ignificati inaccessibili solcano le pagine di Ore di piombo, colossale, coraggiosa e inesorabile opera di Radka Denemarková. Un libro con un destino, intessuto di simboli, visionario, complesso e affascinante, intriso di rara purezza. “È possibile vivere e scrivere allo stesso tempo?” si chiede l’autrice. Un contrasto apparentemente insanabile. “Scrivere, l’incessante attività della sua mente, è una stretta passerella sopra la voragine”. Per farlo, forse, occorre vivere “in un duplice tempo, in un duplice mondo”. Dicotomia simboleggiata dal grido lacerante della gazza azzurra, condannata a soffrire per ciò che è destinata a vedere, e dalla cecità della cornacchia nera, alla quale hanno fatto il lavaggio del cervello. Denemarková si muove in equilibrio su un abisso. Da un lato Praga, dall’altro Pechino. Nel mezzo un filo sottilissimo e periglioso. La sua scrittura assume forme inconsuete nel tentativo, perfettamente riuscito a nostro avviso, di fornire al testo pregnanza polisemica.
Entrare in un’altra cultura è quanto di più arduo si possa immaginare. Forte di un universo interiore di inconsueta profondità e di un’esperienza diretta sul campo, Denemarková – Scrittrice nel libro – indaga le dinamiche che muovono la società cinese per riflettere sul mondo contemporaneo. L’ambientazione “esotica” intride di fascino la narrazione, dietro l’atmosfera fiabesca il libro è ben radicato nel reale. L’autrice ha vissuto in prima persona il totalitarismo. La Cina di oggi, come la Cecoslovacchia sovietica, è un luogo nel quale nessuno esprime la propria opinione e, quando si azzarda a farlo, ne paga le conseguenze con il sangue, come è accaduto in Piazza Tienanmen; un Paese dove le intercettazioni sono sempre più sofisticate, dove “il sistema legale difende solo coloro i cui profitti lievitano”. “La Cina è un campo di concentramento dai confini impermeabili”. Denemarková ricorda la primavera di Praga, soffocata dai carri sovietici, eppure c’è ancora chi pensa di aver assistito a una liberazione, e non a un’occupazione. Riflessioni che possono applicarsi all’attuale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. “La propaganda è una menzogna collettiva e le calunnie collettive non c’è modo di estirparle”.
A tal punto arriva la manipolazione delle menti. In una realtà in cui l’unica virtù è l’obbedienza, l’accettazione acritica, le persone non rieducabili vengono estromesse e annientate con il sospetto e la calunnia. Il controllo delle menti è anche manipolazione dei corpi. Ai condannati vengono espiantati gli organi. “Una voce legge davanti al corpo mutilato la sentenza”. Il sistema indirizza la vita privata. Il governo cinese detta il numero dei figli, e quindi le dinamiche familiari. Di tutto questo la donna è vittima, schiacciata da un modello patriarcale che non le lascia spazio, né le riconosce dignità.
L’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori è un fardello arduo da sopportare, in quanto mortifica qualsiasi speranza. Il libro non resta confinato a un singolo angolo geografico, per quanto immenso, ma è caratterizzato da una continua erranza, anche temporale, che ci trasporta dalle lande del lontano oriente ai paesaggi dell’Europa dell’est, dal passato al presente. Gli anni Novanta appaiono come un’orgia di potere, dominata dall’ossessione del comando e del denaro. Città elefantiache e impersonali, coperte da una perenne coltre di smog, racchiudono esseri sbiaditi, privi di personalità. Le tecnologie moderne, sempre più sofisticate, intossicano gli uomini finché questi non riescono più a distinguere fra gioco e realtà.
Stilisticamente il linguaggio ricchissimo, potente e visionario, così come le prospettive illimitate, possono ricordare gli universi barocchi creati da Vollmann. Il libro è un romanzo con derive saggistiche, pregno di riflessioni sulla politica, sulla natura del linguaggio e sulla calligrafia, un mondo di enorme vastità nel quale perdersi. La Cina è uno specchio dove vediamo riflesse le nostre paure, i nostri dubbi, le contraddizioni che lacerano la realtà in cui viviamo. Le tematiche della modernità si addensano in un affresco di enorme complessità. L’architettura stratificata, labirintica della narrazione addita le lacerazioni e i mutamenti che scuotono il nostro pianeta. Quali saranno gli esiti e le conseguenze, quando passeranno le ore di piombo evocate dal titolo, è l’interrogativo principale del libro. “La letteratura è la chiave per arrivare alle vite degli altri”. La parola è un’arma potente. Per questo i libri considerati nocivi vengono tratti al rogo, per questo libraie appassionate vengono torturate e offese, per mortificare ogni anelito libertario.
La Cina appare come un disumano meccanismo kafkiano, oppressivo e avido, mentre gli individui svaporano in un nulla colmo di apatia. Anche l’Europa si sta sgretolando, aggredita dalla paura. Le persone sono terrorizzate, i cuori anestetizzati dal capitalismo sfrenato. La divisione fra noi e loro impedisce qualsiasi forma di comunicazione con l’altro. “Si ripete un modello che ha funzionato nel corso di tutta la storia umana. La disumanizzazione”. Con grande coraggio Denemarková vuole dire tutto, desidera attingere alla verità, è stanca di tacere, perché anche il silenzio è menzogna. La cornacchia nera cava gli occhi alla gazza azzurra, incarnazione dell’anima inquieta dei defunti. Esiste la vita ed esiste la morte, e poi c’è la non vita a minacciare il nostro tormentato presente.
La ceca Radka Denemarková costruisce un romanzo fluviale su più piani narrativi che è un atto d’accusa contro i totalitarismi.
La Cina è uno splendido campo di concentramento dal confini impermeabili, la Cina e un giardino fiorito, e non è una contraddizione», grida un’artista nel corso di uno del tanti incontri del peculiare diario di viaggio nell’anima dell’Europa e nell’anima di un pezzo d’Asta» di Scrittrice, la protagonista del ro manzo Le ore di piombo, Radka Denemarková, apprezzata intellettuale ceca, non sfuggite certo i temi controversi. Versatile autrice che vuole «svincolarsi dalle catene della mia lingua, del mio sesso, del mio Paese e della mia epoca », Denemarková è una delle voci più originali dell’attuale letteratura ceca. Arriva ora nelle librerie il violento atto d’accusa Le ore di piombo, con cui Denemarková ha vinto nel 2019, per la quarta vol-ta, il più importante premio letterario ceco, Magnesia Litera. Monumentale alfresco narrativo traboccante di riferimenti culturali, Il romanzo riprende nel titolo una poesia di Emily Dickinson sui momenti fatali che trasformano i destini individuali. Fatale ha del resto un duplice significato: il piombo è una sostanza che avvelena lentamente. Denemarková stessa ne ha paragonato la scrittura alla costruzione di un tempio. Le ore di piombo è un ro manzo che ricorda l’arte raffinata della calligrafia cinese. L’ampiezza e la densità del testo hanno rappresentato una sfida editoriale vinta sia per l’editore che per l’ammirevole traduttrice.
Abbiamo di fronte un’opera che si dilata nello spazio e nel tempo, basata sulle vicende di una serie di personaggi che esplorano variazioni esistenziali della stessa situazione: Scrittrice, Programmatore, sua moglie e la figlia Olivie, Amico, Marziano e la sua famiglia, Diplomati-co, Ragazza Cinese e Madre Cinese, Avvocato, Studentessa America-na, Pittore, Arrampicatore. Sulle pagine del romanzo si dipanano sotto lo sguardo attento della polizia segreta cinese, ambigui e spesso patologici legami, piccoli intrighi quotidiani e scambi di parole prive di contenuto. Il destino di questi lugubri personaggi è quello ti trovarsi di fronte alla loro ora del la verità, che per qualcuno porterà a scene di violenza familiari o alla fuga verso oriente, per altri alla dittatura dei rituali domestici o anche a un braccialetto spia. Più che un romanzo sulla Cina, abbiamo di fronte uno specchio, una luce sconsolata puntata sul labirinto di rap porti servili che legano gli europei alla Cina, che spesso mascherano solo sete di profitto.
E possibile resistere in «un’epoca in cui qualcosa di essenziale sì sta sfaldando e trasformando»? È giunta per la cultura europea l’ora fatale? Di fronte all’onnipresente paura della società cinese torna attuale la questione della battaglia spesso vana contro la propaganda (anche russa) e in favore dei diritti umani, qui personificata dal lascito ideale di Václav Havel. Dopo ripetuti soggiorni a Pechino, certo non sorprende che l’autrice sia stata bandita dal Paese per i suol contatti con la locale scena dissidente del manifesto Charta 08, che si rt-collegava alla cecoslovacca Charta 77. In quella che è forse la più inquietante linea narrativa del romanzo, per colpa di Scrittrice quest’eredità contagia Ragazza Cinese, ma la sua rivolta conduce solo alla sua esecuzione, dopo l’asportazione del reni, merce pregiata sul mercato nero degli organi. La persecuzione dei “non rieducabili” come lei si svolge davanti all’indifferenza generale, rimarcata dalle reiterate conversazioni da salotto de gli europei che contano: «Gradisce un altro bicchiere? E la sua prima volta in Cina? Com’è andato il volo? Le piace la Cina?-. In questo squallido panorama di maschi predatori e donne superficiali sembra no tutti concentrati sulla propria scalata sociale, Tra le pochissime eccezioni, Olivia e David, giovani outsider sui quali si riflettono le malattie del presente. Sulla propria pelle vivono invece la minaccia alla libertà le gazze azzurre che combattono nei cieli una battaglia impari con le cornacchie nere (‘on-nipresente polizia segreta?), e il gatto millenario Arancio e il suo discepolo Mansur, che attraversano la storia, osservando i travagli dell’uomo con sempre maggiore disincanto.
Radka Denemarková descrive un’umanità moribonda, che avreb be urgente «bisogno di una trasfusione» perché «nel suo sangue circolano liberamente i virus dell’anti-semitismo e del razzismo. La narrazione avanza per microsituazioni, per accumulazione di storie, ognuna delle quali avrebbe potuto rappresentare materiale sufficiente per una novella. Anche per questo Scrittrice può affermare a buon diritto che «probabilmente non troverò mai più l’energia per scrivere un libro come questo».
Alessandro De Vito pubblica il libro fiume della poetessa e drammaturga Radka Denemarková scritto fra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum.
È tutta una questione di recupero di memorie. Poi però bisogna intendersi sul significato di ricordo e di memoria, e anche sull’uso del singolare o del plurale. Quello che adesso fa Alessandro De Vito, 53 anni, fondatore nel 2010 di Miraggi Edizioni, figlio di Antonio, pugliese, giornalista, e di Dana, maestra, ceca di Ostrava, allora ancora Cecoslovacchia, è figlio della volontà di riannodare la memoria perduta.
La dice così. E “La memoria perduta” potrebbe essere il titolo di un libro, il suo libro, se mai lo scriverà. Per ora pubblica quelli degli altri. E oggi ha sul tavolo l’ultima fatica-follia-avventura data alle stampe, definita «la nostra più grande impresa editoriale». Esce a metà di questa settimana: “Ore di piombo” di Radka Denemarková, poetessa, drammaturga, traduttrice, una delle intellettuali più ascoltate della Repubblica Ceca. Un libro fiume, anzi mare, anzi oceano: 928 pagine scritte in cinque anni tra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum. Tre anni ha impiegato per tradurlo Laura Angeloni, che ne parla come di un classico contemporaneo che passerà alla storia e confida di aver vissuto, mentre era dentro l’opera, quasi in un’altra dimensione.
E un’altra dimensione è quella della Cina raccontata dal libro: cultura, politica, tradizioni, contrasti. «L’autrice tenta di raccontare con tutta la forza espressiva della letteratura il nuovo secolo cinese – spiega De Vito – Descrivendo quella società, ci fa riflettere su come siamo noi. La protagonista è una scrittrice affascinata dalla Cina che incontra diversi personaggi dai nomi simbolici. Quando scopre che l’essenza di quel paese è nel pensiero di Confucio, compreso l’autoritarismo che unisce e omogenizza tutto, capisce molto di più i cliché, i vizi e le contraddizioni della vecchia Europa. Essendo una donna dell’Est, cioè una persona che ha recuperato la libertà da poco, ritrova in molti nostri atteggiamenti gli stessi modi autoritari e non umani di cui spesso accusiamo gli altri».
Un romanzo non tanto sulla Cina, ma con la Cina, che racconta di noi. Bisogna affrontarlo come quando ti attrezzi per un viaggio lontano, incline alle scoperte. «È una lettura impegnativa che apre a prospettive diverse. Non ti lascia accomodato nella tua comfort zone. Altrimenti che viaggio sarebbe? Tanto vale rimanere a casa». A questo libro, il ventiduesimo della collana di letteratura ceca, e in genere al lavoro di editore, che è uno in grado di ascoltare e far viaggiare per il mondo le storie degli altri, Alessandro De Vito è arrivato recuperando le tessere della memoria familiare. «È una storia articolata – spiega – Mio padre era figlio di un falegname emigrato a Torino, che in Puglia nel 1924 ha fondato una sezione del Partito Comunista. Mentre i miei nonni cechi erano borghesi e, prima, hanno subito l’invasione nazista e poi hanno vissuto sotto la dittatura comunista, quindi erano feroci anticomunisti. I miei si sono conosciuti in Bulgaria, sul Mar Nero. Si sono visti un paio di volte e nel 1969 si sono sposati. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un mese d’estate l’ho trascorso dai nonni a Ostrava. Ho smesso di andarci a vent’anni e ho perso completamente la lingua ceca».
Altri vent’anni sono passati prima che la recuperasse. «E accaduto verso il 2009, quando ho iniziato a interessarmi di letteratura». Prima ha fatto altro. Si è iscritto a Legge, ma presto finisce fuori corso. Dopo quattro anni molla gli studi e va a lavorare in un circolo Arci di Grugliasco, in cucina. Poi torna all’università, a Lettere però. E nel 2000 si laurea in Storia del cinema con una tesi sulle Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta. «È stato un primo recupero dell’identità ceca. Comunque, vado a lavorare in una cooperativa sociale. Solo dopo una decina d’anni, quando con gli amici Fabio Mendolicchio e Davide Reina già cercavamo di lavorare nel mondo editoriale e poi abbiamo deciso di fondare la nostra casa editrice, soltanto allora ho rimesso insieme le mie radici».
È così che nel 2016, alle collane di narrativa italiana e narrativa straniera, si affianca quella di narrativa ceca. Nel lavoro di editore. che consiste nel leggere, scegliere, curare storie e coltivare idee in forma di libri, De Vito ricompone il mosaico delle sue storie personali e delle sue geografie. Il modo in cui guida la casa editrice può essere riassunto da ciò che Radka Denemarková dice del suo romanzo: «Ho voluto metterci l’essenza di tutto ciò che sono riuscita a capire di questo mondo. Ma forse, soprattutto, ciò che non avevo capito». È così che si va avanti, a far libri e a vivere: si continua a ricercare.
La civiltà in parole: “La vita ti scaglia addosso i suoi temi con violenza. Le parole che in Europa piovono da ogni dove non significano niente. Le parole che in Cina si pesano su bilance minuscole significano vita o morte”.
Un riparo insalubre: “Rifiutare il senso di protezione in cui ti culla l’ignoranza, questo è il fine; l’ignoranza è una strategia di sopravvivenza, la più efficace”.
La saggezza del Maestro: “La via è ciò da cui, neanche per un istante, ci si può allontanare. Se fosse possibile allontanarsi da essa, non sarebbe la via”.
È in libreria dal 30 Ottobre Ore di piombo di Radka Denemarková (Miraggi edizioni 2024 pp. 928, € 36, con traduzione dal ceco di Laura Angeloni).
L’autrice è una delle più note scrittrici ceche contemporanee e una delle voci politiche più apprezzate del paese. Ha studiato letteratura tedesca e boema all’Università Karlova di Praga ed è ricercatrice presso l’Istituto di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca. Altri libri pubblicati in italiano sono: I soldi di Hitler(Keller, 2012) e Contributo alla storia della gioia (Sovera, 2018), entrambi tradotti da A. Zavettieri.
Ore di piombo è un romanzo che ci aiuta a comprendere la Cina di oggi, ma che forse ci farà scoprire ancora di più su ciò che siamo noi e la nostra Europa.
Un romanzo straordinario che non solo ci offre una finestra sulla Cina contemporanea, ma che potrebbe rivelarci ancor di più su chi siamo noi e sulla nostra Europa.
Una galleria di personaggi simbolici -un imprenditore ceco con la moglie e la figlia adolescente, un Diplomatico, un Programmatore, una Studentessa americana, un Amico, una Ragazza cinese-intrecciano le loro vite nel cuore della Cina.
Animati dal desiderio di una nuova esistenza, libera dai traumi del passato e dai pesi familiari, si ritrovano però intrappolati in ruoli che sembrano predestinati, guardiani di un ordine immutabile. Un Occidente soggiogato dal mito del profitto si fonde con un Oriente dalle radici antiche, entrambi fondati su un capitalismo “dispotico”. Personaggi fiabeschi, come due gatti filosofi, la gazza azzurra e i corvi, arricchiscono il racconto, mentre le esili voci dei dissidenti, i non rieducabili, sono sempre più emarginate, minacciate, punite, eliminate.
Le vicende dei protagonisti si intrecciano e sono pervase dalla presenza di Scrittrice, un’eroina dei nostri tempi, convinta sostenitrice dei valori democratici e dei diritti civili. Il suo influsso su ciascuno di loro è profondo, talvolta con conseguenze fatali. Ognuno vive una frattura personale che rispecchia quella collettiva: il vecchio mondo europeo è giunto a un punto di non ritorno, e l’intera società sta attraversando la sua “ora di piombo”, un’epoca di apatia rassegnata, frenesia vana, asservimento a un consumismo sfrenato.
In questo imponente romanzo, l’autrice esplora a fondo i due mondi, mescolando con maestria citazioni di Confucio, Havel e altri pensatori, nell’incontro-scontro tra culture apparentemente distanti eppure ormai così simili, smarrite in una globalizzazione che amplifica i loro aspetti peggiori.
Qui nessuno esprime la sua opinione. Qui valgono solo le opinioni collettive… l’ignoranza è una strategia di sopravvivenza, la più efficace…La Cina è sorriso e pazienza».
La scrittrice ceca Radka Denemarková ambienta in Cina una rappresentazione globale delle nevrosi contemporanee in un originale e fluviale romanzo da 900 pagine che da Praga ci porta a Pechino, attraverso le vite e gli incontri di personaggi simbolici: Scrittrice (l’eroina del racconto), Program-matore, Imprenditore, Diplomatico, Amico, Studentessa americana, Ragazza cinese, Madre cinese, i Dissidenti non rieducabili, i Gatti filosofi ed altri animali, come nelle fiabe.
Il libro si intitola Ore di piombo, è tradotto da Laura Angeloni, ed esce dall’editore Miraggi nella collana NováVIna che prende il nome dalla Nouvelle Vague della Primavera di Praga. Entrano in questo esercizio letterario citazioni di Václav Havel, il poeta-presidente della resurrezione nazionale post 1989, e continui riferimento a Confucio, in una tradizione che nemmeno la rivoluzione culturale aveva intaccato: «In cima alla piramide c’è l’ubbidienza ai genitori… Ogni politico, ogni imprenditore, giura devozione all’altissimo Segretario del Partito Comunista… I cinesi l’ubbidienza ce l’hanno nelle ossa… La Cina è la caricatura della disperazione degli ex detenuti appena usciti dal carcere». Si respira lo humour nero e surreale degli scrittori cechi, poesia, invenzione, la denuncia cruda delle ipocrisie europee sulla violazione dei diritti umani: «L’Occidente finanzia con molta generosità tutto cio che si accompagna all’aggettivo tibetano, soprattutto se ha a che fare con monaci, pratiche di guarigione, artisti, misticismo. Ma non è disposto ad appoggiare i tibetani nella loro battaglia contro i cinesi per la liberazione del Tibet». La Cina – dice Scrittrice – si sta comprando il mondo.
Tornare a casa, prendere tre bottiglie di birra rossa forte, trovare il modo per imbottigliare un passato che non vuole saperne di essere dimenticato. Svegliarsi di soprassalto per la rottura della vetrina di un negozio di computer. Ladri che fuggono. Insonnia. Scendere, andare in un bar aperto tutta la notte. Ancora birra. La sigaretta come un catalizzatore che riavvolge il cinema della memoria. Martin è di nuovo nell’acciaieria dal nome poco originale di Nová Hut’, la fatica, i turni inumani, il calore estremo, il nero e il giallo della “Nová svoboda”, quella “Nuova libertà” dell’impero sovietico che sa molto di prigionia. Gli aguzzini sono quei russi senza volto che eppure sembrano essere dappertutto, capillarmente, in ogni aspetto della vita ceca. Tuttavia nella vita di Martin c’è Eva, più simile a una visione che a una realtà, una boccata d’ossigeno nell’atmosfera soffocante di coke e carbone. Allora fuggire da quel mondo “giallonero” diventa un’esigenza vitale, una questione di sopravvivenza e la fuga nel privato domestico non è più sufficiente a garantire quel minimo spazio vitale che permette di non crepare nella solitudine. Quello che restano sono i piccoli, inutili gesti di ribellione, come chiamare il ristorante Stalingrad “U Hitlera” (“Da Hitler), nonostante i professori di storia cerchino di soffocare ogni parallelismo tra i due tiranni…
Il romanzo di Jan Balabán è avvolto fin dall’inizio da un senso di spaesamento che arriva al lettore in modo concreto fin dalle prime pagine. Aprendo il libro a pagina 5 ci si trova infatti davanti al titolo “Diciannovesimo”. Chi legge cercherà invano errori di impaginazione o di allestimento: il diciannovesimo è davvero il primo capitolo, segno di un inizio in medias res che è come un salto per tuffarsi nel passato lontano. La vita di Martina è sospesa su un filo, da una parte il comunismo, con il suo conformismo, con le sue vite standardizzate da un’industrializzazione violenta e soffocante e con le sue ribellioni di gioventù, dall’altra una società post sovietica incerta nelle sue fumose promesse. Nei ricordi di Martin affiorano luoghi, fatti e personaggi, come il compagno di scuola Tonda Gona, che da bambino soffrì ogni forma di umiliazione da parte della sua docente. Insegnante Piskalová che gode dell’impunità dell’oblio perché “Gli insegnanti cattivi hanno la fortuna che i bambini rimuovono la crudeltà dei momenti di umiliazione nelle stanze oscure della loro anima”. Tonda Gona diventa così un personaggio tragico, al punto da diventare Tonda Antigone, in un lungo monologo che rivela come tutte le promesse del regime siano in realtà un terrificante tradimento. Martin si spinge oltre e denuncia come illusori tutti i regimi, siano essi capitalisti, comunisti, russi, tedeschi, austriaci o ebrei (sic). Il libro di Balabán è un gioco al massacro in cui la posta in gioco è la vita di un’intera generazione, passata in attesa del “passaggio dell’angelo”, quell’unico momento di riscatto che si può perdere o cogliere al volo. La prosa è densa, ricca di riferimenti alla storia e alla letteratura ceca, ma fortunatamente un apparato di note non invasivo aiuta a non perdere la bussola. Un romanzo dolceamaro per chi voglia capire qualcosa di più dei paesi che sono stati all’ombra opprimente dell’Unione sovietica.
Il viaggio ferroviario, potente metafora dell’esistenza che potrebbe richiamare alla mente Moska-Petuškì di Venedikt Erofeev, o ancora La freccia gialla di Pelevin, fornisce il ritmo narrativo a Io sono l’abisso, prima opera di Lucie Faulerová a essere tradotta in Italia. Una scrittura onnivora, densa, carnale e affabulatrice non immemore della peculiare esperienza poetica di Hrabal; una sorta di monologo joyciano nel quale la parola scandaglia il reale con implacabile lucidità. Pensieri e ricordi si susseguono, trovano corrispondenze analogiche in un flusso travolgente e ininterrotto. Una confessione di estrema crudezza, ma anche percorsa da un afflato profondamente umano e mitigata da un umorismo tipicamente ceco.
Il titolo italiano proviene da un brano estratto dall’interno del testo, ed evoca inquietudini mitteleuropee. Se, come scrive Thomas Bernhard, “i nostri interlocutori cercano sempre di spingerci contemporaneamente in tutti i possibili abissi”, Faulerová espone al nostro sguardo le prospettive più vertiginose della propria anima. Il titolo originale, che letteralmente significa Ragazzamorte, ci introduce in una realtà costantemente sull’orlo del baratro. Tirando fuori dall’acqua un fantoccio che rappresenta Morana, la dea della morte nella mitologia slava, la protagonista Marie compie un gesto di sfida, una ribellione nei confronti dell’incomprensibile. Le continue allusioni alle differenti modalità del suicidio pongono l’accento sugli aspetti pratici e crudi del gesto. Residui del mondo infantile balenano nella narrazione.
La protagonista vorrebbe imparare a scomparire, come un mago, per scoprire il segreto dell’esistenza. Svegliarsi a volte è piacevole, perché si resta per un istante sulla soglia del nulla. La visita al planetario pone interrogativi impossibili sull’universo. “Il serbatoio di domande e misteri era inesauribile”, scrive Faulerová. “Dio misericordioso, quanti misteri ci sono al mondo”, scrive dal canto suo Erofeev. Anche l’individualità, sempre sul punto di sgretolarsi, appare un enigma. “Ma io chi sono da sola?”, si chiede Marie cercando di collocarsi in prospettiva con gli altri. Il suo cercare un contatto fisico nella folla anonima è un gesto per affermare la propria esistenza. Il nulla è una minaccia costante. La paura è quella di svanire, come la ripresa illeggibile di una telecamera di sorveglianza. “Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono soltanto un’imitazione”, si chiede angosciata la protagonista.
Il viaggio si rivela faticoso, fantasmagorico, irto di immagini speculari e prospettive illusorie che confondono i sensi. Le facili teorie, che presumono di avere una spiegazione per tutto, vengono demolite con corrosiva ironia. Il senso di colpa per non aver saputo impedire il suicidio della sorella e le tragiche vicende familiari sono l’occasione per una narrazione totalizzante sul senso dell’esistenza. Decidere se cercare di sopravvivere, a qualunque costo, o punirsi lentamente, o farla finita per sempre è un dilemma che lacera la coscienza. “Ed è come se avessero tirato via la tovaglia dentro di me, e tutti i piatti cadessero a terra frantumandosi in milioni di minuscoli cocci”, una immagine magnifica che ben definisce la peculiare voce di Faulerová, la sua capacità di far presentire la fragilità, il carattere effimero della nostra esistenza.
“A Madla ci penso ininterrottamente. Un binario cieco. Un tunnel senza fine. La pagina vuota di un libro”. L’assenza della sorella risuona in ogni parola di Marie, la protagonista di Io sono l’abisso, che isolata da tutto e da tutti cerca a fatica di uscire da un mondo di cicatrici, ferite e “dolori fantasma”.
Se già il romanzo di debutto, Gli acchiappapolvere (2017), non era passato inosservato, con Smrtholka, del 2020, la giovane scrittrice ceca Lucie Faulerová (1989) ha vinto il prestigioso premio Magnesia Litera e il premio dell’Unione Europea per la letteratura. Il titolo ceco suonerebbe alla lettera “Ragazzamorte”, uno dei nomi della dea Morana, tradizionalmente legata ai riti primaverili della rinascita. Per la difficoltà di trovare un efficace equivalente è stato cambiato in uno dei pensieri ricorrenti della protagonista: “l’abisso è lì, vedo l’abisso, l’abisso vede me, l’abisso è in me, io sono l’abisso”.
Pubblicato nell’empatica traduzione di Laura Angeloni, fedele e inventiva traghettatrice di gran parte della letteratura ceca recente, questo romanzo prosegue il meritorio lavoro portato avanti dall’editore Miraggi. Nella collana “Nová vlna” (il rimando è alla celebre nouvelle vague del cinema ceco degli anni ’60) sono stati pubblicati in sei anni 21 volumi, in maggioranza di autori contemporanei, ma con grande attenzione alle scrittrici. Questa notevole letteratura al femminile, che nel caso della Faulerová è legata anche a una forma narrativa originale, è ancora troppo poco nota fuori dalla Repubblica Ceca.
Io sono l’abisso è il resoconto di un lungo viaggio in treno, con l’intera vita della protagonista che scorre davanti al finestrino: è una partenza o un ritorno a Carogna, il paesino da cui è scappata? Tutto ciò che ci viene raccontato si svolge davanti ai nostri occhi, anche gli episodi del passato, come se gli scompartimenti del treno rappresentassero stanze della memoria, che ci vengono aperte da una narratrice non sempre affidabile. Il movimento del treno determina il ritmo. Le espressioni onomatopeiche, che riflettono i rumori della locomotiva e degli scambi, danno vita a una raffinata tessitura linguistica, sottoposta a continue accelerazioni e rallentamenti, nell’estenuante tentativo di ricostruire un ordine.
Marie ha appena ventitré anni, ha già cambiato facoltà all’università due volte, ma soprattutto ha dovuto fare i conti con la follia della madre e il recente suicidio della sorella, che aveva già combattuto contro un cancro. La realtà frantumata della sua vita riemerge in modo disordinato, solo pian piano acquisisce senso e i tasselli si rimettono insieme. I suoni del treno funzionano come un metronomo della memoria, che oscilla tra i demoni interiori della narratrice e la dolcezza di ricordi ormai lontani.
Ma Io sono l’abisso non è soltanto un romanzo sul dolore, la simbiosi tra la protagonista e la sorella offre all’autrice la possibilità di sviluppare un altro gioco nel gioco. La frequentazione di seminari esoterici di vario tipo, dove “la questione è sempre la stessa: purificarsi, concentrarsi, armonizzarsi”, permette allo stesso tempo di ironizzare goliardicamente, con tutta la spensieratezza della gioventù, sulle questioni essenziali. Lucie Faulerová sa osservare il passato come se fosse un film e il finestrino fosse lo schermo sul quale la memoria può proiettare la vita, tornando a piacere avanti e indietro, alla ricerca dell’istante chiarificatore, che naturalmente non c’è: “La registrazione termina qui, poi non c’è più niente, qualcuno deve aver disconnesso le telecamere di sorveglianza”.
Marie non è mai stata se stessa, si reputa una “parassita”, “una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. Una frase incompiuta”. E al lettore viene progressivamente presentato un quadro di autolesionismo: un dito tagliato, la fronte sbattuta contro lo specchio, una matita colorata nell’occhio, la lingua recisa che la rende quasi muta, metafora anche di un linguaggio che non riesce a esprimere il dolore. Una personalità da ricostruire, che ha abbandonato il padre e il fratello Adam, e sembra più volte sul punto di seguire il destino della sorella Madla: “come sull’orlo di un abisso che a furia di scrutarlo ti scruta dentro lui”.
Marie è oggi una vera esperta in materia di suicidi, conosce macabre statistiche su chi salta da un tetto, cerca di annegare, si impicca, etc., percentuali che cercano invano di rendere comprensibile l’atto della sorella. E di mettere a tacere i propri sensi di colpa e cancellare un ricordo in particolare: il fantoccio di Morana, coperto di paglia su una croce, viene lanciato nel fiume e colpito con i sassi da tutti i bambini del paese. La protagonista invece non lo fa e decide di recuperare il fantoccio e nasconderlo nel bosco: “Ho salvato la morte!”. È quello il momento in cui è iniziato tutto?
Io sono l’abisso è una ricerca, drammatica e poetica allo stesso tempo, del senso della propria vita, della possibilità che Marie possa ancora vivere “in un mondo in cui Madla non c’è”.
Un classico della letteratura ceca scritto nel 1922 e tradotto, dopo più di un secolo, da Andreas Pieralli: «In questo capolavoro di Eduard Bass lo sport è un pretesto narrativo per raccontare di valori positivi quali onestà, passione, determinazione, perseveranza, fratellanza e spirito di sacrificio, così necessari ancora oggi».
Gli invincibili undici di papà Klapzuba. Una storia per grandi e piccini, pubblicato da Miraggi editore, con le illustrazioni originali di Josef Čapek, è il capolavoro del 1922 di Eduard Bass, pseudonimo di Eduard Schmidt, che fu scrittore, giornalista, drammaturgo, attore, cabarettista, cantante e tante altre cose. Nato nel 1888 a Praga, vi morì nel 1946. Gli invincibili è la prima traduzione italiana di Klapzubova jedenáctka, libro ambientato nella neonata Repubblica cecoslovacca, fondata nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale con la dissoluzione dell’Impero Austro-ungarico.
Il libro racconta le straordinarie vittorie, con risultati iperbolici, e le avventure di una squadra di calcio che finisce prigioniera, dopo un naufragio, su un’isola dei cannibali. L’autore guarda anche a Verne e a Defoe. Gli Undici di Klapzuba FC è una squadra composta interamente da fratelli, allenati dal loro papà fin dalle 5 del mattino nel bosco vicino casa, poi sul prato trasformato in campo sportivo vicino la loro “casupola” a Dolní Bukviček, vicino a Kouřim, città reale. Papà Klapzuba è un contadino astuto e un allenatore intransigente, grande fumatore di pipa che per questo particolare mi ha richiamato il grande Bearzot che condusse l’Italia alla vittoria nel Campionato del mondo (diversi suoi calciatori lo consideravano infatti un padre, non un allenatore…).
Dopo più di un secolo di ritardo nella traduzione in Italia di questo classico della letteratura ceca, ho cercato di sapere per quali vie ci si era arrivati; sono riuscito a contattare il traduttore Andreas Pieralli, giornalista ed esperto dell’Europa centrale che collabora alla televisione pubblica ceca e che vive e lavora a Praga. «In realtà – mi ha risposto – la proposta di tradurre questo libro, che non conoscevo, mi arrivò dall’editore, Alessandro De Vito, anche lui traduttore italo-ceco come me. Incuriosito, lo lessi e me ne innamorai immediatamente, e così accettai». Ancora alla domanda sul perché questo libro dovrebbe interessare il pubblico italiano, Andreas ha aggiunto: «Innanzitutto perché è una storia divertente e coinvolgente, che si legge tutta d’un fiato, ambientata nel mondo del calcio, sport così amato nel nostro paese. Inoltre, perché in questo capolavoro di Eduard Bass lo sport è anche un pretesto narrativo per raccontare di valori positivi quali onestà, passione, determinazione, perseveranza, fratellanza e spirito di sacrificio, così necessari ancora oggi. E, infine, perché permette al lettore italiano di avvicinarsi a un periodo storico interessante, quello immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, scoprendo la nascita della nuova Repubblica cecoslovacca di cui, in ultima analisi, la squadra degli 11 di papà Klapzuba non è altro che una felice metafora».
Infatti, gli 11 + 1, poiché il papà, allenatore-contadino, è l’uomo in più in campo che fa la differenza con la sua saggezza e previdenza, vincono non solo per l’abilità tecnica, ma per una virtù fondamentale trasmessagli in famiglia, «la pura e genuina fratellanza» (p. 48). Essi formano un solo fraterno blocco, anzi come viene detto a p. 125, «un unico blocco inaffondabile»: colpiti da una tempesta, al ritorno della partita con l’Australia, da campioni del mondo, si tengono sulla scialuppa «ben saldi l’uno sotto al braccio all’altro», scampando al naufragio grazie a delle tute di gomma gonfiabili. Tute che sono una sorta di mezzo magico fornito in tre situazioni pericolose ai figli da papà Klapzuba che a Berlino, durante una partita, aveva comprato una grande valigia con questi dispositivi. Nel primo caso, il papà, intuendo dalle foto sui giornali che i giocatori del Barcellona volevano azzoppare e mandare all’ospedale tre dei suoi figli-calciatori (che la propaganda spagnola aveva dipinto come dei cattivi «energumeni») fa indossare loro la provvidenziale armatura di gomma, così che i Klapzuba all’ingresso nel campo, con gli immancabili effetti comici, somigliano più a una «squadra di rugby» che di calcio. La seconda volta i Klapzuba, dopo il naufragio del piroscafo Timor nel viaggio di ritorno dalla partita con l’Australia e la successiva distruzione della scialuppa, si salvano coi gusci di gomma gonfiabili che li avevano trasformati in «in dodici bizzarre boe». Nel terzo caso, “la partita di calcio” con i cannibali sull’isola che in cambio della vita, salva solo per i vincitori, si dovrà giocare senza palla ma prendendosi letteralmente a calci, le provvidenziali armature li trasformano in «undici sfere animate» ̶ per i selvaggi la sfera era sacra ̶ vale a dire in «undici creature celesti» che terrorizzano i cannibali fino all’immancabile fuga sulla canoa dei Klapzuba bersagliati da lance e frecce.
La storia è anche una fiaba da collocare nel genere del libro per ragazzi, adatto però anche agli adulti – qualità che costituisce poi la caratteristica del “classico” della “letteratura per l’infanzia” – sia per l’argomento sportivo, sia per il linguaggio che si apre a vari registri, con inserimenti di articoli di varie testate sulle imprese della squadra, sia per l’umorismo di fondo che caratterizza il testo. Non mi sembra, quindi, che sia possibile ascrivere ad un genere univoco questo capolavoro che Pieralli definisce «romanzo sperimentale» nella postfazione. Memorabile la telecronaca della partita degli invincibili 11 con l’Huddersfield del cronista dello “New Sporting life”, munito di un casco telefonico, dal balcone delle gradinate; presenti allo stadio il re e la regina. La squadra era campione d’Inghilterra proprio nel 1922. Non mancano nel libro gli squarci lirici, come nella descrizione della placidità del Mar mediterraneo e del Mar Rosso (pp. 94-95) nel viaggio degli undici verso l’Australia.
Diversi inserti fiabeschi sono poi trattati con originalità: dopo che il principe del Galles, futuro erede al trono, durante la partita con l’Huddersfield chiede, tramite il papà il Re a colloquio con papà Klapzuba, di giocare con gli invincibili undici, nel villaggio boemo le «anziane» vanno in crisi poiché non sanno cosa rispondere ai bambini che chiedono come sarà il principe (p. 42) che sta per arrivare. Racconti secolari di principi e principesse con «draghi» e «carrozze d’oro» rischiano di essere cancellati di fronte alla prova della realtà. Ma una «nonna più scaltra» ebbe l’idea di rievocare ai bambini il vero paese delle fiabe, la Tartaria, rispetto a cui l’Inghilterra è un paese normale come il suo principe; la Tartaria, in cui vi sono foreste, sorgenti «d’acqua viva» draghi, le principesse con la «stella d’oro», è quella terra che si può raggiungere solo ed esclusivamente dai bambini in volo: «la sera quando chiudono gli occhietti e un angioletto ce li porta superando i nove mari». «L’isola che non c’è», insomma, nata dalle leggende delle steppe euro-asiatiche.
Altra notevole fiaba è quella del fischietto d’oro, mezzo magico che viene donato da San Pietro in veste di un povero e affamato vecchio ad Honza, il nonno dei Klapzuba, allora giovane, allontanatosi in cerca di fortuna dalla sua povera famiglia. Il fischietto lo fa arricchire trasformandolo in un arbitro straordinario; fischia tutto da solo in modo preciso e intransigente i falli. Il problema è che fischierà poi anche le truffe e le male azioni nella realtà che circonda Honza, il quale finisce per trovarsi a mal partito, circondato dalla malvagità nelle ricche città, per cui se ne ritorna al suo idilliaco paese, Dolní Bukvičky, dove il fischietto «può anche andarsene in pensione». Dopo la morte, il fischietto salverà Honza dall’inferno fischiando il fallo di San Pietro che lo scambia con un omonimo: «il sibilo trafisse l’intero spazio Celeste, da una stella all’altra, dal Sole e dalla Luna giù fino alla Terra, uno strillio terribile, urlante, che penetrava nelle ossa. L’atroce fischio svegliò Gesù Cristo, la Vergine Maria si tappò le orecchie, Dio Padre s’accigliò ed era già tutto tuoni e lampi e gli angeli svolazzavano come colombi spaventati e in tutto quel rimbombare e fischiare e nella baraonda e tra i lampi riecheggiarono severe le parole del padre Altissimo: “Pietro, Pietro, qualcuno ha subito un torto!”. Bella anche la postfazione di Pieralli, che rilegge in senso politico le avventure degli «invincibili Undici»: il messaggio del libro, dopo il Trattato di Versailles, è «la necessità, sul piano nazionale, di cechi e slovacchi di unirsi per farsi più grandi a fronte di vicini pericolosamente inclini all’espansionismo, e, su quello internazionale, di creare un cuneo più robusto contro i futuri revanscismi nazionalistici delle confinanti potenze sconfitte».
Non mancano gli appelli alla pace nel volume, sotto forma di metafore calcistiche, come nel «Discorso della Corona» del fratello acquisito dei Klapzuba, il principe di Galles, che una volta divenuto Re d’Inghilterra fa suoi gli insegnamenti di Papà Klapzuba, critico verso la monarchia («il calcio è un affare assai più arduo che regnare», p. 37) e di suo padre stesso che, nel colloquio sul campo dell’Huddersfield con il suo avversario allenatore-contadino boemo, conclude che le nazioni farebbero meglio a coltivare squadre che eserciti, al fine di dirimere le loro controversie non con la guerra ma su un campo di calcio. In un capovolgimento ironico del proclama con cui Francesco Giuseppe dichiarò guerra alla Serbia, il giovane re afferma (p. 50): «Ai miei popoli! […] promettiamo di astenerci dal commettere fallo e di non mettere la nostra nazione a rischio di subire un rigore bellico […]. Intendiamo vegliare affinché il gioco di testa non venga giammai trascurato…». La giovane Repubblica, per Bass, doveva guardare all’Inghilterra come culla della democrazia; ma ciò non poté salvarla dall’occupazione nazista qualche decennio dopo e dalla dittatura sovietica a seguire. Speriamo che al crollo del muro e alla rifondazione del totalitarismo russo da parte di Putin non segua un ennesimo triste epilogo al romanzo-fiaba di Bass che consiglio vivamente di leggere.
Roma, anni ‘70-‘90. Marie divide un appartamento di quattro stanze, una comune, con alcuni compagni “rivoluzionari”: Pietro, Tommaso e Anna. Lei è una giovane ceca, giunta a Roma con la famiglia in fuga da Praga, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, poiché il padre era un chimico e intellettuale dissidente. Dopo qualche anno, però, il padre di Marie sparisce nel nulla, lasciandola con la madre e la sorella. Nonostante le ricerche, non vi è alcuna traccia dell’uomo: si alimentano così le congetture sulla sua fine, tanto che la ragazza si convince possa essere stato rapito da una qualche polizia segreta. Al tempo della comune Marie insegna matematica in una scuola professionale di periferia, a stretto contatto con le classi sociali che dovrebbero beneficiare di quella rivoluzione di cui i suoi amici parlano tanto, ma che a lei in realtà sembra solo risolversi in gesti gratuitamente violenti. La ragazza inoltre intrattiene una corrispondenza con Pavel, uno storico ceco, amico del padre, con cui ha una relazione profonda, ma platonica. Pavel le ha chiesto di raccogliere il suo lavoro scientifico contenuto nelle diverse lettere che periodicamente le spedisce: la preoccupazione è che nel suo paese tali scritti, testimoni delle sue ricerche, verrebbero sequestrati dalla polizia. Marie allora funge da “cassetta delle lettere” per contenere e preservare il lavoro intellettuale di Pavel, con cui però vorrebbe avere una vera relazione sentimentale, fatta di parole e gesti concreti. Forse proprio per questo bisogno d’amore insoddisfatto, Marie ha una relazione con il giovane rivoluzionario Mels. Tutti gli uomini legati alla ragazza sono però destinati a rimanere lontano: Pavel a Praga, prigioniero di un regime totalitario, Mels alla ricerca della sua “rivoluzione” senza mai riuscire a fermarsi in un luogo, il padre in un passato che continua a essere presente…
Sylvie Richterová (Brno, 1945) è una scrittrice e studiosa ceca, trasferitasi a Roma dopo l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei russi. Compiuti gli studi filosofici e letterari all’Università Carolina di Praga e a La Sapienza di Roma, ha assunto diversi incarichi universitari a partire dagli anni ’70. È autrice di saggi, di romanzi e di poesie. Si sottolinea il suo impegno politico durante gli anni del regime comunista che l’ha vista collaborare con numerosi intellettuali in esilio e dissidenti cechi. Le opere narrative della Richterová sono ritenute sperimentali per le particolari soluzioni narrative, dal momento che l’autrice sovverte le tradizionali coordinate spazio-temporali e moltiplica i narratori, togliendo al lettore certezze e stimolando contemporaneamente la ricerca di più significati. Nel romanzo Il secondo addio le questioni affrontate sono importanti: l’esilio con il conseguente peregrinare di chi è costretto a lasciare il proprio paese a causa di un regime totalitario; la ricerca del senso della Storia, ma anche dell’esistenza; la scrittura come espressione di autenticità e come unica eredità possibile. È in particolare la scrittura a essere il tema privilegiato: Marie, Pavel, Jan (il compagno della protagonista nel corso della storia), Tommaso scrivono e lasciano le loro parole a dei custodi che sappiano decifrarle, affinché il senso segreto della loro esistenza possa alla fine essere compreso. Forse il senso della vita è proprio la scrittura stessa e tutti i personaggi vivono in funzione di essa, poiché “le loro parole sono le tracce della loro esistenza errante”. Tale convinzione è evidente nell’articolazione a più voci del romanzo, dal momento che la narrazione non è univoca, ma si distende attraverso vari soggetti narranti che si alternano senza un ordine e una “gerarchia” di racconto. A parlare talvolta è Pavel attraverso le sue lettere, ma non solo; altre volte è Mels, alla ricerca esasperata di fissare le parole che sente fluire dentro di sé sulle pagine del libro che lui avverte urgentemente di dover scrivere. I personaggi, poi, così come le voci, aumentano o si sdoppiano, rendendo faticoso capire chi realmente stia parlando e da quale prospettiva (è un vero narratore? O qualcuno sta riportando le sue parole?). Alla fine, si deve far pace con l’idea di non poter per forza comprendere a chi appartengano le parole, accettando di seguire solamente le riflessioni universali che l’autrice vuole stimolare. In conclusione, anche il “secondo addio” del titolo è soggetto a più interpretazioni: può riferirsi al saluto definitivo alla città, Praga, lasciata e ritrovata dopo la fine del comunismo come una patria ormai impossibile, ma anche quello nei confronti delle ideologie, delle certezze, delle epoche vissute e private ormai di significato, rappresentate dalla “frontiera”, un tempo temuto luogo di morte, ora linea di semplice passaggio, priva di interesse.
Questa recensione è uscita ieri su TuttoLibri della Stampa
Quinto romanzo di Sylvie Richterová, scrittrice ceca emigrata nel nostro Paese all’inizio degli anni Settanta e che ha continuato a scrivere nella sua lingua madre, Il secondo addio arriva in libreria grazie a Miraggi edizioni e alla traduzione di Alessandro De Vito – e vi arriva dopo un’attesa di quasi trent’anni, visto che la sua redazione è del 1994. Storia curiosa, ma tutto sommato non insolita, quella dei libri di Richterová, di cui questo Secondo addio può essere preso a emblema: prima opera composta dopo la caduta del regime, il romanzo (se questa definizione ha senso, ma ne parliamo tra poco) poté uscire a Praga, ed era la prima volta che un libro di Richterová arrivava nelle librerie ceche. Ma era stato scritto in Italia, da qualcuno che aveva lasciato la madrepatria da oltre due decenni e che sapeva non vi avrebbe mai fatto ritorno. Fu tradotto in alcune lingue europee ma, curiosamente, non nella nostra, e così sembra che il destino di ciò che Richterová scrive sia, per un motivo o per l’altro, quello di avere difficoltà di diffusione. Ecco, questa difficoltà trova eco nelle pagine del Secondo addio, che è un libro di personaggi più che di trama, e in cui tutti, o quasi, scrivono: scrive Jan, principale narratore di questa vicenda e marito di Marie, la protagonista – o per lo meno colei le cui vicende tengono unito il composito gruppo dei personaggi; ciò che Marie scrive a proposito della propria vita viene affidato proprio a Jan, il quale a sua volta lascerà un manoscritto che verrà ritrovato dal fratello; scrive anche Tommaso, che all’inizio troviamo in una comune romana dove Marie, esule ceca, si trova a vivere negli anni Settanta, dopo aver lasciato la Cecoslovacchia: Tommaso è poeta, e affida i suoi versi proprio a Marie, che a sua volta riceve da Praga i manoscritti scientifici e le opere di Pavel – amico del padre e di cui la donna è innamorata. Insomma, tutti o quasi scrivono, in questo libro, e tutti affidano le loro cose a qualcun altro: tutti hanno fiducia negli altri, da questa e dall’altra parte della frontiera, e si donano attraverso la parola scritta.
Alcuni dei testi che i personaggi scrivono entrano a far parte del romanzo. Pavel, per esempio, affida a Marie un’opera letteraria di cui leggiamo degli estratti: si tratta di un romanzo, Il Narciso cieco, dai toni vagamente esistenzialisti e malinconici. Ma di Pavel leggiamo anche frammenti di lettere in cui l’uomo ragiona sulla sua condizione di “prigioniero” di un mondo che non sa e non vuole abbandonare e sostiene che «a partire da un certo momento le notizie sulla nostra vita sono state più vive della nostra stessa vita». Scrive: «Cara Marie, l’uomo ha l’irresistibile istinto di raccontare la vita, di darle una forma… è la forma a darle senso» – e questo mi pare il concetto capitale attorno a cui Il secondo addio è costruito. Come sostiene anche Massimo Rizzante nella postfazione, infatti, questo libro non possiede uno statuto definitivo: non ha un vero proprio intreccio, al di là delle vicende biografiche, spesso esili, di Marie; non ha una voce narrante principale: si direbbe che sia Jan, il quale però cede il posto al fratello e, a turno, a tutti i personaggi della vicenda, che in dati momenti dicono “io”; non ha un’unità di tempo (si viaggia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, senza indicazioni precise) né di luogo, perché ai capitoli romani si alternano parti ceche senza soluzione di continuità. E allora? Dove sarebbe questa forma attraverso cui, secondo Pavel, diamo forma alle nostre vite? Sta proprio in questo saltabeccare, in questo continuo non trovare un centro di gravità: è la stessa Richterová, nella prefazione appositamente scritta per questa edizione, a fornire una chiave di lettura non solo per questo libro, ma per molta letteratura dell’Europa orientale che, oggi, tenta di restituire il proprio rapporto con la Storia, con la realtà. Ecco cosa scrive, parlando della fine del XX secolo come di un’epoca in cui «la storia non era più lineare e consequenziale ma piuttosto multidimensionale, e la biografia non si svolgeva nel tempo lineare, bensì attraverso una continua tessitura nel tempo e nello spazio di cui prendiamo coscienza. E siccome partecipano molti tessitori, il racconto può procedere benissimo con voci di narratori diversi». Ecco, questo concetto, che potrebbe andar bene anche per i libri di Gospodinov, di Drndić o di Hemon – tutti autori, ciascuno a suo modo, le cui biografie e i cui popoli sono stati travolti dalla Storia e che cercano disperatamente una forma e la trovano nel frammento – è ciò che rende Il secondo addio un libro rapsodico, insolito nei modi e nella costruzione, ma simile ai lavori di altri grandi autori europei che, avendo sofferto la Storia e sperimentato l’esilio e il dispatrio, cercano il modo per renderli leggibili.
QUI l’articolo originale: https://andreatarabbia.wordpress.com/2023/12/03/sylvie-richterova-il-secondo-addio/
Scrivere l’utopia della dimora perduta. “Il secondo addio” di Sylvie Richterová
Con Druhé loučení (“Il secondo addio”, 1994) anche Sylvie Richterová (Brno, 1945), grazie alla traduzione di Alessandro De Vito, entra a far parte della collana “NováVlna” di Miraggi edizioni, specializzata in letteratura ceca. È il terzo libro edito in Italia della scrittrice ceca, emigrata in Italia nel 1971 ed eternamente errante tra Roma e Praga, dopo Místopis (“Topografia”, Edizioni E/O 1986, Rina 2021) e Každá věc ať dospěje na své místo (“Che ogni cosa trovi il suo posto”, Mimesis, 2018).
“Gli scritti di Jan consistono di alcuni incartamenti di testi più lunghi e più o meno coerenti e di diversi frammenti più brevi, annotazioni o piccoli lavori a sé stanti. È un romanzo che un giorno mio fratello finirà di scrivere? O è un’accozzaglia autobiografica di ricordi e note diaristiche, per la quale non ha pensato una forma compiuta?” (p. 135)
Un pulviscolo di voci errabonde, una comune di personaggi che abitano la dimora fittizia di un romanzo. Sono solo due dei molteplici modi con cui si potrebbe interpretare Il secondo addio. Il romanzo a variazioni di Richterová gioca continuamente con il carattere fittizio della scrittura e sulle diverse idee di “casa” dei suoi personaggi che vanno spargendosi geograficamente e spiritualmente, per poi svanire egli infissi del tempo e della carta. Non è dunque possibile riassumere un susseguirsi di fatti, la cui credibilità d’altronde è fortemente minata, ma solo soffermarsi sulle tracce di plurali e soggettive ricerche tematiche. Il secondo addio, infatti, solo dal punto di vista dei temi può essere considerato un romanzo corale.
Spesso il lettore si domanderà chi parla, quali parti siano narrate da Jan o da suo fratello, quanto le diverse scritture siano riportate fedelmente o mediate, o se sia tutto un gioco metaletterario di Richterová stessa. Cercherà di ricomporre episodi e vicende da cui sono sempre tolti dei tasselli e non gli sarà mai possibile ricostruire la fabula. Ma se riassumere un intreccio è impossibile, è necessario parlare del vero protagonista di questo romanzo: la scrittura.
“[…] Marie stendeva sulle pareti il colore bianco lavabile con uno spesso pennello piatto, dall’alto in basso, applicava il colore con uniformità e accuratezza, il primo strato copriva lo sporco, il secondo raggiungeva il biancore, ma solo il terzo era immacolato.” (p. 35)
“Anche l’appartamento bianco è qualcosa di diverso, c’è silenzio e Marie non invita più ospiti e non organizza cene, nell’appartamento bianco non si cucina, non si beve, non si fuma. Marie non vuole macchie. Non vuole e basta.” (p. 68)
La scrittura si pone in contrasto con la sporcizia del mondo, una sporcizia ubiqua che pervade ogni luogo dell’eterno presente alla fine della Storia, da Roma a Praga, da Padova fino all’America Latina. Uno sporco a cui è contrapposto di continuo il biancore della casa di Marie, emigrata ceca, professoressa di matematica e madre di Michal, nato con quella che si potrebbe definire “un’immacolata concezione”, e di Blanka, “bianca come la pagina bianca, pulita, non scritta e non descritta” (p. 90). Un bianco presente anche nella neve praghese che avvolge la macchina in cui Pavel, intellettuale dissidente, si abbuffa barbaramente o i vestiti della setta messianica da cui si lascia coinvolgere Anna: un’ossessività (presumibilmente di Jan) che si traduce in 69 realizzazioni del solo lemma “bianco”, declinato per genere e numero, in poco meno di 150 pagine. Ma la scrittura come antidoto alla sporcizia può finire per essere forse un “salasso”, un riversarsi “tutto intero nella pagina bianca attraverso un sottile filo di inchiostro” (p. 143), una manifestazione essa stessa della sporcizia?
Nonostante nel 1994 Richterová viva ormai da ventitré anni in Italia e abbia un ruolo attivo come mediatrice culturale, sceglie di continuare a scrivere in ceco. Nel romanzo trovano posto temi presenti in molta letteratura mitteleuropea del secondo Novecento, come la persecuzione degli intellettuali da parte di un regime totalitario o il dramma del confine che separa i nuclei famigliari. L’autrice non demistifica la grammatica dell’emigrazione – in cui la scelta della lingua di scrittura gioca un ruolo spesso fondamentale – ma ne compone una propria variazione individuale. Nessuna delle figure che popolano il suo romanzo può essere ridotta a un ruolo o un’identità storica (pratica tipica di un certo sguardo occidentale e del suo pietismo): Pavel non è solo un uomo di scienza ostracizzato e messo a tacere, l’emigrazione politica non chiarisce integralmente la natura errabonda di Jan, la “vita impropria” di Marie nella comune romana non presenta che pallidi accenni alle origini ceche, tanto autoctona da sembrare scritta da una penna italiana. Il suo sguardo si sofferma principalmente sul mistero privato e intimo dei personaggi ancora prima del crollo delle ideologie politiche; la loro ricerca individuale di significazione permane anche in un tempo in cui i confini ritornano a essere invisibili linee che non ostacolano più la circolazione delle persone e la Storia, non agendo più sul presente, da centrale nelle singole biografie può trasformarsi in insignificanza.
“Ventidue quaderni, scritti di fretta con una grafia illeggibile, sono tanti, sono troppi.” (p. 75)
Nell’insignificanza può però sfociare anche la cecità narcisistica del singolo, la cui scrittura nel prendersi troppo sul serio rischia di trasformarsi in mera grafomania. Non è infatti casuale che Richterová, portavoce di una letteratura il cui carattere umoristico non ha forse eguali nel mondo, chiuda la sua premessa al libro con un invito allo humour (e con altrettanta ironia inviti a non confondere le vite degli enunciatori-narratori con la propria biografia).
“Scriviamo ognuno un nostro libro, pallido riflesso di quel libro dei vivi e dei morti, in cui non vediamo.” (p. 107)
Il tragicomico de Il secondo addio risiede proprio nella serietà con cui è posto il legame tra due termini cardine in Richterová come scrittura e casa, entrambi rimandano a una sfera ideale e sono proiezioni progettuali tese a una struttura immaginaria perfetta e irraggiungibile. Abitare-scrivere – uno scrivere come in Kristóf non connotato in senso letterario – svela il troppo umano bisogno di imprimere una traccia di sé nel mondo, scolpire il fragile passaggio di un sé transitorio, prendere possesso della significazione della propria esistenza.
Ogni voce di questa polifonia sviluppa a modo suo questo binomio bifronte. Marie, la cui scrittura rimane intima, quasi in ombra, vive in una casa condivisa e all’interno della scrittura altrui di cui è depositaria e spesso destinataria. Pavel, che vive isolato rispetto al mondo in un confino subito e forse persino cercato, elabora il “Narciso Cieco”, la bozza di una propria variazione del celebre mito; ripiegato su se stesso, il suo amore per Marie sarà solo platonico, paternale e intriso di belle parole. Jan espone il suo ideale kitsch di domesticità, un idillio famigliare vago e indefinito, forse la pallida eco della casa praghese dei genitori che aveva lasciato da giovane (eco suggerita da un dettaglio significativo come la panca ad angolo). La casa che presto andrà a fuoco, con cui inizia il suo racconto, potrebbe essere l’abbandono dell’illusione di finire un romanzo che non si compie mai, la rinuncia a quella ricerca di significazione che tende al lirismo, a una profondità che talvolta risulta anch’essa kitsch nel suo prendersi troppo sul serio.
Rileggendo a ritroso Il secondo addio, ogni elemento serio rivela il proprio aspetto ridicolo e la scrittura stessa sembra guardare a sé con autoironia: il tono apocalittico con cui Jan esordisce annunciando la fine prossima, la placida quotidianità di una famiglia che probabilmente è solo frutto di fantasia, la scelta di nomi quali Blanka e Mels (Marx, Engels, Lenin e Stalin), la trama lacunosa alternata a copiose riflessioni liriche, le frasi interrotte a metà, personaggi abbozzati che non vengono approfonditi – le cui relazioni sono date e quasi mai sviluppate – e soggetti maschili che non riescono a immaginare e raccontare credibilmente il femminile. È la dimensione tragicomica del “Narciso Cieco”, colui che non è più capace di vedere gli altri, simbolo di uno scrittore che non riesce più a elaborare in forma compiuta altri personaggi all’infuori di sé.
Richterová espone in piena luce l’impalcatura di un grande romanzo generazionale lirico e al contempo polifonico, delineando la sua personale variazione di un genere che ha avuto illustri antecedenti come Žert (“Lo scherzo”, 1967) di Milan Kundera o Zbabělci (“I vigliacchi”, 1958) di Josef Škvorecký, disossandoli fino a lasciare un qualcosa che però non è solo mero progetto o accozzaglia di appunti di svariate mani.
È finito il tempo delle cattedrali letterarie, delle ricerche del tempo perduto; eppure, l’incompiuto di Jan-Marie-Pavel-Tommaso non è sinonimo di fallimento. Forse è proprio quella forma inarrivabile a non essere più attuabile, forse non si può o nemmeno vale più la pena di scriverla. È una casa inabitabile.
Il “secondo” addio non è dunque solo l’abbandono della terra natia dopo il 1989, l’anno della Rivoluzione di Velluto che né Pavel né i padri di Marie e Jan hanno visto, ma è la rinuncia dell’eterno errante Jan al sogno irrealizzabile di avere una casa, quella da cui si è allontanato – un “primo” addio – è andata in rovina e nessuna nuova architettura potrà erigerne una nuova. Pertanto, Il secondo addio, rinunciando al progetto di raccontare una generazione dispersa e di comporre un romanzo nel romanzo accentandone l’implosione, si presenta come uno spoglio bouquet di bozze e vite pulviscolari rivendicando con leggerezza la significazione della sua insignificanza.
“Il libro comincia e finisce come la nostra vita. Il libro non comincia mai, e mai finisce. Come la nostra vita. È qui, dal tempo in cui è stato creato. Lo si può attraversare in tutte le direzioni. Le parole cambiano di significato come i nostri atti, che anche loro cambiano di significato nel tempo e alla luce dell’esperienza.” (p. 91)
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: Immagine fornita dall’autrice S.R.
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