento delle reti sociali canonizzate dalla parvenza coesa. L’opera è intesa come un corpo vivo in trasformazione e risponde a impulsi diversi a seconda dei luoghi e dei tempi che abita. Ala crisi dell’individuo che si riverbera anche nelle arti e, in particolare, nella letteratura, Denemarkova contrappone l’esempio di Václav Havel, a cui si ispira nel misurare il rigore etico di un paese. Tra le influenze il realismo russo; le visioni kafkiane dell’intrico inquieto originato da un cocente smarrimento esistenziale tra incognite spirituali; lo studio dell’anomalia in Bernard, in particolare nelle riflessioni sull’isolamento e l’annientamento dell’essere umano nel racconto della solitudine in rapporto al paesaggio. La peculiare visione del tempo nell’opera, che a tratti abbandona la presa sul contemporaneo in favore di una fratturazione del discorso lirico in movimenti, cela rimandi alla poesia ceca proletaria, surrealista, civile. L’elogio della dissonanza riluce in un’opera maestosa, che si contrae in un’espressività minimalista di gusto orientale nel cogliere sfumature recondite dell’animo, e si espande in un flusso di storie interconnesse, descrizioni urbane, affreschi sull’irrequietezza, dissertazioni ideologiche.
Il titolo omaggia Dickinson e rimanda alla sensazione di scrivere con il piombo intorno ai polsi. Nel bilico tra adesione al noto e aperture fantastiche, la presenza animale evoca una tensione tra libertà e controllo simboleggiata da cornacchie nere, gazze azzurre e gatti sapienti. Il riconoscimento della coesistenza in Cina di socialismo e capitalismo, e la sua definizione come uno splendido campo di concentramento dai confini impermeabili e al contempo un giardino fiorito, passano attraverso l’analisi dell’Europa centrale per riflettere sul significato della propaganda nel trasfigurare gli eventi, e della menzogna come un “camaleonte non rieducabile”. Denemarková riconosce una comunanza tra il ciclo di singole vicende esistenziali e quello della storia dell’umanità, in bilico tra atrocità e rinascite, in una vana ricerca identitaria. Nel confronto tra realtà diverse, la cifra comune è l’impronta patriarcale nei condizionamenti individuali, nelle politiche sociali, nel controllo del concepimento: “Lo Stato si pianta a gambe divaricate davanti a un corpo e decide”. Immortala un’umanità malata di burn-out, infettata da razzismo, antisemitismo, sessismo e zelo patriottico, a cui contrappone l’appiglio fornito dalla scrittura come atto di difesa, come fuga dalla disperazione e come tentativo di decifrare il codice della solitudine delle parole”. L’opera è un ritratto allucinato di paesi dal personale Olocausto, dotati di un subconscio dove prospera la mentalità dei popoli: uno studio che con una lirica cifra visionaria consegna interrogativi su ciò che sostanzia la moralità, sull’autorità della coscienza e sulla fusione della crisi dell’individuo con la crisi dell’umanità.
Ore di piombo di Radka Denemarková, edito in Italia da Miraggi Edizioni, è un romanzo mastodontico e denso che intreccia le storie di vari personaggi provenienti da Europa, America e Cina. L’autrice riflette su come le loro vite si incrocino e si trasformino in un contesto globale di tensioni, disuguaglianze e lotte per i diritti umani.
Tra le figure centrali troviamo uno scrittore ceco, un diplomatico, una giovane studentessa americana e imprenditori che navigano nella complessità della Cina contemporanea. La narrazione è guidata da Scrittrice, un alter ego che rappresenta la coscienza democratica e la resistenza intellettuale. Il titolo stesso, Ore di piombo, richiama una condizione di stasi e apatia che si ispira alla poesie di Emily Dickinson in cui l’ora di piombo rappresenta un momento di paralisi emotiva e morale. Questo tema permea l’intero romanzo, simboleggiando una società globale intrappolata tra oppressione politica, consumismo e perdita di ideali.
I temi principali del romanzo
Denemaková esplora le intersezioni tra Oriente e Occidente, mettendo a nudo le ipocrisie e le somiglianze tra due mondi che si percepiscono come opposti. Da una parte c’è l’Europa, che appare stanca e consumata, incapace di difendere i suoi valori democratici; dall’altra, la Cina, rappresentata come un colosso in rapida crescita ma soffocato da un controllo oppressivo.
La globalizzazione, lungi dall’essere un processo armonioso, diventa nel romanzo un meccanismo che amplifica le disuguaglianze e porta a una colonizzazione culturale reciproca. Un elemento chiave del romanzo è l’analisi della violazione sistematica dei diritti umani, in particolare in Cina, ma con riferimenti anche ai fallimenti delle democrazie occidentali. La figura di Scrittrice diventa quindi un simbolo della lotta contro le ingiustizie, un richiamo all’impegno intellettuale e alla necessità di alzare la voce contro ogni forma di oppressione.
I personaggi del romanzo vivono una profonda alienazione, non solo geografica ma anche interiore. Il trasferirsi da un continente all’altro non porta soluzioni, ma acuisce il senso di estraneità. Questa perdita di radici e identità è descritta con una precisione dolorosa, riflettendo una condizione universale nel mondo contemporaneo.
L’ora di piombo è arrivata per tutti noi. Non ci sono eroi, solo sopravvissuti.
I personaggi e il loro sviluppo
I personaggi, sebbene diversi per background e motivazioni, condividono una condizione di fragilità. Scrittrice è il fulcro morale e intellettuale del romanzo, una figura che incarna la necessità di resistere all’indifferenza e di agire in nome della giustizia.
Il diplomatico e l’imprenditore ceco rappresentano due facce dell’Europa contemporanea. il primo cerca di mantenere una facciata di ordine, mentre il secondo è attratto dalle opportunità economiche della Cina, ignorandone le implicazioni etiche.
E, infine, la studentessa americana è un simbolo della giovinezza globale, intrappolata tra l’idealismo e la rassegnazione.
Ogni personaggio riflette le contraddizioni di un mondo interconnesso, ma frammentato.
Non importa dove vai: l’oppressione si nasconde ovunque, sotto maschere diverse.
Stile di scrittura e tematiche filosofico-politiche
Radka Denemarková adotta uno stile ricco e stratificato, intrecciando citazioni filosofiche e letterarie (Confucio, Václav Havel, Emily Dickinson) con dialoghi incisivi e descrizioni vividissime, che incantano il lettore. La narrazione è frammentaria, una scelta che rispecchia la complessità del mondo che descrive, dove ogni storia individuale è un tassello di un mosaico più grande.
L’autrice utilizza un linguaggio visionario, poetico, che invita il lettore a riflettere oltre la superficie. La struttura, tuttavia, può risultare impegnativa, perché richiede attenzione e una certa familiarità con i temi trattati per cogliere appieno la portata del romanzo.
La scrittrice non si limita a raccontare una storia: il suo romanzo è una meditazione sulla condizione umana in un’epoca di grandi cambiamenti. I riferimenti a filosofi e scrittori non sono mai decorativi, ma strumenti per ampliare la portata della narrazione. La tensione tra libertà e controllo, tra progresso e perdita di valori, è costante e viene esplorata con una profonda rarità.
Radka Denemarková
Nata nel 1968, è una delle scrittrici ceche più celebri e influenti della scena contemporanea, nonché figura di spicco nel dibattito politico e culturale del suo paese. Autrice versatile, ha scritto tantissime cose tra cui romanzi, saggi, opere teatrali e sceneggiature. Oltre a essere un’affermata traduttrice di letteratura tedesca, con autori di rilievo come Herta Müller e Michael Stavaric.
Denermarková ha studiato letteratura ceca e tedesca presso l’Università Carlo IV di Praga e lavora come ricercatrice presso l’istituto di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca. La sua abilità artistica e intellettuale le ha permesso di ottenere per ben quattro volte il prestigioso premio letterario Magnesia Litera. Le sue opere sono tradotte in oltre venti lingue, hanno ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il: Literary Prize of Styria e il Brücke Berlin Preis nel 2022 e l’Austrian Franz Kafka Preis e l’European Tolerance Price nel 2024.
Il suo impegno politico e le sue posizioni critiche nei confronti del governo cinese l’hanno condotta al bando perpertuo dalla Cina nel 2017, ben prima della pubblicazione di Ore di piombo.
In conclusione
Ore di piombo è un romanzo complesso, che richiede impegno, ma ripaga con una prospettiva unica e profonda sul mondo contemporaneo. La scrittura di Dernemarková è potente e stimolante, capace di catturare la mente e il cuore.
Ore di piombo è un’opera visionaria che intreccia storie personali e collettive per riflettere sulle tensioni di un mondo globalizzato. Con una scrittura densa e ricca di significati, Radka Denermarková offre un romanzo che non solo intrattiene, ma invita alla riflessione. Una lettura impegnativa, ma imprescindibile per chi cerca opere che esplorano le complessità del nostro tempo.
ignificati inaccessibili solcano le pagine di Ore di piombo, colossale, coraggiosa e inesorabile opera di Radka Denemarková. Un libro con un destino, intessuto di simboli, visionario, complesso e affascinante, intriso di rara purezza. “È possibile vivere e scrivere allo stesso tempo?” si chiede l’autrice. Un contrasto apparentemente insanabile. “Scrivere, l’incessante attività della sua mente, è una stretta passerella sopra la voragine”. Per farlo, forse, occorre vivere “in un duplice tempo, in un duplice mondo”. Dicotomia simboleggiata dal grido lacerante della gazza azzurra, condannata a soffrire per ciò che è destinata a vedere, e dalla cecità della cornacchia nera, alla quale hanno fatto il lavaggio del cervello. Denemarková si muove in equilibrio su un abisso. Da un lato Praga, dall’altro Pechino. Nel mezzo un filo sottilissimo e periglioso. La sua scrittura assume forme inconsuete nel tentativo, perfettamente riuscito a nostro avviso, di fornire al testo pregnanza polisemica.
Entrare in un’altra cultura è quanto di più arduo si possa immaginare. Forte di un universo interiore di inconsueta profondità e di un’esperienza diretta sul campo, Denemarková – Scrittrice nel libro – indaga le dinamiche che muovono la società cinese per riflettere sul mondo contemporaneo. L’ambientazione “esotica” intride di fascino la narrazione, dietro l’atmosfera fiabesca il libro è ben radicato nel reale. L’autrice ha vissuto in prima persona il totalitarismo. La Cina di oggi, come la Cecoslovacchia sovietica, è un luogo nel quale nessuno esprime la propria opinione e, quando si azzarda a farlo, ne paga le conseguenze con il sangue, come è accaduto in Piazza Tienanmen; un Paese dove le intercettazioni sono sempre più sofisticate, dove “il sistema legale difende solo coloro i cui profitti lievitano”. “La Cina è un campo di concentramento dai confini impermeabili”. Denemarková ricorda la primavera di Praga, soffocata dai carri sovietici, eppure c’è ancora chi pensa di aver assistito a una liberazione, e non a un’occupazione. Riflessioni che possono applicarsi all’attuale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. “La propaganda è una menzogna collettiva e le calunnie collettive non c’è modo di estirparle”.
A tal punto arriva la manipolazione delle menti. In una realtà in cui l’unica virtù è l’obbedienza, l’accettazione acritica, le persone non rieducabili vengono estromesse e annientate con il sospetto e la calunnia. Il controllo delle menti è anche manipolazione dei corpi. Ai condannati vengono espiantati gli organi. “Una voce legge davanti al corpo mutilato la sentenza”. Il sistema indirizza la vita privata. Il governo cinese detta il numero dei figli, e quindi le dinamiche familiari. Di tutto questo la donna è vittima, schiacciata da un modello patriarcale che non le lascia spazio, né le riconosce dignità.
L’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori è un fardello arduo da sopportare, in quanto mortifica qualsiasi speranza. Il libro non resta confinato a un singolo angolo geografico, per quanto immenso, ma è caratterizzato da una continua erranza, anche temporale, che ci trasporta dalle lande del lontano oriente ai paesaggi dell’Europa dell’est, dal passato al presente. Gli anni Novanta appaiono come un’orgia di potere, dominata dall’ossessione del comando e del denaro. Città elefantiache e impersonali, coperte da una perenne coltre di smog, racchiudono esseri sbiaditi, privi di personalità. Le tecnologie moderne, sempre più sofisticate, intossicano gli uomini finché questi non riescono più a distinguere fra gioco e realtà.
Stilisticamente il linguaggio ricchissimo, potente e visionario, così come le prospettive illimitate, possono ricordare gli universi barocchi creati da Vollmann. Il libro è un romanzo con derive saggistiche, pregno di riflessioni sulla politica, sulla natura del linguaggio e sulla calligrafia, un mondo di enorme vastità nel quale perdersi. La Cina è uno specchio dove vediamo riflesse le nostre paure, i nostri dubbi, le contraddizioni che lacerano la realtà in cui viviamo. Le tematiche della modernità si addensano in un affresco di enorme complessità. L’architettura stratificata, labirintica della narrazione addita le lacerazioni e i mutamenti che scuotono il nostro pianeta. Quali saranno gli esiti e le conseguenze, quando passeranno le ore di piombo evocate dal titolo, è l’interrogativo principale del libro. “La letteratura è la chiave per arrivare alle vite degli altri”. La parola è un’arma potente. Per questo i libri considerati nocivi vengono tratti al rogo, per questo libraie appassionate vengono torturate e offese, per mortificare ogni anelito libertario.
La Cina appare come un disumano meccanismo kafkiano, oppressivo e avido, mentre gli individui svaporano in un nulla colmo di apatia. Anche l’Europa si sta sgretolando, aggredita dalla paura. Le persone sono terrorizzate, i cuori anestetizzati dal capitalismo sfrenato. La divisione fra noi e loro impedisce qualsiasi forma di comunicazione con l’altro. “Si ripete un modello che ha funzionato nel corso di tutta la storia umana. La disumanizzazione”. Con grande coraggio Denemarková vuole dire tutto, desidera attingere alla verità, è stanca di tacere, perché anche il silenzio è menzogna. La cornacchia nera cava gli occhi alla gazza azzurra, incarnazione dell’anima inquieta dei defunti. Esiste la vita ed esiste la morte, e poi c’è la non vita a minacciare il nostro tormentato presente.
La ceca Radka Denemarková costruisce un romanzo fluviale su più piani narrativi che è un atto d’accusa contro i totalitarismi.
La Cina è uno splendido campo di concentramento dal confini impermeabili, la Cina e un giardino fiorito, e non è una contraddizione», grida un’artista nel corso di uno del tanti incontri del peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asta» di Scrittrice, la protagonista del ro manzo Le ore di piombo, Radka Denemarková, apprezzata intellettuale ceca, non sfuggite certo i temi controversi. Versatile autrice che vuole «svincolarsi dalle catene della mia lingua, del mio sesso, del mio Paese e della mia epoca », Denemarková è una delle voci più originali dell’attuale letteratura ceca. Arriva ora nelle librerie il violento atto d’accusa Le ore di piombo, con cui Denemarková ha vinto nel 2019, per la quarta vol-ta, il più importante premio letterario ceco, Magnesia Litera. Monumentale alfresco narrativo traboccante di riferimenti culturali, Il romanzo riprende nel titolo una poesia di Emily Dickinson sui momenti fatali che trasformano i destini individuali. Fatale ha del resto un duplice significato: il piombo è una sostanza che avvelena lentamente. Denemarková stessa ne ha paragonato la scrittura alla costruzione di un tempio. Le ore di piombo è un ro manzo che ricorda l’arte raffinata della calligrafia cinese. L’ampiezza e la densità del testo hanno rappresentato una sfida editoriale vinta sia per l’editore che per l’ammirevole traduttrice.
Abbiamo di fronte un’opera che si dilata nello spazio e nel tempo, basata sulle vicende di una serie di personaggi che esplorano variazioni esistenziali della stessa situazione: Scrittrice, Programmatore, sua moglie e la figlia Olivie, Amico, Marziano e la sua famiglia, Diplomati-co, Ragazza Cinese e Madre Cinese, Avvocato, Studentessa America-na, Pittore, Arrampicatore. Sulle pagine del romanzo si dipanano sotto lo sguardo attento della polizia segreta cinese, ambigui e spesso patologici legami, piccoli intrighi quotidiani e scambi di parole prive di contenuto. Il destino di questi lugubri personaggi è quello ti trovarsi di fronte alla loro ora del la verità, che per qualcuno porterà a scene di violenza familiari o alla fuga verso oriente, per altri alla dittatura dei rituali domestici o anche a un braccialetto spia. Più che un romanzo sulla Cina, abbiamo di fronte uno specchio, una luce sconsolata puntata sul labirinto di rap porti servili che legano gli europei alla Cina, che spesso mascherano solo sete di profitto.
E possibile resistere in «un’epoca in cui qualcosa di essenziale sì sta sfaldando e trasformando»? È giunta per la cultura europea l’ora fatale? Di fronte all’onnipresente paura della società cinese torna attuale la questione della battaglia spesso vana contro la propaganda (anche russa) e in favore dei diritti umani, qui personificata dal lascito ideale di Václav Havel. Dopo ripetuti soggiorni a Pechino, certo non sorprende che l’autrice sia stata bandita dal Paese per i suol contatti con la locale scena dissidente del manifesto Charta 08, che si rt-collegava alla cecoslovacca Charta 77. In quella che è forse la più inquietante linea narrativa del romanzo, per colpa di Scrittrice quest’eredità contagia Ragazza Cinese, ma la sua rivolta conduce solo alla sua esecuzione, dopo l’asportazione del reni, merce pregiata sul mercato nero degli organi. La persecuzione dei “non rieducabili” come lei si svolge davanti all’indifferenza generale, rimarcata dalle reiterate conversazioni da salotto de gli europei che contano: «Gradisce un altro bicchiere? E la sua prima volta in Cina? Com’è andato il volo? Le piace la Cina?-. In questo squallido panorama di maschi predatori e donne superficiali sembra no tutti concentrati sulla propria scalata sociale, Tra le pochissime eccezioni, Olivia e David, giovani outsider sui quali si riflettono le malattie del presente. Sulla propria pelle vivono invece la minaccia alla libertà le gazze azzurre che combattono nei cieli una battaglia impari con le cornacchie nere (‘on-nipresente polizia segreta?), e il gatto millenario Arancio e il suo discepolo Mansur, che attraversano la storia, osservando i travagli dell’uomo con sempre maggiore disincanto.
Radka Denemarková descrive un’umanità moribonda, che avreb be urgente «bisogno di una trasfusione» perché «nel suo sangue circolano liberamente i virus dell’anti-semitismo e del razzismo. La narrazione avanza per microsituazioni, per accumulazione di storie, ognuna delle quali avrebbe potuto rappresentare materiale sufficiente per una novella. Anche per questo Scrittrice può affermare a buon diritto che «probabilmente non troverò mai più l’energia per scrivere un libro come questo».
Alessandro De Vito pubblica il libro fiume della poetessa e drammaturga Radka Denemarková scritto fra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum.
È tutta una questione di recupero di memorie. Poi però bisogna intendersi sul significato di ricordo e di memoria, e anche sull’uso del singolare o del plurale. Quello che adesso fa Alessandro De Vito, 53 anni, fondatore nel 2010 di Miraggi Edizioni, figlio di Antonio, pugliese, giornalista, e di Dana, maestra, ceca di Ostrava, allora ancora Cecoslovacchia, è figlio della volontà di riannodare la memoria perduta.
La dice così. E “La memoria perduta” potrebbe essere il titolo di un libro, il suo libro, se mai lo scriverà. Per ora pubblica quelli degli altri. E oggi ha sul tavolo l’ultima fatica-follia-avventura data alle stampe, definita «la nostra più grande impresa editoriale». Esce a metà di questa settimana: “Ore di piombo” di Radka Denemarková, poetessa, drammaturga, traduttrice, una delle intellettuali più ascoltate della Repubblica Ceca. Un libro fiume, anzi mare, anzi oceano: 928 pagine scritte in cinque anni tra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum. Tre anni ha impiegato per tradurlo Laura Angeloni, che ne parla come di un classico contemporaneo che passerà alla storia e confida di aver vissuto, mentre era dentro l’opera, quasi in un’altra dimensione.
E un’altra dimensione è quella della Cina raccontata dal libro: cultura, politica, tradizioni, contrasti. «L’autrice tenta di raccontare con tutta la forza espressiva della letteratura il nuovo secolo cinese – spiega De Vito – Descrivendo quella società, ci fa riflettere su come siamo noi. La protagonista è una scrittrice affascinata dalla Cina che incontra diversi personaggi dai nomi simbolici. Quando scopre che l’essenza di quel paese è nel pensiero di Confucio, compreso l’autoritarismo che unisce e omogenizza tutto, capisce molto di più i cliché, i vizi e le contraddizioni della vecchia Europa. Essendo una donna dell’Est, cioè una persona che ha recuperato la libertà da poco, ritrova in molti nostri atteggiamenti gli stessi modi autoritari e non umani di cui spesso accusiamo gli altri».
Un romanzo non tanto sulla Cina, ma con la Cina, che racconta di noi. Bisogna affrontarlo come quando ti attrezzi per un viaggio lontano, incline alle scoperte. «È una lettura impegnativa che apre a prospettive diverse. Non ti lascia accomodato nella tua comfort zone. Altrimenti che viaggio sarebbe? Tanto vale rimanere a casa». A questo libro, il ventiduesimo della collana di letteratura ceca, e in genere al lavoro di editore, che è uno in grado di ascoltare e far viaggiare per il mondo le storie degli altri, Alessandro De Vito è arrivato recuperando le tessere della memoria familiare. «È una storia articolata – spiega – Mio padre era figlio di un falegname emigrato a Torino, che in Puglia nel 1924 ha fondato una sezione del Partito Comunista. Mentre i miei nonni cechi erano borghesi e, prima, hanno subito l’invasione nazista e poi hanno vissuto sotto la dittatura comunista, quindi erano feroci anticomunisti. I miei si sono conosciuti in Bulgaria, sul Mar Nero. Si sono visti un paio di volte e nel 1969 si sono sposati. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un mese d’estate l’ho trascorso dai nonni a Ostrava. Ho smesso di andarci a vent’anni e ho perso completamente la lingua ceca».
Altri vent’anni sono passati prima che la recuperasse. «E accaduto verso il 2009, quando ho iniziato a interessarmi di letteratura». Prima ha fatto altro. Si è iscritto a Legge, ma presto finisce fuori corso. Dopo quattro anni molla gli studi e va a lavorare in un circolo Arci di Grugliasco, in cucina. Poi torna all’università, a Lettere però. E nel 2000 si laurea in Storia del cinema con una tesi sulle Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta. «È stato un primo recupero dell’identità ceca. Comunque, vado a lavorare in una cooperativa sociale. Solo dopo una decina d’anni, quando con gli amici Fabio Mendolicchio e Davide Reina già cercavamo di lavorare nel mondo editoriale e poi abbiamo deciso di fondare la nostra casa editrice, soltanto allora ho rimesso insieme le mie radici».
È così che nel 2016, alle collane di narrativa italiana e narrativa straniera, si affianca quella di narrativa ceca. Nel lavoro di editore. che consiste nel leggere, scegliere, curare storie e coltivare idee in forma di libri, De Vito ricompone il mosaico delle sue storie personali e delle sue geografie. Il modo in cui guida la casa editrice può essere riassunto da ciò che Radka Denemarková dice del suo romanzo: «Ho voluto metterci l’essenza di tutto ciò che sono riuscita a capire di questo mondo. Ma forse, soprattutto, ciò che non avevo capito». È così che si va avanti, a far libri e a vivere: si continua a ricercare.
La civiltà in parole: “La vita ti scaglia addosso i suoi temi con violenza. Le parole che in Europa piovono da ogni dove non significano niente. Le parole che in Cina si pesano su bilance minuscole significano vita o morte”.
Un riparo insalubre: “Rifiutare il senso di protezione in cui ti culla l’ignoranza, questo è il fine; l’ignoranza è una strategia di sopravvivenza, la più efficace”.
La saggezza del Maestro: “La via è ciò da cui, neanche per un istante, ci si può allontanare. Se fosse possibile allontanarsi da essa, non sarebbe la via”.
È in libreria dal 30 Ottobre Ore di piombo di Radka Denemarková (Miraggi edizioni 2024 pp. 928, € 36, con traduzione dal ceco di Laura Angeloni).
L’autrice è una delle più note scrittrici ceche contemporanee e una delle voci politiche più apprezzate del paese. Ha studiato letteratura tedesca e boema all’Università Karlova di Praga ed è ricercatrice presso l’Istituto di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca. Altri libri pubblicati in italiano sono: I soldi di Hitler(Keller, 2012) e Contributo alla storia della gioia (Sovera, 2018), entrambi tradotti da A. Zavettieri.
Ore di piombo è un romanzo che ci aiuta a comprendere la Cina di oggi, ma che forse ci farà scoprire ancora di più su ciò che siamo noi e la nostra Europa.
Un romanzo straordinario che non solo ci offre una finestra sulla Cina contemporanea, ma che potrebbe rivelarci ancor di più su chi siamo noi e sulla nostra Europa.
Una galleria di personaggi simbolici -un imprenditore ceco con la moglie e la figlia adolescente, un Diplomatico, un Programmatore, una Studentessa americana, un Amico, una Ragazza cinese-intrecciano le loro vite nel cuore della Cina.
Animati dal desiderio di una nuova esistenza, libera dai traumi del passato e dai pesi familiari, si ritrovano però intrappolati in ruoli che sembrano predestinati, guardiani di un ordine immutabile. Un Occidente soggiogato dal mito del profitto si fonde con un Oriente dalle radici antiche, entrambi fondati su un capitalismo “dispotico”. Personaggi fiabeschi, come due gatti filosofi, la gazza azzurra e i corvi, arricchiscono il racconto, mentre le esili voci dei dissidenti, i non rieducabili, sono sempre più emarginate, minacciate, punite, eliminate.
Le vicende dei protagonisti si intrecciano e sono pervase dalla presenza di Scrittrice, un’eroina dei nostri tempi, convinta sostenitrice dei valori democratici e dei diritti civili. Il suo influsso su ciascuno di loro è profondo, talvolta con conseguenze fatali. Ognuno vive una frattura personale che rispecchia quella collettiva: il vecchio mondo europeo è giunto a un punto di non ritorno, e l’intera società sta attraversando la sua “ora di piombo”, un’epoca di apatia rassegnata, frenesia vana, asservimento a un consumismo sfrenato.
In questo imponente romanzo, l’autrice esplora a fondo i due mondi, mescolando con maestria citazioni di Confucio, Havel e altri pensatori, nell’incontro-scontro tra culture apparentemente distanti eppure ormai così simili, smarrite in una globalizzazione che amplifica i loro aspetti peggiori.
Qui nessuno esprime la sua opinione. Qui valgono solo le opinioni collettive… l’ignoranza è una strategia di sopravvivenza, la più efficace…La Cina è sorriso e pazienza».
La scrittrice ceca Radka Denemarková ambienta in Cina una rappresentazione globale delle nevrosi contemporanee in un originale e fluviale romanzo da 900 pagine che da Praga ci porta a Pechino, attraverso le vite e gli incontri di personaggi simbolici: Scrittrice (l’eroina del racconto), Program-matore, Imprenditore, Diplomatico, Amico, Studentessa americana, Ragazza cinese, Madre cinese, i Dissidenti non rieducabili, i Gatti filosofi ed altri animali, come nelle fiabe.
Il libro si intitola Ore di piombo, è tradotto da Laura Angeloni, ed esce dall’editore Miraggi nella collana NováVIna che prende il nome dalla Nouvelle Vague della Primavera di Praga. Entrano in questo esercizio letterario citazioni di Václav Havel, il poeta-presidente della resurrezione nazionale post 1989, e continui riferimento a Confucio, in una tradizione che nemmeno la rivoluzione culturale aveva intaccato: «In cima alla piramide c’è l’ubbidienza ai genitori… Ogni politico, ogni imprenditore, giura devozione all’altissimo Segretario del Partito Comunista… I cinesi l’ubbidienza ce l’hanno nelle ossa… La Cina è la caricatura della disperazione degli ex detenuti appena usciti dal carcere». Si respira lo humour nero e surreale degli scrittori cechi, poesia, invenzione, la denuncia cruda delle ipocrisie europee sulla violazione dei diritti umani: «L’Occidente finanzia con molta generosità tutto cio che si accompagna all’aggettivo tibetano, soprattutto se ha a che fare con monaci, pratiche di guarigione, artisti, misticismo. Ma non è disposto ad appoggiare i tibetani nella loro battaglia contro i cinesi per la liberazione del Tibet». La Cina – dice Scrittrice – si sta comprando il mondo.
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