Tradotto finalmente in italiano grazie a Miraggi esce il libro d’esordio di Bohumil Hrabal, il maggiore scrittore ceco della seconda metà del Novecento. Vissuto facendo mille umili mestieri, ampiamente testimoniati nella sua opera, Hrabal pubblica La perlina sul fondo a 49 anni, nel 1963. Nello spettro dell’interesse dello scrittore rientrano le persone bastonate, quelle che appaiono sbruffone perché preferiscono nascondersi dietro un atteggiamento spavaldo piuttosto che mostrare i propri sentimenti, la gente che macina slang contribuendo alla formazione di una lingua nuova. Hrabal riesce a coglierne l’essenza, la perlina celata in ognuno di essi. In questa prima raccolta di racconti si trova tutta l’umanità dei bassifondi e dei margini che l’autore ceco investigherà nell’opera successiva.
Un libro che è autobiografia e che si legge come un romanzo. È “Volevo uccidere J.-L. Godard” di Jan Němec, che contiene trentuno racconti, pagine scritte dal 1970 al 1990, e che narrano la vita di questo importante cineasta cecoslovacco. Testimonianza della sua vita artistica, e della sua vita di ogni giorno divisa dal periodo vissuto nella terra dove è nato e l’America, dove ha dovuto andare nel 1974, visto che in Cecoslovacchia gli veniva impedito di lavorare. Perché Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e anche l’unico regista capace di filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, per poi varcare la frontiera con l’Austria, e far sì che all’indomani mattina la televisione austriaca mostrasse al mondo quelle immagini. E Němec era anche sicuro di prendere un premio all’edizione di Cannes del 1968, ma al festival scoppiò il maggio francese e registi come Godard e Truffaut proposero di interromperlo, e non ci fu nessuna premiazione…. E allora la lettura di “Volevo uccidere J.-L. Godard” è un’immersione completa nella vita di Jan Němec, lo si accompagna nei suoi sogni di gloria artistica e di pura sopravvivenza umana, si intrecciano e si respirano mondi opposti, la Cecoslovacchia sovietica e l’America capitalista, dove sopravvisse girando film di matrimoni, e inseguendo progetti cinematografici che non si realizzarono mai. Per poi tornare a Praga alla fine del 1989. Nemec è stato anche un autentico viveur, una anima irrequieta che amava le feste e le donne e che era sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová. Sono pagine rocambolesche, si vivono situazioni surreali e divertenti, si respira la passione e la rabbia, sempre però con uno sguardo che mette nudità al tempo narrato, alla società in qui ha vissuto. “Volevo uccidere J.-L. Godard” è lettura consigliata, e per la quale abbiamo intervistato Alessandro De Vito, che ha tradotto il libro in italiano, e che è anche uno dei fondatori di Miraggi, la casa editrice che lo ha pubblicato.
Dal libro:
“L’obiettivo della cinepresa può essere una piccola mitragliatrice, o cannone, e la verità, impressa sulla pellicola, può avere una forza, difensiva o offensiva, maggiore dei proiettili. Non a caso, qui da noi in America, usiamo la stessa parola per ‘sparare’ e ‘girare’: shoot!”
“Il cielo si chiuse. Nuvoloni neri si distesero su Praga. La cometa passò da qualche parte sopra di noi, ma nessuno poté scorgerla. Si era arrabbiata con noi, e vi aveva fatto sapere che non avrebbe scintillato, non si sarebbe accesa, dato che il nostro amico Jirka non c’era più.’”
“Lo scaltro Kgb aveva quindi scelto Lád’a K., e lui ci mandava dei segnali: anche in una società così disciplinata come uno stato comunista sotto la tutela sovietica, si poteva sempre trovare una breccia per essere individualisti, e perfino decadenti. perché il Filmexport cecoslovacco aveva bisogno di film da poter proporre in Occidente, prendere dei premi ai festival, e giustificare così l’esistenza dei suoi uffici all’estero, che erano solo un’altra forma di spionaggio rispetto a quella dei consolati o delle agenzie di viaggio bulgare, tramite le quali metti che si organizzi un attentato al papa.”
“Ah, comunisti e russi, divoratevi pure il cuore del continente, che mi avete rubato! Io non ci sono più.”
Intervista ad Alessandro De Vito:
(traduttore di “Volevo uccidere J.-L- Godard)
Quale la differenza fra lo Jan Němec ceco e quello ‘americano’? Ma anche tra il regista cinematografico e il narratore? La differenza, purtroppo per lui, è ed è stata enorme, tra gli anni in Cecoslovacchia e quelli dell’esilio negli Stati Uniti. Negli anni 60, in patria, durante la Primavera di Praga, seppure fosse un giovane regista, aveva dimostrato a più riprese un talento fuori dal comune, uno stile assolutamente personale, realizzando dei veri capolavori che meritano di restare nella storia del cinema, già il corto “I diamanti della notte” e soprattutto “La festa e gli invitati”, film visionario e filosofico, sottile e crudo nell’indagine della natura umana, già molto maturo. Němec è stato anche molto abile a insinuarsi – insieme ad altri giovani registi che hanno fatto parte di quella straordinaria Nouvelle Vague cecoslovacca (citiamo solo Forman, Menzel e Passer, venuto a mancare pochi giorni fa) – tra le maglie della censura e nel meccanismo di produzione cinematografica di Stato comunista, rivolgendolo a proprio vantaggio. Evidentemente l’invasione sovietica del 1968 ha interrotto tutto. Era inoltre un personaggio noto pubblicamente, dato che allora è stato anche sposato con la più nota cantante ceca dell’epoca, Marta Kubišová, che è come dire Mina in Italia negli anni 60.
Ma anche le similitudini…. Certamente Jan Němec era un carattere particolare, deciso, sarcastico, autoironico, con un’irruenza che è stata sinonimo di energia e forza, di ricerca indomita della libertà e dell’arte, ma anche un ostacolo. Un’incapacità al compromesso, ancor più in senso artistico che politico, che l’ha danneggiato maggiormente negli USA, dove per lavorare bisogna sottostare alle regole dello show business delle major cinematografiche. Non era il genere di persona capace di mandare giù dei rospi. Passando alla narrazione scritta e parlando di similitudine, è la parola migliore per descrivere quanto il suo modo di narrare con parole sia simile alla sua visione cinematografica.
Cosa porta del suo sguardo da regista in questo suo narrare? E come lo usa? Jan Němec è un regista anche mentre scrive. Non evoca, vede, sceglie il punto di vista, inquadra, monta le scene e fa vedere. Spesso nei suoi racconti, sempre basati su esperienze vissute, troviamo immagini, tagli, inquadrature, descrizioni che sembrano “scritte” con la macchina da presa più che con la penna, un andamento registico più che da scrittore. A volte questo provoca anche qualche salto nella narrazione, anche se bisogna tenere conto che i racconti sono stati scritti nell’arco di vent’anni, dal 1970 al 1990 circa, e a volte in situazioni personali precarie. Non è una scrittura pulita e levigata, ma assomiglia molto anche a lui: troppa energia per poterla contenere sulla pagina. Il che aggiunge interesse, spesso si ha l’impressione di essere davanti a lui che racconta, seduti davanti a un bicchiere di vino (non birra).
Nel libro, pur immergendosi in situazioni sempre intense, dove le persone si incontrano e si scontrano, dove c’è sempre l’accadere come punto focale del narrare, mi sembra di percepire un profondo senso di solitudine. Può essere così? Io credo che derivi dall’esperienza vissuta, il dover abbandonare il proprio amato paese, il fatto di non aver nemmeno potuto lottare contro lo stato delle cose. Negli anni da espatriato è stato certamente un uomo solo, si è dovuto arrangiare, non è riuscito mai a lavorare al suo livello. Per vivere ha trascorso anni a inseguire progetti poi non realizzati, mantenendosi realizzando film privati di matrimonio. Ma è soprattutto la personalità, fortissima ed egocentrica come capita negli artisti più grandi, che emerge con una forza che si impone. È allora la solitudine dell’artista, unita a un punto ideologico non trascurabile: l’esaltazione della libertà individuale, o dell’individualismo tout court, in un paese dominato da una società e da una retorica collettivista pervasiva, allora era un fatto politico. Lo stesso titolo originale del libro, che letteralmente sarebbe “Non dare la mano al cameriere”, che si riferisce a uno dei racconti, esplicita questo pensiero. In quel caso l’esaltazione di un comportamento che si può definire classista (un suo amico, artista anche lui, celebre perché “non dava la mano al vecchio cameriere”, non con fare sprezzante, ma per tenere una distanza. Con le sue parole: “Il nostro credo era questo, e penso lo sia ancora: vogliamo spassarcela un po’, andate a fare in culo, bolscevichi, voi e i vostri programmi, i piani quinquennali, i processi e le riabilitazioni. Raccontavamo queste cose alle ragazze, completando quel rapido giro panoramico della città. Ogni tanto bevevamo un bicchierino, facevamo un giro anche contromano e stavamo bene, perché sapevamo che nessuno ci avrebbe manganellato per un reato contro lo Stato”. Volevano essere dei giovani liberi, non diversamente dai loro coetanei occidentali.
Jan Němec è sicuramente un autore fuori dal coro. Quanto questo gli ha permesso di sviluppare una propria originalità, e quanto invece è stato un qualcosa di limitante, anche in prospettiva politica nella Cecoslovacchia sotto il controllo sovietico? Němec era certamente fuori dal coro, ma in realtà il “gruppo” dei registi della Nová Vlna… non era un gruppo. C’erano sostegno reciproco, collaborazioni, un background comune, in fondo venivano dalla stessa scuola di cinema, la Famu, e lavoravano tutti negli studi di Barrandov, la Cinecittà di Praga, ma ognuno portava avanti le sue idee, soprattutto dal punto di vista estetico. Ed erano lasciati liberi di farlo, Němec stesso afferma che si erano trovati in una condizione di libertà creativa difficilmente eguagliabile: (quasi) senza censura, e con tutti i mezzi produttivi a disposizione. Finito tutto questo con l’invasione, all’estero sono riusciti a sfondare in pochi, dovendo fare i conti anche col reperimento di risorse, con i produttori. Forman è il campione di questo successo in occidente.
Quale la caratteristica più evidente del suo scrivere, e cosa ha significato tradurlo? La lingua che usa Němec è piuttosto antiletteraria, quasi orale, gergale, estremamente viva. Pur non mancando di riferimenti “alti”. Non era uno scrittore, spesso i racconti li potremmo immaginare come dei soggetti per film da girare, un po’ più distesi. Raccontati di persona, in modo molto vivido, con una mescolanza di registri molto marcata, tra l’epico del patriottismo, della propria terra tradita e schiacciata dall’invasore, e un’aneddotica personale che ci fa sogghignare amaro o scoppiare a ridere (come nel racconto in cui ci rende noto che ci si può salvare da un infarto grazie allo sforzo muscolare per non farsela addosso: era in compagnia di una signora, diamine!). Questo ha portato una certa difficoltà di traduzione dovuta alla varietà del contenuto, ampiamente compensata dalla vita che fuoriesce prepotente tra le righe. È stato bello passere dei mesi con Jan Němec, che purtroppo ho incontrato una sola volta di persona, poco prima che morisse.
Il libro è scritto a più riprese dagli anni settanta ai novanta. Cosa tiene assieme questo ampio lasso di tempo? È un ventennio esteso, dato che nei primi racconti si parla degli anni 60. È un’epoca tutto sommato omogenea, il grande cambiamento avverrà alla fine dell’89, con la caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti. E il racconto si interrompe qui, con il rientro a Praga nel dicembre 89. Non a caso, credo. Appena ritornato, pur con difficoltà, Němec è tornato a fare il regista, in modo indipendente. Credo sia evidente che la scrittura fosse il surrogato della regia, nei lunghi anni in cui non ha potuto o non è riuscito a realizzare film. Poi ovviamente è un racconto autobiografico, l’autore è protagonista, e persino quando prevale il racconto di eventi storici importanti, come l’invasione di Praga o il famigerato Festival di Cannes del 1968, lui non va sullo sfondo. È lì, e non è un comprimario.
Anche l’immagine di copertina dà l’idea di un Jan Němec sempre in continuo movimento. È così? Credo non potesse stare fermo. Emanava luce e movimento quando l’ho conosciuto, due mesi prima di morire, malato su una carrozzina, possiamo immaginare durante tutta la sua vita. L’immagine di copertina richiama uno dei momenti topici del racconto: lui che si aggira per la Praga invasa dai carri armati sovietici con la sua auto sportiva e la macchina da presa, con un certo sprezzo del pericolo, il 21 agosto del 68. La sera stessa riuscì rocambolescamente (e naturalmente con l’aiuto di una bella donna, altra sua passione eterna) a portare i negativi a Vienna e a far quindi vedere al mondo – documento unico – che cosa stava succedendo davvero a Praga. Non il “fraterno aiuto” degli altri popoli socialisti, ma un’invasione militare. Quel materiale, montato con altro, è diventato il toccante documentario “Oratorio per Praga”.
Quale l’eco della sua fama di regista in Europa, in Italia, nel mondo? Němec è nella storia del cinema, nell’ambito dei festival (in Italia soprattutto Trieste) viene ancora ricordato e omaggiato, specialmente le sue opere degli anni 60. Ha conosciuto la maggiore notorietà internazionale sull’onda anche emotiva dell’invasione di Praga, grazie soprattutto alle immagini dell’invasione.
Il traduttore: Alessandro De Vito, classe 1971, lavora in campo editoriale da quasi vent’anni. È tra i fondatori di Miraggi Edizioni nel 2010, di cui ne è direttore editoriale ed editor. Per metà di origine ceca, da qualche anno è appassionato traduttore da quella lingua, ispiratore e responsabile, sempre per Miraggi, della collana di letteratura ceca NováVlna.
Il regista ed autore: Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime.
Dalla Moravia austro-ungarica alla giungla brasiliana, un romanzo racconta l’epopea di una famiglia
Forse nessuno, alla fine dell’Ottocento, avrebbe pensato che dai sobborghi di Zlín – un villaggio di tremila anime nella Bassa Moravia, alla periferia del decadente Impero Austro-Ungarico – sarebbe partita l’ascesa di una delle più influenti famiglie d’Europa e non solo. Eppure fu proprio lì che, raccogliendo l’eredità di otto generazioni di calzolai, i fratelli Tomáš, Jan Antonín e Anna Bata crearono una fabbrica di scarpe, primo passo di un marchio che divenne presto conosciuto in tutto il Paese: quello delle calzature Bata, che ancora oggi, oltre un secolo dopo la sua fondazione nel 1894, vestono i piedi di milioni di persone.
La storia della famiglia Bata viene ricostruita dalla scrittrice Markéta Pilátová con un libro polifonico che ha la forza di un documento storico pur conservando la grazia umoristica tipica della tradizione letteraria ceca. Alternando le voci di Jan Antonín, delle sue figlie e nipoti, e persino quella della fabbrica «personificata», il libro si colloca a metà strada tra memoriale – l’autrice ha «intervistato» le discendenti Bata per molti anni – e romanzo.
Il risultato è Con Bata nella giungla (Miraggi edizioni). Titolo singolare: cosa ci fanno i grandi calzaturieri moravi nella foresta pluviale? Dopo aver impiantato la prima fabbrica a Zlín ed essere passata indenne attraverso la Grande guerra (durante la quale Bata fornisce le scarpe all’esercito austro-ungarico) e la disgregazione dell’Impero, la famiglia si trova a fare i conti con il nazismo. Tomáš è morto in un incidente aereo nel 1932, e la decisione viene presa da Jan Antonín: aiutare tanti ebrei cechi a fuggire dal Paese, con la scusa di assunzioni e incarichi all’estero. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale gli «operai» salvati saranno centinaia. Ma l’Europa non è più il posto dove vivere. Bata si stabilisce in Brasile, nello Stato di San Paolo, dove progetta di fondare una città, costruire ponti giganteschi nel sogno megalomane di «essere un po’ Carlo IV», e di espandersi nel mondo. Nonostante le infondate accuse di collaborazinismo da parte del governo comunista cecoslovacco, che nazionalizza le fabbriche locali, l’impresa riesce. “Batatuba” diventa il quartier generale da cui si dirama una rete commerciale all’insegna di un capitalismo sui generis: misto di innovazione tecnologica, salari altissimi e servizi per i propri lavoratori (Bata aveva aperto una scuola femminile in Moravia già negli anni Venti) con un codice etico a cui attenersi. Era il «sistema Bata», al contempo paternalistico e moderno.
Il romanzo restituisce la malinconia del patriarca in esilio, giocando con il filo sottile della lingua madre che lega la famiglia alle proprie origini. E se è vero che alcuni anni fa proprio Pilátová è stata chiamata ad insegnare il ceco ai dipendenti Bata che vivono ormai da generazioni in Brasile, allora questo stesso libro è la testimonianza che quel filo non si è ancora spezzato.
GRAND HOTEL DI JAROSLAV RUDIŠ: LE NUVOLE DEL DISINCANTO
Nel mio mai deludente tour della micro-piccola-medio editoria italiana ho avuto l’onore di conoscere Miraggi Edizioni, una realtà professionale di livello e che offre ai suoi lettori una cura certosina dei testi pubblicati (dal contenuto alla resa estetica).
Per tale ragione ho voluto leggere Grand Hotel. Romanzo sopra le nuvole dello scrittore ceco Jaroslav Rudiš che mi ha immediatamente conquistato con la sua prosa giocosa e magica in netto contrasto con una storia tanto bella quanto struggente, disincantata. Il testo fa parte della collana «NováVlna» di letteratura ceca e prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca tanto in voga negli anni della Primavera di Praga. Come ci fa intendere l’editore è doveroso (ri)scoprire questa nicchia letteraria perché è stata protagonista di grandi eventi storici e piccole leggende interiori; il romanzo ceco con le sue sfumature surreali, grottesche e a volte magiche è uno strumento irrinunciabile per sondare le profondità dell’essere umano.
L’autore è già stato pubblicato in Italia almeno altre due volte, ma il titolo a cui deve certamente la fama è Il cielo sotto Berlino, un vero classico moderno della letteratura europea e non solo di quella ceco-tedesca. Jaroslav Rudiš inoltre è un’arista completo, si dedica alla realizzazione di fumetti, a performance radiofoniche e musicali con il suo gruppo Kafka Band, ed è autore di sceneggiature teatrali e cinematografiche. Laureatosi per divenire insegnante di tedesco e storia, scrive le sue opere sia con l’idioma della madre patria (nacque a Turnov, in Repubblica Ceca, nel 1972) che con quello tedesco. I suoi studi lo hanno portato anche a Liberec, città dove è ambientato Grand Hotel, località famosa per il monte Ještěd e per l’omonima gigantesca torre di telecomunicazioni che sfida l’immensità del cielo.
Il cielo e le sue nuvole sono i protagonisti di questo originalissimo romanzo, così importanti da “oscurare”, a volte, l’attore principale delle vicende, il bizzarro Fleischman. Costui è un giovane uomo, un disadattato, un outsider, il classico “inetto” alla Musil de L’uomo senza qualità, tanto per rimanere in area mitteleuropea.
La sua esistenza è un perpetuo fallimento, con le donne, gli amici, la sua psichiatra e la sua famiglia; famiglia che non c’è più perché ha perso entrambi i genitori durante un incidente automobilistico, o almeno è quello che racconta alla sua dottoressa. Ha sempre la testa tra le nuvole, uniche particelle lattiginose della sua fragile realtà in grado di trasmettergli serenità, pace e completezza.
Fleischman si sente complementare al disegno del cielo, si allinea con gli schemi che tiene incollati sulle pareti del Grand Hotel di suo nonno, che raccontano il romanzo dei fronti temporaleschi, la poesia dei fulmini e il verseggiare del rombo del tuono. Se a volte, leggendo i suoi ragionamenti, la sua involontaria ironia (e qui l’autore è geniale) penserete allo spettro autistico lo farete a ragione, e nel suo guazzabuglio interiore e nel nitore del cielo Fleischman è la persona più limpida dell’intero carosello di personaggi.
Per questa ragione il romanzo ti conquista tempestivamente, il campo semantico atmosferico-meteorologico è sublime, le figure retoriche saldate sui movimenti del cielo e delle nuvolaglie ti invogliano a diventare un frammento di volta celeste, per rimanere a volteggiare sulle cuspidi del Grand Hotel. A volte ho desiderato essere una crisalide di neve e vento soltanto per posarmi sul volto di Fleischman e ricordargli che non sarà mai solo.
Se il romanzo segue le vicende interiori del nostro stravagante meteorologo da strapazzo, tra innamoramenti, amicizie bizzarre e tentativi di “evadere” da Liberec attraverso le nuvole con una mongolfiera, si rimane comunque stupefatti dal sub-testo storico che Jaroslav Rudiš riesce a tratteggiare.
Seppur ambientato agli inizi del 2000, il romanzo e i suoi personaggi sono gli eredi della Seconda guerra mondiale e della Primavera di Praga del 1968, così gli “attori secondari” del testo sono contornati da un’aurea diversa, ancorata a un passato sofferto e difficile, così radicale da confondere ancora le loro vite.
Segreti, innocenti bugie, nuvole nere e gocce di nostalgia, la Repubblica Ceca delle nuvole di Fleischman sembra un posto magico, utile a quei sognatori che agognano un posto lontano dalla rigida realtà. Invece è la patria del disincanto, la fine dell’illusione e la resa dei conti con la Storia (S maiuscola, signori), il dramma esistenziale di ogni sfortunato di quella terra. Ma la vera magia è scoprire che il disincanto del cielo e delle nuvole è una storia bellissima e ci insegna ad essere noi stessi senza rimanere intrappolati nei nostri sogni. Basta ascoltare il canto della rugiada.
Baťa, il visionario: il tour d’Italia del romanzo in uscita di Markéta Pilátová
La scrittrice ceca Markéta Pilátová sarà in Italia nei prossimi giorni per la presentazione della traduzione italiana del suo romanzo Con Baťa nella giungla, affiancata dal traduttore Alessandro De Vito. Nel tour di quattro giorni Pilátová sarà a Trieste, Bologna, Torino, Alba e Roma. Il libro tratta della famiglia cecoslovacca Baťa e del loro marchio di scarpe conosciuto un po’ in tutto il mondo. Quella dei Baťa è la storia di un successo di statura internazionale avvenuto decenni prima dell’ondata che conosciamo con il nome di “globalizzazione”. Si trattava allora di un capitalismo a tratti ingenuo, seppure moderno, illuminato, seppur con tratti di paternalismo: era attento alla qualità del lavoro e della vita dei dipendenti, fino a immaginare un vero e proprio “sistema Baťa”, efficiente ed etico, comprensivo di buoni salari, istruzione, case, dettami morali.
Con il romanzo si può “rovistare nei cassetti e nelle scatole di latta” di questa straordinaria famiglia di “calzolai che hanno conquistato il mondo”. Scatole e cassetti colmi di documenti, foto, diari. Viene così illustrata la figura di Ján Antonín Baťa, uno dei più grandi uomini d’impresa di ogni tempo e luogo, visionario, caparbio e con un’incrollabile fiducia nel futuro, insieme modernissimo e d’altri tempi. Accompagneranno il racconto le sue figlie e nipoti, i cognati, con il loro racconto gustoso e dolente, sempre combattivo, tra i ricordi di mille peripezie affrontate procedendo a zig zag tra i dossi e le buche del Novecento. La fuga dai nazisti prima, e dai comunisti poi che condannarono Baťa ingiustamente per collaborazionismo, il boicottaggio da parte di inglesi e americani, le beghe ereditarie, l’esilio e la nostalgia, con la lingua madre a fare da sottile e orgoglioso legame con le proprie origini.
Ma.. che c’entra la giungla? Baťa, che aveva immaginato di “trasferire” il popolo cecoslovacco in Patagonia per colonizzarla, si trasferì in Brasile una volta lasciata l’Europa, e lì insediò fabbriche e fondò città, strappandole alla foresta. Dimostrando che con la volontà e la capacità, oltre che con il duro lavoro, si può ottenere molto, se non tutto. E magari riuscire a far « venire a galla la verità come l’olio sull’acqua », come scrisse in punto di morte.
Quando parliamo di Baťa ricordiamoci che nello sviluppo del gruppo calzaturiero, che si vide confiscare e nazionalizzale le proprie imprese con l’arrivo del comunismo, anche la Slovacchia ha avuto un ruolo di primo piano, con le fabbriche di Partizánske, Svit, Nové Zámky e Bošany. La famiglia possedeva inoltre un importante patrimonio di immobili di pregio nel territorio della Slovacchia, incluso il noto castello neorinascimentale di Bojnice, uno dei monumenti simbolo della Slovacchia turistica. Secondo la famiglia il valore delle proprietà confiscate è nell’ordine di miliardi di euro. Una causa per i danni subiti è stata riavviata dalla famiglia negli anni scorsi contro la Repubblica Slovacca.
Markéta Pilátová (Kroměříž, 1973) è scrittrice, giornalista e traduttrice ceca, autrice di libri per bambini, di reportage e di diversi romanzi, tra cui Tsunami blues (2014), Má nejmilejší kniha (Il mio libro preferito, 2009), Hrdina od Madridu (L’eroe di Madrid, 2016) e Žluté oči vedou domů (In qualcosa dovremo pur somigliarci, pubblicato in Italia da Atmosphere, 2017). Vive e lavora in Brasile, dove insegna il ceco ai discendenti degli emigrati cecoslovacchi delle città fondate dai Baťa intorno alle loro fabbriche.
Il tour di presentazioni del libro in Italia
Martedì 21 gennaio 2020, ore 17:30Trieste Film Festival – Antico Caffè San Marco, Trieste
La presentazione sarà in forma di dialogo tra l’autrice e il regista Peter Kerekes del film documentario Batastories (2018), che sarà proiettato al principale festival italiano che guarda ad Est. La discussione sarà moderata dal professor Massimo Tria, boemista e critico cinematografico.
Venerdì 24 gennaio 2020, ore 20:30Libreria Altroquando, Via del Governo Vecchio 82, Roma
Con l’interprete Laura Angeloni, Petra Březáčková direttrice del Centro Ceco Romae il giornalista di Alias Gennaro Serio
Centro Ceco Roma Via dei Gracchi 322, RomaMercoledì 22 gennaio 2020, ore 18:00 Trame Libreria Bookshop, Via Goito 3/c, Bologna
In collaborazione con l’Associazione culturale italo-ceca Lucerna.
Giovedì 23 gennaio 2020, ore 18:15Libreria L’ibrida Bottega, Via Romani 0/A, Torino
Affiancheranno l’autrice per la lettura di brani Serena Aimasso e Chiara TrevisanGiovedì 23 gennaio 2020, ore 18:30Milton libreria c/o Ass. Asso di Coppe via Vincenzo Gioberti 7 Alba
Affiancheranno l’autrice per la lettura di brani Serena Aimasso e Chiara Trevisan
QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:
https://www.buongiornoslovacchia.sk/index.php/archives/98170
Il signor Kopfrkingl vive a Praga. È un uomo affabile e gentile, conscio delle proprie virtù e attento al prossimo.
“Non fumo. Non bevo nemmeno, sono astemio. Ma se pensa che un bicchiere di qualcosa possa aiutarla per cominciare, beva pure tranquillamente, signor Dvořák. Noi astemi dobbiamo essere ragionevoli e comprensivi”
Il signor Kopfrkingl è un marito innamorato e premuroso di una moglie adorabile e un padre amorevole e attento di due ragazzi meravigliosi.
“L’articolo sul giornale di oggi, di quel padre che ha abbandonato la moglie e i figli per non doverli mantenere, è una cosa terribile”
Il signor Kopfrkingl è un uomo di cultura: ama i quadri e li seleziona con cura, conosce bene la musica classica e ha una bella biblioteca che impreziosisce il suo salotto.
“Prese dalla libreria la legge sulla cremazione e la sfogliò per un po’, poi prese forse ormai per la centesima volta il libro sul Tibet… il delizioso, affascinante libro sul Tibet, sui monasteri tibetani, sul Dalai Lama e le sue reincarnazioni”
Il signor Kopfrkingl è un cittadino modello, innamorato del suo paese e con lavoro onesto che svolge con grande serietà e coinvolgimento.
“Non si spaventi della tabella, signor Dvořák, è una sorta di nostro orario, un orario di viaggio della morte. In fondo è davvero il più sublime orario di viaggio che esista al mondo”
Il signor Kopfrkingl è un ospite gioviale: ha una vita piena e soddisfacente, una bella casa e amici brillanti con cui discute di politica, di arte e qualche volta di sport.
“Allora, bambini, mangiate, invitò di nuovo tutti gentilmente, abbiamo una festa di famiglia e sta restando tutto lì. Celeste mia…”
Eppure, c’è qualcosa che non funziona.
Sarà quel suo modo di parlare, ripetitivo fino allo stordimento e così esageratamente mellifluo? Anche quella morbosa attenzione per gli articoli di cronaca e quella premura eccessiva che trapela ogni volta che si parla di persone in difficoltà, finiscono per stridere con l’immagine di un uomo così probo e generoso. Quei quadri poi, descritti minuziosamente e mostrati con orgoglio a tutti, sembrano più delle croste che dei capolavori veri e propri. Della sua ricca biblioteca, gli unici libri che consulta sono un volume con la legge sulla cremazione e uno sul Tibet e il Dalai Lama. E ancora, quell’ossessione per il lavoro, per la morte, per le tabelle orarie dei forni crematori, per il corpo dei defunti. Il signor Kopfrkingl mostra ben presto di portare assai male tutte quelle presunte virtù che cerca continuamente di ostentare. E il suo mondo finisce per risultare, nel volgere delle pagine, un microcosmo stucchevole e miserabile, scandito da monologhi autoreferenziali e spesso deliranti e repentini cambi di idee.
E poi, a dire il vero, il signor Kopfrkingl fa paura.
Basterebbe quel nome quasi impronunciabile e ripetuto all’infinito all’interno del libro, per capire subito che il signor Kopfrkingl è il peggior protagonista che un lettore possa mai augurarsi di incontrare. Non c’è empatia possibile con lui. Anche il lettore più benevolo finirà per provare repulsione per quest’uomo dai modi affettati e dalla personalità così ambigua. Perché dietro a un perbenismo dissonante e alle sue piccole e grandi manie, si nasconde in realtà un’anima nera e vacua.
Il Bruciacadaveri è un viaggio all’inferno senza ritorno. Ladislav Fuks accompagna il lettore lungo la parabola discendente di un personaggio tratteggiato con grande maestria, proprio mentre dense nubi si addensano sul cielo di Praga, funesto presagio degli orrori che di lì a poco deflagreranno con l’invasione tedesca del ’38. Non c’è redenzione, non c’è umanità. C’è soltanto la ripetizione ipnotica e ridondante di frasi, incontri e situazioni che conducono a un finale inaspettato e per certi versi atteso. Un classico moderno che Miraggi Edizioni ha riportato alla luce con grande merito; un testo che mai come oggi si rivela attuale e motivo di riflessione in momento molto delicato come quello che stiamo vivendo, in cui si avverte tangibile il rischio di ripetere errori e orrori di un passato non troppo lontano.
Prima di iniziare a leggere Il lago di Bianca Bellová, è utile soffermarsi sulle considerazioni della traduttrice Laura Angeloni, riportate sui risvolti di copertina. Sono parole vibranti, cariche di emozione, capaci di preannunciare gli stessi stati d’animo che vivrà il lettore non appena si addentrerà nelle vicissitudini di Nami, il protagonista del romanzo.
Se Angeloni ricorda i «giorni in cui vai avanti a tradurre fino a notte fonda, perché […] non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per ora, almeno per un po’», il lettore si troverà in una situazione del tutto simile. La drammatica progressione di avversità che si abbattono su Nami crea un coinvolgimento emotivo talmente forte da rendere impossibile l’idea di allontanarsene. Non si può far altro che proseguire la lettura, nella speranza che riesca finalmente ad assaporare una felicità piena e inviolabile, o la sicurezza di un legame affettivo duraturo. «Quel bambino, poi adolescente, poi ragazzo, ti viene da prenderlo per mano e non lasciarlo più».
La prima volta che lo si incontra, Nami ha tre anni. È stato portato alla spiaggia del lago che lambisce Boros, il villaggio dove vive insieme ai nonni. Non si tratta di un giorno qualunque: è l’unica volta in cui è presente anche sua madre. Di lei conserva soltanto il nebuloso ricordo dei tre triangoli rossi del bikini, il potere calmante del suo canto e la dolcezza con cui lo ha assistito durante un attacco di vomito conseguente al bagno fatto nel lago.
La tossicità di quelle acque diventa presto evidente. La pelle degli abitanti di Boros viene marchiata con eczemi cronici e cominciano a nascere bambini deformi. I segni di un massiccio inquinamento ambientale permeano l’intera narrazione, con riferimenti puntuali e ricorrenti al disastro dell’Aral; tuttavia, a questi dati di realtà si affianca una dimensione animistica altrettanto pervasiva. Lo Spirito che dimora sul fondo del lago è arrabbiato e sta punendo il villaggio per una colpa che sembra riguardare anche Nami.
Il lago prende la vita di suo nonno durante una tempesta e, in un secondo momento, anche l’esistenza della nonna giunge a termine tra le sue acque. Da questo episodio straziante, in cui si mescolano riti sciamanici e metodi da regime totalitario – si può avvertire l’eco de La fattoria degli animali di George Orwell –, prende avvio il percorso di formazione di Nami, che passa attraverso prove sempre più terribili.
Il presidente del kolchoz si insedia in casa sua, trattandolo alla stregua di un servo. Quando le circostanze peggiorano a tal punto da privarlo di ogni dignità e affetto rimastogli, Nami decide di andarsene da Boros e raggiungere la capitale.
In città, le sue giornate sono scandite dagli insalubri lavori di fatica in cui viene impiegato, mentre nei momenti liberi gira per le strade e i locali pubblici con l’irrealistica speranza di imbattersi in sua madre. Sull’asfalto fresco che deve stendere attorno alla fabbrica di zolfo Nami «disegna di nascosto il suo dolore; le grandi mani della nonna, la curva di un corpo femminile, le galline nel pollaio puzzolente, i tre triangoli».
Non appena lo sfiora un po’ di umanità e tenerezza, arriva una nuova batosta. La Vecchia Vergine inghiotte tutto, lettore incluso. L’impatto della scena è devastante e viene ulteriormente rafforzato dallo stile letterario di Bellová. La sua scrittura scarna, cruda, priva di qualsiasi raffinatezza o eufemismo arriva diretta e lancinante come una coltellata, accordandosi alla perfezione all’andamento narrativo. A questo punto del romanzo, il timore che Nami non sia destinato a trovare pace comincia a profilarsi in modo netto, raggelante.
Quando entra a servizio del losco e facoltoso Johnny, la violenza delle vicende in cui viene coinvolto è talmente estrema da caricarsi di contorni surreali e raggiunge l’apice in quella corsa disperata, zigzagante fino al dorso della collina, dove rotola in cerca di riparo. Bellová, con una maestria letteraria indiscutibile, aveva già mostrato un episodio analogo, quando Nami era ancora a Boros, ma la sua valenza è ora del tutto diversa. Non si tratta più della fuga di un ragazzino impotente e sconfitto dagli eventi; la crescita interiore di Nami è in atto, ormai sta imparando a reagire ai soprusi e a difendersi.
La sua ribellione segna una svolta quasi fiabesca; viene infatti accolto dalla Vecchia dama che, come una fata madrina in piena regola, conosce tutto di lui e lo guida verso una nuova tappa del suo viaggio.
Nello svelamento finale, Bellová riconferma il suo talento: una prefigurazione di quanto sarebbe accaduto era già stata messa davanti agli occhi di Nami, quand’era ancora quel ragazzino di Boros che adesso non esiste più.
La sensazione è che non sia possibile conoscere quale sia davvero la verità. O, forse, una versione non esclude l’altra. Al lettore la scelta. Una cosa è certa: lo Spirito del lago è arrabbiato, e a ragione. Tuttavia, qualcosa può essere ancora recuperato e chissà se non spetterà proprio a Nami un intervento risolutivo.
Chiara Meistro
Miraggi edizioni sta portando avanti un programma editoriale di pubblicazione e ripubblicazione di autori della Repubblica Ceca, grazie all’interesse e alla cura di Alessandro De Vito.
Il buon scrivere può ancora in qualche modo sorprenderci, se solo lo lasciassimo succedere! Ma possono sorprenderci anche le testimonianze dirette, quelle in cui si dicono parole. Non è il caso di opporre resistenza alle belle parole. Per questo, bisogna sempre seguire il consiglio di leggere cose belle e ascoltare parole importanti. Mercoledì 10 aprile ai Diari è accaduto di ospitare un evento di caratura internazionale con la presentazione del libro “La corsa indiana”, esordio nel 1990 di Tereza Boučková,tradotto in Germania, Olanda e Ungheria e per la prima volta in Italia da Miraggi edizioni nella Collana Novàvlna.
Una testimonianza forte, intensa anche se la lingua era il ceco. Con due occhi luminosi come laghetti e un sorriso costante, fermo questa donna, dissidente e figlia di dissidenti, anche quando il racconto diventava duro e di forte emotività ha toccato il cuore di tutti noi. Si parlava di padri assenti, grandi letterati, grandi politici, grandi ideali. Si parlava di occupazione e carri armati. Di sogni di libertà stroncati. Di figli persi nella droga e nella Libertà. Quella testimonianza di vita spezzava le vene delle mani, in un silenzio irreale, che neanche i colpi di tosse miei e di Laura Angeloni andavano a intaccare. Il nostro angolo di cultura, succede sempre più spesso, che schiude in queste circostanze orizzonti, aggancia ricordi, richiama eventi. Dovevamo presentare un libro, “La Corsa Indiana”, e invece tutti si sono ritrovati con gli occhi gonfi di lacrime e il cuore che batteva forte.
Con l’autrice la sua sua voce italiana Laura Angeloni, molto conosciuta tra i nostri lettori per aver tradotto precedentemente un altro libro parecchio apprezzato, “Il lago” di Bianca Bellová, sempre della stessa Collana di Miraggi, NovàVlna. Si tratta di nuova collana italiana di letteratura ceca che prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca degli anni della Primavera di Praga.In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali. Questo carattere di “nouvelle vague permanente” è disseminato in tutta la sua storia: alle opere di nuovi autori si affiancheranno in un progetto organico recuperi di testi preziosi ingiustamente dimenticati e altri incredibilmente mai giunti al pubblico italiano.
“La Corsa Indiana” è un romanzo breve o racconto lungo come più ci aggrada chiamarlo, fu pubblicato per la prima volta nel 1988 in un’edizione samizdat e vinse nel 1990 il prestigioso premio letterario Jiří Orten.
Narrata in prima persona è una prosa vivace, originale e riccamente autobiografica che segue la vita della protagonista dalla nascita fino all’età adulta. Quando l’autrice è la figlia di Pavel Kohout, noto intellettuale dissidente, scrittore e drammaturgo, attivo nel circolo delle persone più in vista dell’underground di quegli anni, una storia autobiografica non è esattamente quel che si dice innocua, specialmente se la narrazione si attiene ai fatti accaduti non risparmiando le personalità più note (nel racconto compare, col soprannome di Monologo, anche l’ex presidente Vaclav Havel che la Boučková ha avuto modo di conoscere da vicino), pur celandole sotto ironici soprannomi. Una scrittura catartica che ripercorre l’infanzia vissuta con la madre Alfa e i due fratelli Luna e Raggio di Sole, dopo che il padre, qui chiamato l’Indiano, li abbandonò per trasferirsi all’estero con Musa, la sua nuova donna, dimostrando verso di loro un disinteresse quasi assoluto. E poi la giovinezza, gli amori e le difficoltà della madre Alfa, il matrimonio, la ricerca disperata di un figlio. Infine l’adozione di due bambini, le gioie e difficoltà della nuova vita, e finalmente, inaspettato, un ventre che germoglia. “Il tuo libro è pieno di rabbia e bugie. Mi auguro che non lo pubblicherai così. Ecco l’Indiano, che dopo dodici anni è tornato a casa”. Ma Tereza Boučková il suo libro lo pubblicò. Esattamente come l’aveva scritto.
IL LAGO – Bianca Bellová, edito da Miraggi Edizioni.
Tutti serbiamo dei ricordi della nostra infanzia che custodiamo gelosi nello scrigno della nostra memoria. Ricordi che divengono veri e propri luoghi dell’anima, e in cui ci rifugiamo nei momenti in cui la vita ci sembra insopportabile.
Ricordi che possono essere una stanza, una canzone, uno sguardo, o semplicemente un profumo.
Nel caso di Nami son tre macchie rosse di un costume, e quella voce muliebre che lo placa, lo rasserena.
Nami vive in una piccola e sconquassata casetta di Boros, piccolo villaggio affacciato su un lago ove si vive principalmente di pesca. Vive insieme ai nonni materni. Dei suoi genitori non sa quasi nulla, e quando chiede qualcosa tutti cambiano discorso.
Ma lui ricorda, ricorda sempre quelle tre macchie rosse, e quella voce.
Nel frattempo il lago, mese dopo mese, si ritira, in una sorta di bassa marea senza fine; lago che provoca rush cutanei con talvolta conati di vomito a chi ci si immerge per un bagno. Anche i pesci cominciano a scarseggiare.
Lo Spirito del Lago è infuriato, si dice.
Boros lentamente cade nella miseria.
(Il lago, seppur nel romanzo non venga mai citato, è il Lago Aral, che infatti sotto l’occupazione russa si prosciugò quasi totalmente in quanto i russi deviarono i corsi di alcuni fiumi immissari per irrigare immense piantagioni di cotone, provocando così un’immensa catastrofe ecologica, forse una delle peggiori del novecento)
Dopo la morte dei nonni, mentre il Lago prosegue nella sua disastrosa ritirata, deglutendo e trascinando via vite, sogni, oggetti e segreti, Nami, malgrado non abbia indizi, decide di partire per andare alla ricerca di quelle tre macchie rosse e di quella voce che da piccolo lo coccolava.
Nel suo rocambolesco viaggio vedremo Nami farsi uomo (da Larva a Imago) e di peripezia in peripezia, infine, sanguinante, scalfito, levigato, lo vedremo tornare a Boros, per poter chiudere così il cerchio della sua affannata ricerca.
Lo stile è accuratamente asciutto, rugoso, frutto di un raffinato lavoro di erosione e affilamento, che accresce la forza narrativa del testo; il tutto accompagnato da una dose, mai eccedente, di lirismo.
Insomma: solo come i grandi autori sanno fare, Bianca Bellovà, resta in ombra facendosi serva della storia, in un libro che ha la potenza del romanzo storico, seppur non essendolo affatto, e l’affilatezza del romanzo di denuncia, senza mai essere pedante.
Insomma. Un romanzo che è un piccolo capolavoro. Che farei leggere in tutte le scuole e che consiglierei a chiunque, a prescindere dai gusti e dall’età.
(I complimenti alla traduttrice Laura Angeloni, immensa; e grazie a chi questo libro lo ha portato in Italia, Alessandro De Vito e Mendo Fabio Mendolicchio; e infine grazie ad Angelo Di Liberto, che come al solito consiglia e spaccia libri pazzeschi).
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La playlist che ho associato a questo romanzo, come sempre spazia diversi generi. Ci tengo a precisare che non ho preso in analisi il significato dei testi delle canzoni, ma mi sono lasciato ispirare solo dalla musicalità, considerando la voce come uno strumento.
Inoltre vi avviso che nella didascalia canzone per canzone vi sono numerose anticipazioni.
Ecco dove ascoltare la playlist: https://open.spotify.com/user/11138896871/playlist/2SMZcXurr11uZo3kdALKgO
1) Outro (Preludio al ritorno) – Nefesh: Questo brano a mio avviso s’intona bene al romanzo. E’ un preludio. Tutto deve ancora accadere. Cinematograficamente è come se stessimo vedendo il Lago dall’alto, ancora immenso, prosperoso, che bagna la Capitale brulicante di vita e tutti gli altri villaggi sparsi sulla riva. Le case, viste da quassù, son puntini. Poi lentamente la cinepresa scende, sino a lambire la superficie increspata del Lago, e comincia a muoversi a fior d’acqua alla volta di Boros. Raggiungiamo così le barche attraccate nel porto, troneggia la rupe di Kolos, e cominciamo a risalire la via centrale, polverosa, che risale la collina dove sorgono le casupole dei pescatori, case in muratura, solide, di solito a un piano solo, tranne un paio che ne hanno due. Ed è proprio su una di queste che la ripresa tergiversa, sino a fermarsi sull’uscio. E’ la casa ove Nami vive insieme ai nonni. E con la fine della traccia, il video sfuma.
2) Gobi road (acoustic) – Tengger Cavalry: Minuscola cavalcata sonora vagamente nostalgica e vagamente noiosa (come possono essere noiosi certi pomeriggi d’estate in un minuscolo villaggio di pescatori) con la quale si entra nel vivo della narrazione. Con questa traccia in sottofondo Nami lentamente da Uovo si fa Larva, e flash veloci si rincorrono. Le prime immagini sono di un Nami fanciullo, è tra le braccia del nonno che immergendolo nel Lago quasi lo affoga, poi le favole che gli narra la nonna sullo Spirito del Lago, il Giorno della Pesca interrotto da un nubifragio, il nonno disperso insieme ad altri pescatori, la scuola, le prime scaramucce fra compagni, Zaza, il primo invaghimento, e la nonna issata su una zattera data in pasto al Lago, il presidente del kolchoz che s’impossessa della casa ove vive Nami, i colpi a sangue, le notti nel pollaio, i russi che violentano Zaza sotto gli occhi impotenti di un Nami adolescente, e infine la decisione di quest’ultimo di partire per la Capitale, alla ricerca, senza un indizio che sia uno, di quelle tre macchie rosse di un costume.
3) Aerials – System of a down: Nami, dopo un viaggio di nausea e febbre a bordo di un battello, giunge nella Capitale. E’ lì, in piedi, Larva, appena sbarcato. Davanti a sé un mondo nuovo. Sbalordito spaurito spaesato speranzoso, comincia a muovere i primi passi. Ma presto la Capitale lo inghiotte, e di nuovo flash rapidi che si rincorrono. La fila alla Borsa del lavoro, notti trascorse all’addiaccio, l’attesa, poi lavori estenuanti che lo riconsegnano alla vita sfinito, senza più forze, il Bordello Sinfonia, le lunghe passeggiate senza meta alla vana ricerca di quelle tre macchie rosse di un costume, un collega che diventa quasi un amico, ma che presto perde, come perde diversi lavori tra cui quello di tuttofare di Johnny, esperienza lavorativa che si conclude quasi tragicamente e da cui viene salvato da Vaska che lo consegna, infine, alla Vecchia dama che, commossa dalle sue gesta, raccoglierà informazioni intorno a sua madre e gli indicherà la via per ritrovarla.
4) Arto – System of a down: Kuce, con questa traccia siamo improvvisamente in mezzo al deserto, in un minuscolo villaggio dedito alla raccolta del cotone. E Nami, Crisalide, qui la ritrova, riabbraccia lo sguardo di sua madre, un madre che stenta a riconoscere, e si abbandona febbricitante alle sue cure. Ma presto la pace raggiunta e quel barlume di felicità si disperdono al vento, come polline. Nami sente che deve tornare a Boros, vorrebbe tornarci con sua madre, ma lei no, al Lago non vuole e non può tornarci, e così, da solo, intraprende il viaggio a ritroso.
5) Summon the warrior – Tengger Cavalry: Un Nami Imago dunque fa rientro nella Capitale, che nel frattempo è sfigurata, ammutolita, con carcasse di automobili bruciate al bordo delle strade e pattuglie russe che han dovuto sedare rivolte autoctone. Il Lago continua la sua inesorabile ritirata, mentre tutto si fa decadente, compresa la villa della Vecchia dama, dove Nami alloggia per un po’, il tempo di farle fiorire una rosa bianca per poi ripartire alla volta di Boros. Questa volta a piedi, masticando forse rabbia, pensieri, e poco cibo; Quando giunge però (ri)trova una Boros che sotto le sferzate inesorabili del tempo quasi non riconosce. Sconforto, rabbia, impotenza, stanchezza. Rivede anche Zaza, incinta, che nel frattempo s’è fidanzata con Alex, suo ex-compagno di scuola, e infine, tornando nella sua vecchia casa vi trova ancora il presidente del kolchoz. Sta poco, giusto il tempo di raccogliere informazioni sul suo presunto nonno paterno, e riparte.
6) Ceasuri Rele – Negura Bunget: Con questa traccia m’immagino Nami, di notte, davanti al Lago. Non vi è alcuna descrizione di questa scena nel libro, è mia immaginazione. Ma mi sembra di vederlo, Nami, innanzi a questa entità sempre presente nella sua vita, il Lago, un protagonista a tutti gli effetti (che a tratti sembra quasi il suo antagonista), che respira davanti a lui, tenebroso, emaciato. E Nami piange, singhiozza, si lamenta, gli parla, e urla, liberatorio, disperato, rabbioso, rivolgendosi allo Spirito del Lago, o forse a sé stesso. O forse a nessuno.
7) Against the nature – Gogol Bordello: Infine, il finale. Anche questo di mia immaginazione. Capita infatti che finito di leggere un libro, di quelli che restano e sedimentano, si continui a fantasticare intorno a questo, abbozzando finali quando questi son aperti, o semplicemente fantasticando sul futuro dei personaggi. Io, finito di leggere questo libro, mi sono immaginato questa scena. Mi sono immaginato che Nami, dopo averlo conosciuto, resta a vivere col presunto (anche se poi non sembra esserlo) nonno paterno. E mi sono immaginato che quasi tutti i giorni, dopo essersi immersi insieme nel Lago alla ricerca di oggetti, corpi, ricordi, frammenti di vite, e dopo aver mangiato insieme pane fritto e uova strapazzate, si siedono in riva al Lago, al tramonto, suonando e canticchiando insieme questa canzone: Against the nature.
Forse loro padre non aveva detto così. Non si riusciva a capire molto. Parlava in continuazione. Oppure muoveva solo la bocca, ed Emil aveva messo insieme in questo modo le parole che era riuscito ad afferrare (…) Emil a tratti guardava dalla finestra, dove il sole calava nel bosco. Emil lo capiva, suo padre era nel miglior posto dove potesse essere, stava andando dal suo primo figlio appena nato.
Chiedi a papà, di Jan Balabán (traduzione di Alessandro De Vito), terzo volume uscito per la collana NováVlna di Miraggi edizioni), è l’ultimo manoscritto su cui ha lavorato l’autore ceco prima di morire, prematuramente, nel 2010. Si tratta di un testo impeccabile, semplice e profondo sul destino umano: una storia familiare, raccontata attraverso monologhi, riflessioni interiori e dialoghi veloci, secchi (significativa la scelta di eliminare le virgolette nel discorso diretto).
Il medico Jan Nedoma muore e i figli e la madre devono far fronte, inaspettatamente, a scheletri che escono dall’armadio del padre, ad accuse di complicità con il vecchio apparato comunista e di corruzione. Nell’evolversi del lutto e del dolore l’intreccio traccia un percorso, fatto anche di nebulosi – o al contrario vividi – ricordi, senza mai diventare un nostalgico atto d’accusa al passato collettivo della nazione. Quello che interessa a Jan Balabán è sviscerare, dai suoi personaggi, le tecniche per catturare i pochi istanti d’amore di un’esistenza, per reclamare qualche gesto di dignità umana in un mondo penoso: Da un lato volevano fotterti, dall’altro ti odiavano perché li fottevi (…) Non facevano che mentirsi e sorvegliarsi a vicenda, finendo per sfogare lo stress in grandi bevute.
Un altro giorno di ferie. Aveva cominciato a bere già il secondo o il terzo giorno. Be’, forse non del tutto. Del secondo giorno parleremo dopo. Iniziamo col primo. Kowalski non sapeva che i cani morissero con gli occhi aperti. Krenz in seguito gli disse che era impossibile che morissero con gli occhi aperti, ma Kowalski lo aveva visto: Babsi aveva gli occhi aperti.
Il mago, di Magdalena Parys (traduzione di Alessandro Amenta; Mimesis Edizioni), libro vincitore del Premio Letterario dell’Unione europea, è un noir ruvido, ipnotico e completo, amalgamato con la storia recente di un vasto territorio: l’Europa divisa dalla cortina di ferro. L’autrice, nata a Danzicanel 1971 e cresciuta a Berlino Ovest, tesse un mosaico di colpi di scena, innescati dal ritrovamento, in un palazzo abbandonato a Berlino, del corpo di un impiegato agli Archivi della Stasi, e della scomparsa di un fotoreporter tedesco a Sofia. Il disilluso, stanco ma efficace, commissario Kowalski indaga per conto proprio e scopre segreti che collegano l’epoca del Muro ai giorni nostri.
Il mago è un romanzo dallo stile veloce, metropolitano, dalle tinte grigie, con una narrazione strutturata utilizzando un totale punto di vista ottico. L’emotività dei personaggi e le inaspettate sorprese che costellano l’intreccio sono fotografate, come istantanee; e il linguaggio, cinico e realista, non regala sconti: La guerra migliore è sempre quella più vecchia. La prima guerra, la precedente, quasi fosse meno crudele. Bella questa utopia, questa vendita all’asta militare. Forse la seconda guerra mondiale, che per lei e per suo padre era stata più crudele, le si era cancellata dalla memoria (…) e aveva pensato che a volte in questo mondo di merda anche le malattie valevano qualcosa.
Il regista Jan Nemec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime. Si accorda dunque al suo animo fiammeggiante il titolo italiano del suo libro “Volevo uccidere J. L. Godard”, una raccolta di 31 racconti autobiografici tra il memoir, l’aneddoto e l’apologo grottesco pubblicata in Italia da Alessandro De Vito, traduttore ed editore con Miraggi edizioni(pagg. 288, euro 17,00). Domani mattina De Vito presenterà il volume alle 12 al Caffè San Marco nell’ambito del Trieste Film Festival, del quale Nemec era stato ospite nel 2004.
«Sono di origine cecoslovacca da parte di madre, quindi ho un interesse personale per il paese», spiega De Vito. «In più mi sono laureato con una tesi sulla Nova Vlna, forse anche più importante della nouvelle vague francese: a Praga gli intellettuali, i teatranti, i cineasti e gli scrittori, come anche Hrabal, facevano funzione effettiva di opposizione politica».
I 31 racconti, scritti dal 1970 al 1990, «sono la storia di un uomo libero che ha fatto le sue scelte di vita anche rischiando, come quando, nel 1974, ha lasciato la Cecoslovacchia dove gli era impedito di lavorare, e ha vissuto negli Stati Uniti facendo film di matrimoni. Però non si è mai piegato». Nemec è stato anche un goliarda, un autentico viveur, un irrequieto che amava le feste e le donne, sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová.
La sua prosa schietta trabocca delle speranze della Primavera di Praga, delle disillusioni del post-invasione, e poi di tanta vita, sesso, amori, riflessioni taglienti. Il titolo del libro deriva dalla sua personale cronaca di quel cruciale Festival di Cannes del 1968: «Voci di corridoio dicevano che un premio sarebbe andato a Nemec, in concorso con “La festa e gli invitati”, Forman o Menzel», racconta De Vito. «Invece durante il festival scoppiò il maggio francese e registi “engagées” come Godard e Truffaut proposero di interrompere la manifestazione. La premiazione non si tenne. Nemec rimase arrabbiatissimo: vedere degli occidentali “comunisti” che volevano fare la rivoluzione era per lui un contrasto di campo totale, e in più un premio a Cannes avrebbe dato una svolta alla sua carriera».
Tra i racconti c’è anche quello, surreale e iperbolico, dell’infarto che lo avrebbe colto durante un rapporto sessuale e dal quale si sarebbe salvato letteralmente “stringendo le chiappe” per contrastare il rilascio degli sfinteri. «Nemec si appassiona quando parla del destino del suo popolo e dell’arte, valori assoluti, ma un minuto dopo magari sta pensando al seno di una donna». Ed è rocambolesco il racconto di come Nemec fece filtrare in Occidente le immagini dell’invasione sovietica che poi usò nel suo documentario “Oratorio per Praga”: «Aveva una macchina da dandy, una cabriolet Fiat 850, e conosceva la moglie di un funzionario dell’ambasciata italiana a Praga», dice De Vito. «Insieme alla ragazza e al diplomatico – racconta il traduttore del libro – si è finto italiano per varcare la frontiera con l’Austria e portare a Vienna il negativo. La mattina dopo, la televisione austriaca ha mostrato quelle immagini a tutto il mondo». –
NováVlna è il nome dato alla Nouvelle vague cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. Un nome appropriato per questa nuova bella collana di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito e Laura Angeloni, che vuole far conoscere in Italia le opere di autori cechi inediti nel nostro Paese e altri ingiustamente dimenticati dall’onda quasi mai anomala dello sconfortante mainstream editoriale.
La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di BiancaBellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard di Jan Nĕmec(traduzione di Alessandro De Vito).
Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.
Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.
Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.
Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registicinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” StatiUniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.
Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Forman e Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.
Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.
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