QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Anna Vallerugo su Satisfiction
È la storia di un padre lontano dall’essere perfetto e che porta invece con sé una discreta summa di manchevolezze: latinista responsabile della realizzazione di convegni attesi e partecipati ma avversati dal piccolo politico di turno, fragile, inattuale insegnante promotore di scelte incomprese dai suoi studenti, il principale protagonista di Quando i padri camminavano nel vuoto è un uomo che negli anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gode di locale, limitatissima fama.
Gode anche però delle grazie di Ava, giovane donna di servizio che fa girare teste a uomini di ogni età, con cui usciva dalla sua cupezza, dalla sua infelicità sfilacciata.
Innamorato a suo modo pure della moglie, il professore cerca di mantenere salda la rotta della sua numerosa famiglia salvandosi la faccia agli occhi del mondo e a quelli straordinariamente attenti, indagatori, del figlio bambino, colui che narra la sua vicenda (e così facendo anche la propria) e che per lui tesserà un elogio di pietas e tenerezza che stupisce e commuove.
Lo sguardo del figlio nel farsi uomo coglie appieno lo smarrimento della generazione appena dopo il secondo conflitto bellico, quella con in mano le possibilità di un futuro da costruire ab ovo talvolta sprecate: un senso di spaesamento, sconfitta ineradicabile, sensazione di assenza di definizione di ruolo – tragicamente attuali – che chi narra già da bambino fiuta feroce.
Ogni tanto mi prendeva la voglia di non lottare più. Ascoltavo i grandi parlare. Dicevano sempre che il destino era così e così, che era scritto nel Grande Rotolo. Ogni tanto facevo il tifo per mio padre. Speravo che tenesse duro, che il destino in piena non se lo portasse via. Mi sembrava che a volte non avesse più voglia di lottare per uscire dalla corrente, ma che lottava invece per rimanerci a tutti i costi. Una grande nuotata collettiva, verso la foce del fiume. Mi immaginavo dove portasse il fiume. Il destino era questo fiume in cui ti immergevi e poi ti piaceva farti portare via, era bellissimo e irresistibile. Anch’io avrei voluto, purché con mio padre. Ma mio padre non si decideva, avrebbe voluto uscire dal fiume e restarci dentro contemporaneamente. Faceva un mucchio di cose strambe, che erano contemporaneamente di due segni opposti. Le faceva non solo per il suo dolore congenito, ma anche perché un pezzo della sua natura era anarchica. Ma contemporaneamente perché la sua natura non era abbastanza anarchica. Allora era fuori dalle righe sia quando faceva l’anarchico, sia quando non lo faceva.
Quando i padri camminavano nel vuoto, segnalato al Premio Calvino dal comitato di lettura con un altro titolo, I vivi e i morti, ora giustamente riproposto nell’accurata edizione di Miraggi, Collana Scafiblù, è un romanzo di sconfitta e resistenza, battute d’arresto, cadute, scelte esistenziali e sentimentali che si ripeteranno a specchio, nonostante tutto, anche nelle generazioni a venire, quelle che vivranno in periodi di maggiore saldezza.
Piergianni Curti, laureato in fisica, specializzato in didattica della matematica, dal nome al contrario proprio come il protagonista del romanzo, traccia con grande efficacia la storia di un padre naturale e di altri padri che il figlio-voce narrante ricerca per suo puntello, per non camminare nel vuoto, appunto:padriputativi, figure genitoriali di passaggio, che entrano ed escono – molto ben definiti caratterialmente – per mille ragioni dalla vita di questa famiglia raccontata con ironia.
Un’ironia efficace e benigna, il tratto più significativo di quest’opera, che è romanzo di formazione ma soprattutto di individuazione e tessitura coesa di frammenti, da cui usciranno infine non una, ma due figure difficili da dimenticare, poetiche, piene d’amore.
QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:
L’arte di raccontarsi in “Quando i padri camminavano nel vuoto” a cura di Eleni Molos su L’Indice Dei Libri
“Si può guardare dentro di sé in due modi, uno alla Montaigne, che è quello di guardare dentro con lo sguardo da fuori. L’altro, di non avere più nessuno sguardo esterno per guardarsi, e tu diventi il tuo buco nero, che ti attira inesorabilmente e diventa un abisso senza fine”. Se la ragione di tanta cattiva produzione letteraria è che gli autori si illudono che fare della terapia psicanalitica basti per scrivere un romanzo autobiografico, nel libro di Curti, Quando i padri camminavano nel vuoto – segnalato nel 2016 dal Comitato di lettura del Premio Calvino – troviamo esattamente il processo contrario: l’autore sa fare della bella letteratura, e questo affilato strumento gli serve, inevitabilmente, per indagare nei ricordi, riscrivendo la propria infanzia e risolvendo nella tessitura del romanzo tante ossessioni che lo perseguitavano da bambino. Scopriamo così che la sua più grande paura, quella di non saper distinguere i vivi dai morti, si è trasformata nella sua dote più grande di scrittore: saper riportare in vita tutti i suoi morti, in particolare suo padre e quei padri spirituali che con lui ha condiviso. Nelle righe del romanzo, la vita si decanta, si filtra attraverso una ammemorazione sentimentale, e ne rimane un distillato liquoroso e denso. Le più belle pagine di Curti richiamano alla mente autori come Romain Gary o Manuel Vilas, che hanno raccontato i propri genitori dosando tenerezza, ironia e disincanto. Lo scrittore descrive in lunghe pagine l’ostinazione del genitore, insegnante e intellettuale, a scrivere in latino, a trovare per tutto una verbalizzazione, guidato da una fede incrollabile nel potere della parola: scegliere le parole per addomesticare la realtà è l’unica forma possibile di vita, l’unico espediente per procrastinare la morte.
È un lascito gravoso da raccogliere, per un figlio, e il giovane Curti lo sa bene quando decide di studiare fisica, invece di seguire il richiamo forte della poesia. Tuttavia certe vocazioni non possono essere tradite, e anche i problemi matematici possono diventare narrazione e viceversa. D’altro canto, da uno dei suoi maestri d’infanzia ha appreso un altro stratagemma per depotenziare la morte: usare i numeri, invece dei nomi, per separare già in vita l’anima dalla sostanza corruttibile. Così un’altra ossessione del piccolo Piergianni, che fissa le lancette orarie dell’orologio per percepirne il moto, è diventata un’arma di Curti scrittore e matematico: saper fermare il flusso continuo della durata in attimi discreti, in appigli per non essere trascinati via. L’instabilità, infatti, è uno dei temi che più emergono: a partire dal titolo, l’autore ci descrive il difficile passaggio di epoca e di generazioni del secondo dopoguerra, in cui le certezze faticano ad affermarsi e gli adulti quanto i giovani annaspano alla ricerca di un’identità: tutto sembra ambivalente, passabile di più definizioni, tutto è cedevole e malsicuro per chi, come il padre dell’autore, fatica ad accettare etichette ideologiche.
Quando i padri camminavano nel vuoto, allora, è anche un romanzo storico, in filigrana, e un profondo romanzo di formazione: non solo dell’autore bambino, bensì anche, parallelamente, di suo padre: entrambi si educano a restare orfani di padri spirituali, entrambi imparano a diventare genitori l’uno dell’altro, e di se stessi. Nelle prime pagine del romanzo, vedendo una foto sbiadita del padre, Curti ne riconosce “lo sguardo serioso dei predestinati alla speranza”. È questa, forse, l’eredità più preziosa che ha ricevuto. Luigi Pintor, ne La signora Kirchgessner, riporta la frase di un anonimo secondo cui “si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanze, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo”. La predestinazione alla speranza è una condanna alla ricerca, e forse all’insoddisfazione, perché deve leggere dei segni che restano nascosti allo sguardo pigro e alle facili schematizzazioni. Tuttavia, è anche il dono della grazia, perché ha reso la sua scrittura acuta e capace di infinita indulgenza, ha dato spirito all’ironia e gli permette di trovare nel passato, nei morti e nei vivi, ricchezze inesauribili di senso. Da lettori, ciò sia anche un augurio per la prosecuzione del romanzo, che l’autore ci ha promesso e a cui sta già lavorando.
QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri
QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO
Nello studio, oltre, con ogni evidenza, alla laurea, risalta un’istantanea. Una foto in formato gigante, quasi a grandezza naturale, che lo ritrae giovane in divisa, per la precisione una di quelle da allievo ufficiale, in atteggiamento forzatamente militaresco, con tanto di stivali e spada. Spiccano gli occhi rotondi e le labbra carnose, marcate da punti angolosi decisi. Gli occhi del bambino che osserva l’immagine però si focalizzano su un oggetto intruso in quello studio di posa, che ha lo sfondo di una tela dipinta: un libriccino. Piccolo, quasi invisibile, spunta appena da dietro il tacco dello stivale, gettato in apparenza frettolosamente sul tappeto, forse scalciato verso il retro, per nasconderlo alla vista. Da bambino, quando guarda quella foto, il narratore sogna, o forse vede davvero, chissà che non sia così, la figura staccarsi dal fondo e avanzare verso di lui, a velocità impercettibile, come quella alla quale si muovono le lancette delle ore…
Il tempo del secondo dopoguerra è la mitologia dei tempi più recenti, un po’ come è stato il Risorgimento per diverse generazioni tempo addietro: è come se l’epoca del boom fosse ammantata di una sorta di aura di felicità, come se improvvisamente l’Italia fosse divenuta la terra promessa dove scorrevano latte e miele. Certo, i progressi, in ogni campo, dalle infrastrutture alla società, sono innegabili, e davvero per non trovare lavoro bisognava non aver voglia di farlo, ma gli avanzamenti sono pure minori di quanto avrebbero potuto essere, e se sono apparsi così sfavillanti è anche perché si partiva da una situazione di grande arretratezza, oltre che di orrore dittatoriale e bellico: gli anni Sessanta del Novecento, dunque, non sono quasi mai raccontati con toni meno che iperbolici ed entusiastici. Curti, classe ’43, torinese, laureato in fisica, docente di matematica, autore di poesie, racconti, gialli, testi drammaturgici, direttore di festival, teatri e compagnie, porta invece con mano sicura il lettore, per così dire, a visitare la faccia nascosta della luna, descrivendo lo smarrimento della generazione che ha fatto la guerra – in piena sintonia col tema primonovecentesco dell’alienazione dell’uomo moderno – rappresentata da un latinista di provincia piuttosto sfortunato e al tempo stesso lo sguardo dei figli, che non solo cominciano a vivere i primi palpiti del cuore, ma sempre più cercano la propria strada lontano dal solco tracciato da chi li ha preceduti.
QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:
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