Quante volte abbiamo cercato di fuggire, scivolando tra le pagine per giungere laddove non saremmo mai riusciti ad arrivare da soli? E quante altre abbiamo invece mendicato conforto, provando a cogliere gli scorci di una quotidianità troppo spesso data per scontato?
Il titolo di questa raccolta di racconti, pubblicata da Miraggi Edizioni a ottobre 2019, potrebbe apparire emblematico, ma smetterà di esserlo dopo poche pagine. La vita moltiplicata è la storia di Livio, di Ascanio, di Marcello, e di tutti quelli che davanti a una vetrina hanno smesso di guardare solo il proprio riflesso. Molteplici i protagonisti, molteplici le vicende, in equilibrio tra realtà e mondo onirico.
L’autore, Simone Ghelli, non è uno scrittore al suo esordio ma già autore di altre opere, come Non risponde mai nessuno, e racconti pubblicati su varie riviste letterarie, tra le quali Cadillac Magazine. Se siete curiosi di saperne di più, troverete recensioni e altro alla pagina: https://genomis.wordpress.com/.
Con la sua scrittura, Simone Ghelli avvicina il lettore a piccoli passi per poi catturarlo completamente, attraverso un lessico fluido ed essenziale.
Nel suo racconto, chiaramente autobiografico, Grossi si dipinge come un grumo di rabbia e disperazione conficcato nella carne di una città ormai marcia. Non è l’unico, ne vede tanti intorno a sé, pronti a rivalersi sui vecchi, sui bambini, sui brutti, sui grassi, sui poveri di tasca e di spirito. Grossi si vede così perché sta diventando così; anzi, è già così. È il prodotto precotto di una società che li ha ingozzati di sogni, che li ha tirati su come polli da batteria per poi farli sedere a una tavola apparecchiata con gli avanzi. Grossi vede la sua vita come il resto di qualcos’altro e ogni giorno si sente come se avesse i postumi senza essersi preso una sbronza”.
Per la playlist ringraziamo l’autore, che ha accettato con grande disponibilità di crearla e condividerla con Read and play. I brani sono quasi tutti strumentali: “Anche se non corrispondono esattamente ai racconti rispecchiano le atmosfere dilatate e oniriche”.
La perlina sul fondo, un libro contro la solitudine della quarantena
“Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere”.
Così Bohumil Hrabal, scrittore ceco tra i più significativi del Novecento, amato, censurato, boicottato, a seconda delle pieghe che prendeva la storia della sua Cecoslovacchia, tra conati di libertà, compromessi e normalizzazione.
C’è, a monte della sua scrittura, una ribadita volontà di contaminazione, volontà spinta ai limiti della sfida, che attraversa sostanzialmente tutti i suoi scritti, dagli esordi fino alla fine. Una sorta di masochismo funzionale, verrebbe da dire, se è vero che si è ‘andato a cacciare dove mai avrebbe voluto essere’.
In Italia Hrabal è conosciuto soprattutto per i romanzi Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto l’omonimo film di Jiří Menzel (Oscar miglior film straniero 1966), Ho servito il re d’Inghilterra, Una solitudine troppo rumorosa, ma è anche nei numerosi racconti raccolti in svariate edizioni, alcune delle quali uscite epurate dalla censura (o ricalibrate a causa di essa), che ci viene incontro il manovale-scrittore, pronto a sporcarsi le mani frequentando i bassifondi di una Praga non proprio magica, fatta di bische clandestine e birrerie, e delle sue periferie di campagna percorse in sella a moto da corsa o grazie a fortunosi passaggi in macchina.
Soffermandosi a osservare e ascoltare o cacciandosi dentro, appunto, mimetizzato e confuso tra gli operai di un’acciaieria, di un deposito di carta da macero, o dietro le quinte di un teatro a manovrare la scena, mentre si sta rappresentando Delitto e castigo, alla ricerca di un po’ di luce e bellezza che esiste e resiste anche dietro la scorza greve degli ultimi.
Anche a questo serve la scrittura, a scovare la perlina che riposa sul fondo di ognuno di noi, a raccontarla e farla brillare.
Si intitola La perlina sul fondo il primo libro di Hrabal pubblicato con successo a Praga nel 1963 e appena pubblicato in Italia da Miraggi edizioni nella collana NováVlna dedicata alla letteratura ceca, primo step di un progetto virtuoso che mira a compensare le lacune di traduzione di questo autore, di cui mancano ancora alcune opere fondamentali.
Si tratta di dodici racconti tradotti da Laura Angeloni, che ha compiuto un lavoro tutt’altro che semplice di adattamento di umori, slang, espressioni idiomatiche, gergo tecnico attinto a professioni, mestieri, ambienti diversi, anche ostici, non familiari, eppure vissuti e abitati come gli unici possibili.
Viceversa, la lettura richiede ad un tempo sospensione e immersione. Per questo leggerli in questi giorni di quarantena è stata una gran bella distrazione. Distillando e tornando più volte su alcuni di essi, soffermandomi su passi e momenti nodali, ho imboccato una via sterrata e laterale, liberandomi dal torpore ansiogeno della strada maestra.
Sono racconti che al plot principale affiancano e intrecciano storie secondarie, squarci di vita che tornano alla mente e prendono corpo in modo improvviso, a volte rocambolesco, nel bel mezzo di un incontro, tra le battute di un dialogo tra due sconosciuti, nei ricordi che decollano e subito planano quando meno te l’aspetti, mentre il racconto procede sicuro e con esso il lettore, ora a strattoni, ora ascoltando e scrutando senza fare domande, ora scartando di lato per cercare di scoprire qualcosa che ancora non gli è stato detto, dentro un tracciato fitto di riferimenti e rinvii e qualche sorpresa.
Difficile concentrarsi su un racconto soltanto, difficile rendere giustizia all’intera raccolta.
Perché in questo coro ininterrotto di voci che affabulano, stordiscono, raccontano e se la raccontano, tutte meritano ascolto e attenzione; in questo museo in divenire di facce, di corpi, di gesti, tutti chiedono di esser guardati, sorpresi, smascherati.
Il giovane dell’acciaieria che in mezzo ai ratti e al pane nero imburrato cascato a terra e ripulito alla meglio, racconta del parrucchiere che lo invita a scegliere tra l’acqua di colonia normale o alla violetta. I due moribondi sul letto di morte che non si può dire di più, ma sono un irresistibile monumento ai sepolcri imbiancati di tutti i tempi. Il traslocatore dalle mani callose e possenti che col palmo avvolge il bicchiere come se fosse un uccellino. La voluttuosa fornaia che morde rumorosamente le mele dopo averle strofinate sui seni. L’imballatore di carta da macero che finge di leggere l’editoriale di un vecchio giornale. Il povero diavolo disposto a vendere il suo scheletro alla scienza per racimolare due soldi che gli permettano di riallacciarsi alla corrente elettrica, o l’altro povero diavolo vittima di un assicuratore che non gioca pulito. Il cacciatore di frodo che si scoprirà essere altro, ma non si può dire. Resta l’immagine del capriolo ucciso al bordo di una strada, un brutto colpo andato a segno raccontato in presa diretta dal passeggero Hrabal, seduto di fianco.
E sono molte le scene che sembrano vissute in diretta, vivide e precise come note d’autore di una sceneggiatura che lascia poco al regista, e il lettore sta lì, intento a osservare, come lo spettatore di un film o il visitatore di una mostra di quadri.
Dieci racconti costellati da personaggi “divisi in loro stessi”. Storie di anime scisse che vivono in piani diversi della coscienza. In poche parole, Simone Ghelli dà voce a una prolifica commedia umana in cui nessuno si accontenta della realtà e che, pertanto, trova il suo habitat al di là dell’oggettività.
C’è un tempo esterno e un tempo interno. La percezione dell’uno e dell’altro origina un discorso intimo. Infatti, l’irreversibilità delle ore mai coincide con la reversibilità dei ricordi e con il futuro-presente in cui dimorano speranze e desideri. Eppure, è qui che tocchiamo con mano il patire, ossia, il “sentirsi”, che non vuol dire a tutti i costi “appartenersi”, anzi, spesso crea la famigerata incomunicabilità che si instaura tra mondo e soggetto.
Chi sono quindi i personaggi dei racconti di Ghelli?
Sicuramente, sono personaggi che dialogano con il disagio, che vivono un presente che non appartiene loro, che si difendono prendendo le distanze dal mondo pur attraversandolo con grande dignità. Eppure, nonostante i loro sentimenti contrastino con la realtà, essi cercano quel medium capace di instaurare un dialogo con la quotidianità. Insomma, per loro dar voce ai pensieri vuol dire moltiplicare i punti di vista attraverso cui valutare il Mondo. Le loro doglianze alimentano una rivolta solitaria che non esclude la Terra, ma ne allarga l’orizzonte.
È facile entrare nei pensieri di questi personaggi, Ghelli ha uno stile asciutto che prende per mano il lettore. Proprio il lettore è chiamato a seguire la trama, che non si sviluppa orizzontalmente, ma verticalmente. Si sale sempre di più fino a giungere alla sintesi perfetta, ossia, all’impatto con la quotidianità.
Cos’è la realtà secondo Ghelli?
Il mondo si addensa negli occhi di chi lo guarda, pertanto, non esiste l’oggettività, ma solo una intima decodificazione di tutto ciò che si percepisce. La realtà che lo scrittore ci pone davanti è quel gran spettacolo che ci coinvolge e che sa ingannarci. È quindi la soggettività il gran rifugio, una sorta di “camerino” in cui possiamo prendere fiato e ripetere il copione prima di tornare in scena. Fatto sta, che è difficile recitare una parte che non piace, ed è in quel momento che tutto diventa faticoso e farraginoso; anzi, impossibile da mascherare.
La perlina sul fondo, un libro contro la solitudine della quarantena
“Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere”.
Così Bohumil Hrabal, scrittore ceco tra i più significativi del Novecento, amato, censurato, boicottato, a seconda delle pieghe che prendeva la storia della sua Cecoslovacchia, tra conati di libertà, compromessi e normalizzazione.
C’è, a monte della sua scrittura, una ribadita volontà di contaminazione, volontà spinta ai limiti della sfida, che attraversa sostanzialmente tutti i suoi scritti, dagli esordi fino alla fine. Una sorta di masochismo funzionale, verrebbe da dire, se è vero che si è ‘andato a cacciare dove mai avrebbe voluto essere’.
In Italia Hrabal è conosciuto soprattutto per i romanzi Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto l’omonimo film di Jiří Menzel (Oscar miglior film straniero 1966), Ho servito il re d’Inghilterra, Una solitudine troppo rumorosa, ma è anche nei numerosi racconti raccolti in svariate edizioni, alcune delle quali uscite epurate dalla censura (o ricalibrate a causa di essa), che ci viene incontro il manovale-scrittore, pronto a sporcarsi le mani frequentando i bassifondi di una Praga non proprio magica, fatta di bische clandestine e birrerie, e delle sue periferie di campagna percorse in sella a moto da corsa o grazie a fortunosi passaggi in macchina.
Soffermandosi a osservare e ascoltare o cacciandosi dentro, appunto, mimetizzato e confuso tra gli operai di un’acciaieria, di un deposito di carta da macero, o dietro le quinte di un teatro a manovrare la scena, mentre si sta rappresentando Delitto e castigo, alla ricerca di un po’ di luce e bellezza che esiste e resiste anche dietro la scorza greve degli ultimi.
Anche a questo serve la scrittura, a scovare la perlina che riposa sul fondo di ognuno di noi, a raccontarla e farla brillare.
Si intitola La perlina sul fondo il primo libro di Hrabal pubblicato con successo a Praga nel 1963 e appena pubblicato in Italia da Miraggi edizioni nella collana NováVlna dedicata alla letteratura ceca, primo step di un progetto virtuoso che mira a compensare le lacune di traduzione di questo autore, di cui mancano ancora alcune opere fondamentali.
Si tratta di dodici racconti tradotti da Laura Angeloni, che ha compiuto un lavoro tutt’altro che semplice di adattamento di umori, slang, espressioni idiomatiche, gergo tecnico attinto a professioni, mestieri, ambienti diversi, anche ostici, non familiari, eppure vissuti e abitati come gli unici possibili.
Viceversa, la lettura richiede ad un tempo sospensione e immersione. Per questo leggerli in questi giorni di quarantena è stata una gran bella distrazione. Distillando e tornando più volte su alcuni di essi, soffermandomi su passi e momenti nodali, ho imboccato una via sterrata e laterale, liberandomi dal torpore ansiogeno della strada maestra.
Sono racconti che al plot principale affiancano e intrecciano storie secondarie, squarci di vita che tornano alla mente e prendono corpo in modo improvviso, a volte rocambolesco, nel bel mezzo di un incontro, tra le battute di un dialogo tra due sconosciuti, nei ricordi che decollano e subito planano quando meno te l’aspetti, mentre il racconto procede sicuro e con esso il lettore, ora a strattoni, ora ascoltando e scrutando senza fare domande, ora scartando di lato per cercare di scoprire qualcosa che ancora non gli è stato detto, dentro un tracciato fitto di riferimenti e rinvii e qualche sorpresa.
Difficile concentrarsi su un racconto soltanto, difficile rendere giustizia all’intera raccolta.
Perché in questo coro ininterrotto di voci che affabulano, stordiscono, raccontano e se la raccontano, tutte meritano ascolto e attenzione; in questo museo in divenire di facce, di corpi, di gesti, tutti chiedono di esser guardati, sorpresi, smascherati.
Il giovane dell’acciaieria che in mezzo ai ratti e al pane nero imburrato cascato a terra e ripulito alla meglio, racconta del parrucchiere che lo invita a scegliere tra l’acqua di colonia normale o alla violetta. I due moribondi sul letto di morte che non si può dire di più, ma sono un irresistibile monumento ai sepolcri imbiancati di tutti i tempi. Il traslocatore dalle mani callose e possenti che col palmo avvolge il bicchiere come se fosse un uccellino. La voluttuosa fornaia che morde rumorosamente le mele dopo averle strofinate sui seni. L’imballatore di carta da macero che finge di leggere l’editoriale di un vecchio giornale. Il povero diavolo disposto a vendere il suo scheletro alla scienza per racimolare due soldi che gli permettano di riallacciarsi alla corrente elettrica, o l’altro povero diavolo vittima di un assicuratore che non gioca pulito. Il cacciatore di frodo che si scoprirà essere altro, ma non si può dire. Resta l’immagine del capriolo ucciso al bordo di una strada, un brutto colpo andato a segno raccontato in presa diretta dal passeggero Hrabal, seduto di fianco.
E sono molte le scene che sembrano vissute in diretta, vivide e precise come note d’autore di una sceneggiatura che lascia poco al regista, e il lettore sta lì, intento a osservare, come lo spettatore di un film o il visitatore di una mostra di quadri.
Bettolacce, risate e Bohème. Le perle più belle di Hrabal
C’è un racconto di Bohumil Hrabal che si intitola Gli impostori. Fa parte del libro di esordio dello scrittore, nella Cecoslovacchia del 1963, dal titolo La perlina sul fondo e che appare oggi per la prima volta in Italia (Miraggi edizioni, pagg. 256, euro 20; trad. Laura Angeloni, a cura di Alessandro Catalano). Parla di un giornalista e di un cantante d’opera ricoverati nella stessa stanza d’ospedale che si confortano a vicenda raccontandosi i loro più grandi successi in carriera, scoop e trionfi. Cambio di scena (Hrabal nel montaggio dei suoi racconti è sempre molto cinematografico, ed è molto amato dal cinema): i due sono cadaveri, sul tavolo dell’obitorio, e dai pettegolezzi scambiati tra il barbiere che li sta rasando prima della sepoltura e l’addetto alla camera mortuaria si viene a sapere che il giornalista non era proprio una grande firma, al più uno scribacchino della cronaca locale; e il cantante non era proprio un divo, semmai una terza fila del coro… Ah, poi c’è il barbiere che dopo aver biasimato i due impostori, uscendo dall’obitorio col camice bianco svolazzante, si compiace nel farsi scambiare dai pazienti dell’ospedale per un dottore… Del resto «è pieno di gente che confonde quello che avrebbe voluto essere con quello che è davvero».
Ecco, Bohumil Hrabal (Brno, 1914 – Praga, 1997), uno dei massimi scrittori cechi del ‘900, non ha mai confuso le due cose. È sempre stato quello che voleva essere, non ha mai voluto sembrare quello che non era. Ed è stata la fortuna della sua scrittura: fatta di naturalezza, istinto, spontaneità. Ciò non toglie che si trovasse bene con gli impostori, e i balordi, chiacchieroni, sbruffoni, fantasticatori. Erano il suo mondo, a cui non fingeva di non appartenere. E nel quale sguazzava, come uomo e come scrittore. Nella sua brevissima introduzione alla raccolta di racconti La perlina sul fondo Hrabal confessa: «Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano». E la «perla» è quella cosa che alla fine ci salva.
Comunque, Hrabal pubblicò il suo primo libro abbastanza tardi, a 49 anni, nel 1963. Sfruttò la stretta finestra di disgelo culturale che si aprì in Cecoslovacchia, Paese satellite di Mosca, tra il rigido realismo socialista degli anni Cinquanta e il nuovo giro di vite post ’68, quando la Primavera di Praga appassì sotto i cingoli dei carri armati sovietici. Insomma, infilandosi tra stalinismo e normalizzazione riuscì a pubblicare i primi libri. Certo, molto aveva scritto, tra poesie e narrativa, in gioventù, ma era rimasto alla stato di Samizdat, tra censure e circolazione underground, e il primo saggio critico sull’opera di Hrabal, un libro clandestino che girava tra i circoli intellettuali alternativi di Praga, è firmato addirittura da un giovanissimo Václav Havel, futuro presidente del Paese dopo la caduta del Muro… Ed ecco quindi i racconti, popolari e popolareschi, ai quali diede il titolo La perlina sul fondo. Che accesero – e lo spiega molto bene Alessandro Catalano nella lunga postfazione – una vera luce nel grigiore socialista. Nella letteratura ceca all’improvviso esplode una nuova lingua, uno nuovo stile, nuovi temi: ecco i «discorsi della gente», l’inventiva linguistica, il «parlato quotidiano», lo slang, il goliardico, la creatività popolare dei suoi personaggi, che facevano i mestieri che aveva fatto lui: apprendista in uno studio notarile, magazziniere in una cooperativa di ferrovieri, operaio nelle acciaierie Poldi, addetto in un deposito di carta (dove si maceravano i libri bloccati dalla censura…), macchinista di scena e comparsa a teatro… Qui c’è già tutto lo Hrabal successivo, l’autore di libri amatissimi come Vuoi vedere Praga d’oro? o Treni strettamente sorvegliati (che, portato sullo schermo da Jiří Menzel, vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 1968), Ho servito il re d’Inghilterra o Una solitudine troppo rumorosa (fatti conoscere in Italia da e/o, Einaudi, Guanda e finiti anche in «Meridiano» Mondadori nel 2003) e qui, soprattutto, c’è il gusto per il racconto orale, per la battuta, aneddoti bizzarri, pettegolezzi comici, situazioni surreali. Storie di sesso, crapula e anarchia… È la Praga buffa contro la Praga magica, la Praga delle birrerie contro la Praga dei caffè, la realtà umana contro il realismo socialista.
Bettolacce, risate sfrontate, occhiute polizie segrete, beffe, bische, bravate e un boccale di bohème. Il lato tragicomico dell’esistenza.
Ecco, poi c’è come raccontare il tragico e il comico del quotidiano. E qui Hrabal, che come ha notato Marino Freschi «è riuscito a far ridere la lingua ceca in un periodo in cui non c’era proprio nulla da ridere», costruisce i suoi parlatissimi racconti come matrioske, dove i personaggi principali, protagonisti della storia che fa da cornice, non fanno altro che raccontare a loro volta delle storie, in un dialogo a più voci sovrapposte. Esempi. Corso serale racconta di una spericolata lezione di scuola guida, in moto, per le vie di Praga, in cui l’allievo narra mille impressionanti avventure motociclistiche del padre. Molto amato mette in scena un gruppo di operai chiacchieroni dentro un’acciaieria dai colori infernali che si raccontano storielle di donne e partite di calcio (Hrabal amava il calcio e i motori), con colpo di scena finale. In I bei tempi andati due vecchietti, un birraio e un medico, prendono il sole in uno stabilimento balneare rievocando i loro successi professionali: nessuno dei due ascolta veramente l’altro, entrambi esagerano probabilmente i toni epici nei ricordi. Un pomeriggio uggioso è ambientato in una birreria, alla domenica,: quasi tutti se ne vanno a vedere la partita, un ragazzo silenzioso non fa altro che leggere il suo libro attirandosi l’antipatia degli avventori e i pochi che restano litigano raccontandosi le imprese delle vecchie glorie nazionali. E così via…
Storielle da birreria, si dice. Ma con tutta l’atroce, insopportabile, irresistibile, drammatica, ironica, grottesca realtà che resta, così è la vita, sul fondo del boccale.
Le esperienze che ha collezionato diventano figurine di un album. I tanti lavori che ha svolto la materia grezza che la scrittura può plasmare
Finalmente la traduzione in italiano del primo libro di racconti di un autore tanto geniale quanto poco conosciuto. Esce ora per i tipi di Miraggi Edizioni il volume di Bohumil Hrabal “La perlina sul fondo”. L’autore ceco è stato un personaggio camaleontico, un clown della vita, un artista capace di calarsi nei bassifondi dell’esistenza con leggerezza e ironia. Per scrivere ha attinto proprio alla quotidianità, alle esperienze che ha collezionato come fossero figurine di un album, ai tanti lavori che ha fatto e che gli hanno permesso di conoscere storie esistenziali più ricche della stessa fantasia di qualsiasi romanziere.
“Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale”, diceva di sé. Uno scrittore ingordo d’una antropologia fatta carne, di esistenze colte nell’attimo stesso in cui sono vissute e tradotte mirabilmente in questi racconti dallo stile indefinibile: “Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente riscorgere la perla sul fondo dell’essere umano”. Se quest’ultima frase spiega le ragioni del titolo di questa preziosa antologia di racconti, non dice però dell’originalità di Bohumil Hrabal, capace come pochi di proiettare su carta le pellicole che le persone comuni girano di giorno in giorno. Nemo profeta in patria vale per un autore del quale, in una lettera anonima a lui indirizzata, si chiedeva la forca. “Con i racconti di Hrabal, nel 1963 – scrive il curatore del volume Alessandro Catalano – fanno prepotentemente ingresso nella letteratura ceca i discorsi della gente, l’inventiva linguistica e la creatività popolare di operai delle acciaierie, commessi viaggiatori, ferrovieri, assicuratori, notai, impiegati del macero della carta, macchinisti teatrali, che, attraverso un lessico colorito, espressioni dialettali e slang professionali, restituivano alle pagine dei libri la vivacità dell’osteria e lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi”. Nell’ottima traduzione dal ceco di Laura Angeloni si coglie al meglio le potenzialità di una scrittura sempre sul confine tra reale e irreale, comico e grottesco, di una tale naturalezza da sembrare surreale. Il lettore se ne accorge sin dalle prime battute del primo racconto “Corso serale”, dove le lezioni di scuola guida per motocicletta si trasformano in un pretesto per produrre una narrazione orale, di spaccati esistenziali. Mentre si legge la scena si staglia nel palcoscenico degli occhi tanto da far dimenticare in maniera così forte che sia soltanto un racconto breve e non un romanzo. Lo stesso avviene con “Un pomeriggio uggioso”, dove la vita si beve come uno dei freschi boccali della birreria dove è ambientato. Qualcuno si ricorderà di Hrabal indirettamente, forse per aver visto la versione cinematografica del suo romanzo “Treni strettamente sorvegliati”, una pellicola del 1965 in bianco e nero, passata alla storia per la scena del capostazione che trascorre una notte a stampare timbri ferroviari sul fondoschiena della fidanzata. Altri romanzi celebri di Hrabal sono: “Ho servito il re d’Inghilterra”, “Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare”, “La cittadina dove il tempo si è fermato”, “Spazi vuoti” e “Uno solitudine troppo rumorosa”.
Google ci ha reso un popolo di tuttologi. Siamo esperti di qualunque cosa e in questi anni, a seconda degli eventi e delle emergenze, abbiamo dato sfoggio delle nostre conoscenze nel campo dell’ingegneria civile, delle manutenzioni di ponti, della sismologia, della geologia, della vulcanologia, di medicina. Ma non ci siamo fermati qui, perché abbiamo tenuto seminari seguitissimi su Facebook sulla gestione delle aziende e sulla politica estera. Abbiano spodestato dai fornelli chef stellati di fama internazionale e dimostrato una notevole conoscenza anche in ambito giuridico. Oggi siamo tutti importanti virologi. Ma prima che diventassimo onniscienti, siamo stati soprattutto grandi allenatori, esperti nella gestione delle nazionali di calcio e inventori di moduli di gioco innovativi. Per cui, per tornare all’epicentro del nostro sapere, è necessario leggere il simpatico e dissacrante libro di Angelo Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni), una raccolta di racconti sul calcio.
Santi, poeti e commissari tecnici
Il mondo pallonaro è stato sempre una grande metafora del Paese, una sorta di acceleratore sociale, capace di anticipare ed evidenziare i fenomeni, spingendoli fino al parossismo. Nei racconti di Meloni troviamo gran parte dei tarli su cui avvitiamo quotidianamente. Come nel primo racconto che dà il nome alla raccolta, Santi, poeti e commissari tecnici, in cui ad essere demolito è proprio il nostro sentirci tuttologi. La storia gira intorno a una rivalità calcistica cittadina. Un derby di Paese fra due squadre: Vezze sul mare, una società con l’invidiabile record di aver perso tutte le partite dal giorno della sua fondazione e Vezze Marina, che invece può vantare nella sua storia esperienze in serie superiori. Ma il calcio ci insegna che la palla è rotonda e questo perché il dio del pallone, quando si annoia, tira fuori un grandissimo senso dell’umorismo. Esempi: la Grecia che vince gli Europei nel 2004, il Verona di Bagnoli e il Napoli di Maradona che vincono lo scudetto, il Porto di José Mourinho che vince la Champions, la Reggina di Mazzarri e la Longobardia di Oronzo Canà che raggiungono un’insperata salvezza. Ma questi sono solo alcuni casi, la lista dei miracoli calcistici è lunghissima. E il lettore di Santi, poeti e commissari tecnici potrà sicuramente aggiungere all’elenco anche lo strano caso di Vezze sul Mare, che annulla il gap con la rivale cittadina attraverso i miracolosi suggerimenti tattici della Santa patrona del Paese.
Meloni la tocca, per così dire, piano con il racconto Ode al perfetto imbecille. Una delle tante storie di emarginazione e nepotismo. Il malcostume italico ha come vittima un ragazzino fortissimo, un vero talento, che però viene lasciato sempre ai margini perché è figlio di una persona per così dire stramba, ma soprattutto perché deve lasciare il posto al figlio di un notabile del Paese. Meloni parla a modo suo, utilizzando sempre il registro dell’umorismo e del sarcasmo, anche della corruzione e delle scommesse che avvelenano il gioco, di vendetta e di carriere stroncate, del sogno dei tifosi che si alimenta con il calciomercato e di calciatori tristi e alcolizzati sul viale del tramonto.
Siamo tutti Oronzo Canà
D’altronde, il calcio è l’esperanto del mondo, una lingua semplice e di facile apprendimento per tutti e Meloni la utilizza in Santi, poeti e commissari tecnici per indagare e denunciare in modo impietoso un mondo che sembra non potersi reggere senza le ingiustizie e i compromessi. Il calcio quindi come grande metafora, per raccontare una società con poca morale che può far tranquillamente a meno degli eroi, che sono sempre giovani e belli. Dei calciatori no, perché possono essere anche brutti e perdenti. Un po’ come i teneri sconfitti raccontati Meloni.
Prima edizione italiana per il Libro d’esordio dello scrittore ceco che per tutta la sua avventurosa vita raccolse le voci delle strade – e delle birrerie – nella sua Praga
Ecco un breve résumé delle principali occupazioni svolte da quattro grandi scrittori cechi del secolo scorso. Franz Kafka: impiegato presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro del regno di Boemia. Jaroslav Hašek: impiegato di banca. Vladislav Vančura: medico. Karel Čapek: giornalista. Ed ecco invece un elenco, senza pretesa di esaustività, delle principali occupazioni svolte da Bohumil Hrabal: copista notarile, capostazione ferroviario, telegrafista, assicuratore, commesso viaggiatore (articolo trattato, giocattoli di seconda mano), operaio metalmeccanico, cameriere, magazziniere, addetto alla preparazione del malto in una fabbrica di birra, “assemblatore” di blocchi di libri pressati da mandare al macero su disposizione della censura sovietica (!), comparsa teatrale. Nel tempo libero scrittore e gran bevitore di birra Pilsner.
Per Hrabal, nato a Brno nel 1914, curriculum letterario ed esistenziale coincidono perfettamente: i racconti di La perlina sul fondo ne sono una nitida testimonianza. Li porta per la prima volta nelle librerie italiane – per ora solo in quelle virtuali – l’editore Miraggi (con la cura e postfazione di Alessandro Catalano e la traduzione di Laura Angeloni), presso cui hanno trovato casa già diversi titoli interessanti di letteratura ceca di nuova proposta e non solo (da ultimo il sommo e da tempo introvabile Bruciacadaveri di Ladislav Fuks).
Primo libro pubblicato da Hrabal a Praga nel 1963, La perlina sul fondo era rimasto inedito finora in Italia, dove sono state privilegiate sin da subito le opere successive, come Ho servito il re d’Inghilterra o Una solitudine troppo rumorosa. Scrittore-grammofono, Hrabal mostra in questi aneddotici racconti una compiuta maturità dello sguardo, e le intenzioni della sua letteratura sono già dichiarate: invitare il lettore a un giro senza meta sulla linea di un tram praghese, ascoltarne il brusio indistinto e imparare a distinguere le voci. Ma senza affezionarsi troppo perché si scende subito, le voci proseguono il loro viaggio mentre il lettore aspetta la prossima corsa (il prossimo racconto). Un vero e proprio Presepe praghese – titolo del racconto che chiude la raccolta – da attraversare guardando da vicino quegli uomini semplici e chiacchieroni che Hrabal aveva ribattezzato con amore «stramparloni» (pabitel), tra i quali si collocava lui stesso e con i quali volentieri si ubriacava di parole e non solo nelle taverne e soprattutto nelle birrerie della città (il protagonista di Una solitudine proverà a stilarne un memorabile elenco – questa volta sì, con pretesa di esaustività).
E dire che avrebbe anche potuto vestire i panni del tranquillo avvocato di provincia, Hrabal, ma la storia ha immaginato per lui qualcosa di diverso: si è appena iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Praga quando i carri armati del Reich sconfinano in Cecoslovacchia. Da lì in poi il destino suo e quello di Milan Kundera – che pure è stato nella stessa scuola a Brno qualche anno dopo di lui – si distanziano vistosamente. Niente università dopo la guerra, niente carriera accademica o gruppi di poesia d’avanguardia, e soprattutto nessun autoesilio a Parigi: Hrabal resta per tutta la vita in mezzo alla sua gente, quella da cui apprende le storie che finiscono nei suoi racconti, e grazie alla quale potrà costruire uno degli stili più riconoscibili (e imitati) di tutta la letteratura europea del Novecento. Una lingua a metà strada tra argot céliniano e un certo tocco surreale, favorito da quella «ironia praghese» di cui Hrabal parlerà a lungo nell’intervista al suo traduttore Sergio Corduas pubblicata in appendice a Treni strettamente sorvegliati (edito in Italia da E/O nel 1982; il romanzo, storia di un ferroviere boemo durante l’occupazione nazista, ha ispirato il film di Jiri Menzel premiato con l’Oscar nel 1967).
Fin dal dopoguerra, oltre a cimentarsi nel lavori più strambi, Hrabal non si fa mancare i problemi con il regime: nel clima ostile dello stalinismo, i suoi racconti circolano soltanto come samizdat, autopubblicazioni non registrate. Poi nel ’63 esce La perlina e diventa un piccolo best seller.Dura poco: con la fine della Primavera di Praga i suoi libri passano dall’essere venduti e apprezzati a essere vietati espressamente dalla censura sovietica, tanto che vengono fatti stampare all’estero e avventurosamente contrabbandati in patria. Paradossalmente – si direbbe per qualunque scrittore, ma non per lui – comincia il periodo più felice della sua produzione letteraria, fino al 1976, anno della «riabilitazione» da parte del regime.
Come tutta la sua vita, anche la sua morte è avvolta nella leggenda: a 83 anni, quando è ormai da tempo un autore canonizzato e celebrato in tutta Europa, cade dal quinto piano di un ospedale praghese, dove è ricoverato per i postumi di una caduta. Si è buttato – dicono – o forse voleva allungarsi verso un piccione che si era posato sulla balaustra. Tutte le possibilità erano già contemplate nella sua letteratura, comunque; in un libro del 1989 si legge: «Quante volte avrei voluto buttarmi dal quinto piano, dalla mia casa, in cui tutte le camere mi fanno male, ma l’angelo all’ultimo momento mi salva sempre, mi tira indietro, come dal quinto piano voleva buttarsi il mio dottor Franz Kafka, dalla Maison Oppelt».
Si è fatto seppellire in una cassa di quercia con sopra inciso il nome di una fabbrica di birra. Era il luogo dove sua madre aveva conosciuto l’uomo che avrebbe fatto da padre adottivo al piccolo Bohumil. Ma è anche l’estrema burla praghese con cui Hrabal si congeda dal mondo – dopo aver raccolto dal fondo della strada l’ultima perlina sporca di fuliggine.
Santi poeti e commissari tecnici è un libro strano che parla di tutti noi, del calcio e della società, di passioni e di identità. Angelo Orlando Meloni crea un insieme di aneddoti e storie che ruotano attorno allo sport più amato in Italia e che, in parte, giocano a dissacrarlo.
La fede calcistica, quella vera e propria religione di Stato che ogni domenica ci tiene incollati alla tv, in questo libro viene presa con leggerezza, con ironia. A dimostrazione di come anche con il calcio e di calcio si possa scherzare, parlare con tranquillità, scoprendoci più umani e meno sfegatati.
La trama
Santi poeti e commissari tecnici (Miraggi edizioni) si compone di racconti che hanno al centro il calcio. Il primo di questi racconti, che poi dà il titolo al libro, ci parla del miracolo della statua votiva della Beata Serafina, la quale suggerisce di colpo al parroco del paese le strategie giuste per vincere il campionato.
Negli altri racconti ci sono un bomber alcolizzato ed una comunità che pensano di meritare “il calcio che conta”; un arbitro incorruttibile che dirige la sua ultima partita e deve fare i conti col suo passato; un giovane campione scopre il difficile rapporto coi genitori degli altri ragazzi; un ragazzo esordisce in Serie A e medita vendetta contro il destino.
Nell’ultimo racconto la massima serie rischia di fallire a causa dell’ex moglie di un dirigente che pretende gli alimenti dal marito, che lavoro nel mondo del calcio giovanile.
La recensione di Santi poeti e commissari tecnici di Angelo Orlando Meloni
In questo libro ci sono dentro piccole e grandi storie, che magistralmente uniscono il calcio all’amore. Non sono amori facili badate bene; qui parliamo di amori finiti, sfuggenti, mancati o mancanti. Lo stesso amore per il calcio acquista connotati surreali, malati, mai davvero puri.
Santi poeti e commissari tecnici ci parla poi del calcio di provincia, quello che dovrebbe essere limpido, leggero, spensierato, e che invece scopriamo corrotto quanto e come quello ad alti livelli. La caratterizzazione dei personaggi ci proietta prima sui campetti della domenica, e poi di colpo nei grandi stadi. Due facce della stessa moneta.
I sogni dei tifosi sono fragili, così come è fragile l’universo calcio, perché fatto da uomini. Ecco perché tutto il libro di Angelo Orlando Meloni è attraversato da una vena malinconica, da toni agrodolci che tirano in ballo i ricordi ed il cuore, ciò che troviamo nel nocciolo di una nazione.
Parlare di calcio è affascinante, e se lo si fa con una risata invece che con una lacrima, è ancora più bello. E questo libro può davvero aiutarvi a scoprirvi tifosi sotto un altro punto di vista.
Non seguo il calcio e non tifo alcuna squadra e, in termini di regole da rispettare sul campo, mi limito a sapere che ci sono undici giocatori per squadra, che esiste il fuorigioco e che non si può prendere la palla con le mani, a meno che tu non sia il portiere o Maradona. Nient’altro. Eppure mi ha divertito, stimolato ed emozionato la raccolta di racconti di Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici, edita da Miraggi edizioni, dove il calcio è il comune denominatore di tutti e sei i racconti. Infatti, è il modo in cui Meloni ha deciso di descrivere e parlare del calcio a rendere tutti i racconti del libro piccole perle imperdibili. Lo sport in questione è usato, letterariamente parlando, come una grande lente d’ingrandimento attraverso cui osservare ed esasperare meccanismi sociali elementari come arrivismo, invidia, rivalsa sociale, disperazione, brama di denaro e di successo. Attorno quindi al nucleo calcistico, Orlando Meloni racconta storie d’amori mancati o di sogni infranti, ora esilaranti e grottesche, ora tristi e commoventi, in una raccolta che presenta al lettore una ricchissima varietà tematica, resa uniforme e solida dalla personalissima stilizzazione dell’autore, il cui stile è davvero irresistibile.
Il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, è bellissimo. Ci sono due comuni, Marina di Vezze e Vezze sul Mare, partite di calcio, animali parlanti, uno stabilimento petrolchimico che inquina aria e mare, preti e la statua della beata Serafina. Elementi difficili da accomunare, eppure l’autore ci riesce e scrive un racconto molto interessante, con striature da commedia nera che gli conferiscono un’atmosfera particolare e suggestiva. Leggendolo ho riso e mi domandavo dove Meloni volesse arrivare, quando ho letto le ultime due pagine sono rimasto a bocca aperta. Complimenti.
Effectio miraculi in nomine dei. Si prega il gentile credente di fare attenzione. Rivelazione clinamen improbalistico completata. Punto di snodo individuato nel minuto quarantadue del secondo tempo. Upload dettagli in corso, buffering 69%…” Il prete tirò fuori il blocchetto degli appunti e si gettò ai piedi della statua.
Precisi siamo è il secondo racconto e leggerlo è come ascoltare una canzone strana e complessa, ma magnetica, non capisci subito dove voglia arrivare ma la segui cullato dalla bellezza della melodia. Così, in questo racconto, leggi e senti il ritmo fluido della narrazione e assisti come gli spettatori in platea alle vicende di un calciatore alcolizzato che è diventato simbolo per la comunità del “calcio che conta” e le vicende del suo allenatore, ma non solo… Orlando Meloni stupisce anche qui. In mezzo abbiamo altri tre racconti originalissimi, e il terzo, Ode al perfetto imbecille è quello che più mi ha sorpreso dell’intera raccolta. È un racconto intenso, molto commovente.
[…] Non hai nemmeno sentito l’allenatore che si lamentava con il custode del campetto[…] O forse hai fatto finta di non sentirlo, come hai fatto finta di sorridere a tuo padre, all’uomo dei tic, mentre tornavate a casa, e tuo padre ha fatto finta che non fosse successo niente. Perché così va l’amore, a volte non facciamo domande per paura delle risposte.
È un feroce pugno nello stomaco, dove gli ultimi resteranno ultimi, senza possibilità di rivalsa o di rivincita, perché gli uomini, gli unici a poter cambiare e scardinare alcuni corrotti meccanismi sociali, non lo permetteranno mai.
Quando ritorni a casa vorresti stringere la mano di tuo padre e tuo padre vorrebbe tenere stretta la tua, ma sei un uomo ormai e la mano di tuo padre trema, ti ha fatto sempre impressione stringerla.
Il campionato più brutto del mondo è l’ultima storia della raccolta. Qui la serie A rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, che pretende gli alimenti arretrati dal marito. Da qui, una catena corrotta di dirigenti che inizia a chiedere soldi a pesci sempre più grandi, fino al collasso totale.
Gelsomina Mariotti sbianca e sente su di sé il dolore dei tifosi e dei loro figli e nipoti. A occhio, perché quel dolore possa alleggerirsi, ci vorranno dieci generazioni di drogati, maniaci depressivi, di auto-stupratori e collezionisti di merda d’artista a ogni angolo di strada, di suicidi a iosa ed ebefrenici come se piovesse.
Gli effetti del game-over del campionato di calcio in questo racconto mi hanno ricordato le conseguenze della peste descritte da Boccaccio nel Decameron: i legami sociali si recidono, la violenza dilaga, i più ricchi cercano di fuggire in ville e tenute campestri:
In città hanno trovato un deserto. Le serrande sono abbassate. I bar sono chiusi. Non un’anima in giro. Non si è presentata nemmeno la polizia perché il campionato più bello del mondo è finito e questa è. Qualcuno ha deciso al posto loro e nessuno potrà farci più niente.
Ecco che si comprende bene, terminati i racconti, come il calcio per l’autore sia ora fonte di discriminazione sociale, ora rammarico di una vita, ora collante sociale, ora allegoria di una società bigotta e preconcetta, e quindi, vale la pena ribadirlo, il calcio permette un focus su questi concetti, avvicinandoli al lettore, mettendo alla berlina le bassezze di una società che ha pochi valori, e, purtroppo, spesso, nemmeno buoni. I racconti di Meloni sono agili e freschi, giocano con gli intrecci delle vicende, arditi e complessi, amano rappresentare e descrivere personaggi buffi e scapestrati, violenti e teneri e illustrare una galleria letteraria piena di colori vividi e originali; galleria nella quale c’è anche spazio per l’eco di riferimenti e intrecci fantascientifici, che colorano l’atmosfera della raccolta di una piacevolissima leggerezza. Mi viene da definire Meloni come uno scrittore appassionato, perché ama divertirsi con le storie e le parole, con le commistioni di generi, e, oltre che raccontare storie, trasmette messaggi, veicolati da una forma narrativa indiavolata. La stilizzazione originalissima dell’opera consente poi di instaurare una conversazione a tu per tu tra autore e lettore, conversazione divertentissima e anche impegnata, perché si sa che al momento non c’è niente che vada trattato seriamente come il calcio, nemmeno la letteratura.
Un libro che è autobiografia e che si legge come un romanzo. È “Volevo uccidere J.-L. Godard” di Jan Němec, che contiene trentuno racconti, pagine scritte dal 1970 al 1990, e che narrano la vita di questo importante cineasta cecoslovacco. Testimonianza della sua vita artistica, e della sua vita di ogni giorno divisa dal periodo vissuto nella terra dove è nato e l’America, dove ha dovuto andare nel 1974, visto che in Cecoslovacchia gli veniva impedito di lavorare. Perché Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e anche l’unico regista capace di filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, per poi varcare la frontiera con l’Austria, e far sì che all’indomani mattina la televisione austriaca mostrasse al mondo quelle immagini. E Němec era anche sicuro di prendere un premio all’edizione di Cannes del 1968, ma al festival scoppiò il maggio francese e registi come Godard e Truffaut proposero di interromperlo, e non ci fu nessuna premiazione…. E allora la lettura di “Volevo uccidere J.-L. Godard” è un’immersione completa nella vita di Jan Němec, lo si accompagna nei suoi sogni di gloria artistica e di pura sopravvivenza umana, si intrecciano e si respirano mondi opposti, la Cecoslovacchia sovietica e l’America capitalista, dove sopravvisse girando film di matrimoni, e inseguendo progetti cinematografici che non si realizzarono mai. Per poi tornare a Praga alla fine del 1989. Nemec è stato anche un autentico viveur, una anima irrequieta che amava le feste e le donne e che era sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová. Sono pagine rocambolesche, si vivono situazioni surreali e divertenti, si respira la passione e la rabbia, sempre però con uno sguardo che mette nudità al tempo narrato, alla società in qui ha vissuto. “Volevo uccidere J.-L. Godard” è lettura consigliata, e per la quale abbiamo intervistato Alessandro De Vito, che ha tradotto il libro in italiano, e che è anche uno dei fondatori di Miraggi, la casa editrice che lo ha pubblicato.
Dal libro:
“L’obiettivo della cinepresa può essere una piccola mitragliatrice, o cannone, e la verità, impressa sulla pellicola, può avere una forza, difensiva o offensiva, maggiore dei proiettili. Non a caso, qui da noi in America, usiamo la stessa parola per ‘sparare’ e ‘girare’: shoot!”
“Il cielo si chiuse. Nuvoloni neri si distesero su Praga. La cometa passò da qualche parte sopra di noi, ma nessuno poté scorgerla. Si era arrabbiata con noi, e vi aveva fatto sapere che non avrebbe scintillato, non si sarebbe accesa, dato che il nostro amico Jirka non c’era più.’”
“Lo scaltro Kgb aveva quindi scelto Lád’a K., e lui ci mandava dei segnali: anche in una società così disciplinata come uno stato comunista sotto la tutela sovietica, si poteva sempre trovare una breccia per essere individualisti, e perfino decadenti. perché il Filmexport cecoslovacco aveva bisogno di film da poter proporre in Occidente, prendere dei premi ai festival, e giustificare così l’esistenza dei suoi uffici all’estero, che erano solo un’altra forma di spionaggio rispetto a quella dei consolati o delle agenzie di viaggio bulgare, tramite le quali metti che si organizzi un attentato al papa.”
“Ah, comunisti e russi, divoratevi pure il cuore del continente, che mi avete rubato! Io non ci sono più.”
Intervista ad Alessandro De Vito:
(traduttore di “Volevo uccidere J.-L- Godard)
Quale la differenza fra lo Jan Němec ceco e quello ‘americano’? Ma anche tra il regista cinematografico e il narratore? La differenza, purtroppo per lui, è ed è stata enorme, tra gli anni in Cecoslovacchia e quelli dell’esilio negli Stati Uniti. Negli anni 60, in patria, durante la Primavera di Praga, seppure fosse un giovane regista, aveva dimostrato a più riprese un talento fuori dal comune, uno stile assolutamente personale, realizzando dei veri capolavori che meritano di restare nella storia del cinema, già il corto “I diamanti della notte” e soprattutto “La festa e gli invitati”, film visionario e filosofico, sottile e crudo nell’indagine della natura umana, già molto maturo. Němec è stato anche molto abile a insinuarsi – insieme ad altri giovani registi che hanno fatto parte di quella straordinaria Nouvelle Vague cecoslovacca (citiamo solo Forman, Menzel e Passer, venuto a mancare pochi giorni fa) – tra le maglie della censura e nel meccanismo di produzione cinematografica di Stato comunista, rivolgendolo a proprio vantaggio. Evidentemente l’invasione sovietica del 1968 ha interrotto tutto. Era inoltre un personaggio noto pubblicamente, dato che allora è stato anche sposato con la più nota cantante ceca dell’epoca, Marta Kubišová, che è come dire Mina in Italia negli anni 60.
Ma anche le similitudini…. Certamente Jan Němec era un carattere particolare, deciso, sarcastico, autoironico, con un’irruenza che è stata sinonimo di energia e forza, di ricerca indomita della libertà e dell’arte, ma anche un ostacolo. Un’incapacità al compromesso, ancor più in senso artistico che politico, che l’ha danneggiato maggiormente negli USA, dove per lavorare bisogna sottostare alle regole dello show business delle major cinematografiche. Non era il genere di persona capace di mandare giù dei rospi. Passando alla narrazione scritta e parlando di similitudine, è la parola migliore per descrivere quanto il suo modo di narrare con parole sia simile alla sua visione cinematografica.
Cosa porta del suo sguardo da regista in questo suo narrare? E come lo usa? Jan Němec è un regista anche mentre scrive. Non evoca, vede, sceglie il punto di vista, inquadra, monta le scene e fa vedere. Spesso nei suoi racconti, sempre basati su esperienze vissute, troviamo immagini, tagli, inquadrature, descrizioni che sembrano “scritte” con la macchina da presa più che con la penna, un andamento registico più che da scrittore. A volte questo provoca anche qualche salto nella narrazione, anche se bisogna tenere conto che i racconti sono stati scritti nell’arco di vent’anni, dal 1970 al 1990 circa, e a volte in situazioni personali precarie. Non è una scrittura pulita e levigata, ma assomiglia molto anche a lui: troppa energia per poterla contenere sulla pagina. Il che aggiunge interesse, spesso si ha l’impressione di essere davanti a lui che racconta, seduti davanti a un bicchiere di vino (non birra).
Nel libro, pur immergendosi in situazioni sempre intense, dove le persone si incontrano e si scontrano, dove c’è sempre l’accadere come punto focale del narrare, mi sembra di percepire un profondo senso di solitudine. Può essere così? Io credo che derivi dall’esperienza vissuta, il dover abbandonare il proprio amato paese, il fatto di non aver nemmeno potuto lottare contro lo stato delle cose. Negli anni da espatriato è stato certamente un uomo solo, si è dovuto arrangiare, non è riuscito mai a lavorare al suo livello. Per vivere ha trascorso anni a inseguire progetti poi non realizzati, mantenendosi realizzando film privati di matrimonio. Ma è soprattutto la personalità, fortissima ed egocentrica come capita negli artisti più grandi, che emerge con una forza che si impone. È allora la solitudine dell’artista, unita a un punto ideologico non trascurabile: l’esaltazione della libertà individuale, o dell’individualismo tout court, in un paese dominato da una società e da una retorica collettivista pervasiva, allora era un fatto politico. Lo stesso titolo originale del libro, che letteralmente sarebbe “Non dare la mano al cameriere”, che si riferisce a uno dei racconti, esplicita questo pensiero. In quel caso l’esaltazione di un comportamento che si può definire classista (un suo amico, artista anche lui, celebre perché “non dava la mano al vecchio cameriere”, non con fare sprezzante, ma per tenere una distanza. Con le sue parole: “Il nostro credo era questo, e penso lo sia ancora: vogliamo spassarcela un po’, andate a fare in culo, bolscevichi, voi e i vostri programmi, i piani quinquennali, i processi e le riabilitazioni. Raccontavamo queste cose alle ragazze, completando quel rapido giro panoramico della città. Ogni tanto bevevamo un bicchierino, facevamo un giro anche contromano e stavamo bene, perché sapevamo che nessuno ci avrebbe manganellato per un reato contro lo Stato”. Volevano essere dei giovani liberi, non diversamente dai loro coetanei occidentali.
Jan Němec è sicuramente un autore fuori dal coro. Quanto questo gli ha permesso di sviluppare una propria originalità, e quanto invece è stato un qualcosa di limitante, anche in prospettiva politica nella Cecoslovacchia sotto il controllo sovietico? Němec era certamente fuori dal coro, ma in realtà il “gruppo” dei registi della Nová Vlna… non era un gruppo. C’erano sostegno reciproco, collaborazioni, un background comune, in fondo venivano dalla stessa scuola di cinema, la Famu, e lavoravano tutti negli studi di Barrandov, la Cinecittà di Praga, ma ognuno portava avanti le sue idee, soprattutto dal punto di vista estetico. Ed erano lasciati liberi di farlo, Němec stesso afferma che si erano trovati in una condizione di libertà creativa difficilmente eguagliabile: (quasi) senza censura, e con tutti i mezzi produttivi a disposizione. Finito tutto questo con l’invasione, all’estero sono riusciti a sfondare in pochi, dovendo fare i conti anche col reperimento di risorse, con i produttori. Forman è il campione di questo successo in occidente.
Quale la caratteristica più evidente del suo scrivere, e cosa ha significato tradurlo? La lingua che usa Němec è piuttosto antiletteraria, quasi orale, gergale, estremamente viva. Pur non mancando di riferimenti “alti”. Non era uno scrittore, spesso i racconti li potremmo immaginare come dei soggetti per film da girare, un po’ più distesi. Raccontati di persona, in modo molto vivido, con una mescolanza di registri molto marcata, tra l’epico del patriottismo, della propria terra tradita e schiacciata dall’invasore, e un’aneddotica personale che ci fa sogghignare amaro o scoppiare a ridere (come nel racconto in cui ci rende noto che ci si può salvare da un infarto grazie allo sforzo muscolare per non farsela addosso: era in compagnia di una signora, diamine!). Questo ha portato una certa difficoltà di traduzione dovuta alla varietà del contenuto, ampiamente compensata dalla vita che fuoriesce prepotente tra le righe. È stato bello passere dei mesi con Jan Němec, che purtroppo ho incontrato una sola volta di persona, poco prima che morisse.
Il libro è scritto a più riprese dagli anni settanta ai novanta. Cosa tiene assieme questo ampio lasso di tempo? È un ventennio esteso, dato che nei primi racconti si parla degli anni 60. È un’epoca tutto sommato omogenea, il grande cambiamento avverrà alla fine dell’89, con la caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti. E il racconto si interrompe qui, con il rientro a Praga nel dicembre 89. Non a caso, credo. Appena ritornato, pur con difficoltà, Němec è tornato a fare il regista, in modo indipendente. Credo sia evidente che la scrittura fosse il surrogato della regia, nei lunghi anni in cui non ha potuto o non è riuscito a realizzare film. Poi ovviamente è un racconto autobiografico, l’autore è protagonista, e persino quando prevale il racconto di eventi storici importanti, come l’invasione di Praga o il famigerato Festival di Cannes del 1968, lui non va sullo sfondo. È lì, e non è un comprimario.
Anche l’immagine di copertina dà l’idea di un Jan Němec sempre in continuo movimento. È così? Credo non potesse stare fermo. Emanava luce e movimento quando l’ho conosciuto, due mesi prima di morire, malato su una carrozzina, possiamo immaginare durante tutta la sua vita. L’immagine di copertina richiama uno dei momenti topici del racconto: lui che si aggira per la Praga invasa dai carri armati sovietici con la sua auto sportiva e la macchina da presa, con un certo sprezzo del pericolo, il 21 agosto del 68. La sera stessa riuscì rocambolescamente (e naturalmente con l’aiuto di una bella donna, altra sua passione eterna) a portare i negativi a Vienna e a far quindi vedere al mondo – documento unico – che cosa stava succedendo davvero a Praga. Non il “fraterno aiuto” degli altri popoli socialisti, ma un’invasione militare. Quel materiale, montato con altro, è diventato il toccante documentario “Oratorio per Praga”.
Quale l’eco della sua fama di regista in Europa, in Italia, nel mondo? Němec è nella storia del cinema, nell’ambito dei festival (in Italia soprattutto Trieste) viene ancora ricordato e omaggiato, specialmente le sue opere degli anni 60. Ha conosciuto la maggiore notorietà internazionale sull’onda anche emotiva dell’invasione di Praga, grazie soprattutto alle immagini dell’invasione.
Il traduttore: Alessandro De Vito, classe 1971, lavora in campo editoriale da quasi vent’anni. È tra i fondatori di Miraggi Edizioni nel 2010, di cui ne è direttore editoriale ed editor. Per metà di origine ceca, da qualche anno è appassionato traduttore da quella lingua, ispiratore e responsabile, sempre per Miraggi, della collana di letteratura ceca NováVlna.
Il regista ed autore: Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime.
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro” così scriveva Pier Paolo Pasolini, come sempre intercettando perfettamente una profonda verità all’interno della società in cui viveva. Non so se e in che maniera influenzato dalla riflessione di PPP, Angelo Orlando Meloni ha imbastito questa originale raccolta di racconti lunghi a tema calcistico. Ma qui non si parla solo di calcio. In questi racconti ci sono sogni, passioni, storie comuni e meno comuni, un bel po’ di Sicilia, e sono scritti con uno stile ironico e ricchi di personaggi memorabili. Il libro, pubblicato da Miraggi Edizioni, potrebbe riuscire a conquistare anche i non amanti del pallone. Sì, perché Meloni scrive bene, ha nelle sue corde diversi stili e registri, e riesce ad appassionare il lettore, in ognuno di questi sei racconti che compongono la raccolta.
Nel primo, lungo racconto che dà il titolo al volume, l’autore immagina una squadraccia di periferia che non vince una partita manco per sbaglio, ma che grazie all’intercessione della beata Serafina inizia a ingranare. Con i suggerimenti dati al parroco del paese la squadra riesce addirittura a vincere il campionato, sorprendentemente. È il calcio, con i suoi palloni di cuoio sgangherati e i campi di periferia polverosi, a farla da padrone. Il gioco del calcio è il sottile filo che unisce tutti questi ironici, scanzonati e divertenti racconti. Si passa dalla Serie A che rischia la catastrofe a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, al racconto di un centravanti alcolizzato che prova a trascinare la sua squadra nel calcio di un certo livello. Nel racconto “Il campionato più brutto del mondo” è appunto il capriccio di una donna a far tremare tutti, e solo una serie di incredibili eventi riuscirà a salvare la serie A. Il racconto “L’aeroplano” è rocambolesco e divertente, con Peppino Petrolito detto “Flashgordon” e Nino “Emozione”, la città di Siracusa e una partita di calcio, Inter Ternana, sullo sfondo. Mentre “Ode al perfetto imbecille” è probabilmente quello più realistico di tutti: la storia di un giovanissimo e bravissimo calciatore, che però non trova spazio in squadra perché non è “raccomandato”, quindi si vede passare davanti il figlio dell’avvocato di turno. Non si premia il talento ma la raccomandazione. Non è questa la fotografia perfetta della nostra società? La bravura di Meloni sta nel parlare di calcio per non parlare solo di calcio, ma dell’Italia tutta: delle sue storture, dei suoi mali, dei suoi personaggi miseri ma anche dei lati positivi che il nostro popolo, alle volte, riesce a tirare fuori. Il suo libro è ironico e scritto con grande capacità di coinvolgere e di tenere incollati alle sue pagine, grazie a storie e personaggi leggeri ma allo stesso tempo in grado di creare grande empatia nel lettore.Non ci sono note stonate e anzi tutti i sei racconti sono di pregevole fattura. Il tono tragicomico e scanzonato che pervade l’intera raccolta, è solo uno dei punti di forza di questo libro, che dopo averci fatto sorridere ci fa riflettere, magari con un sorriso a mezza bocca, gli occhi tristi e malinconici. Per chi come noi ha vissuto le curve, l’emozione di vedere 22 scalmanati in pantaloncini rincorrere un pallone, è chiaro che non si tratti affatto del nuovo oppio dei popoli. Ma è una questione molto importante, uno dei motivi per cui vale la pena vivere.
Usiamo cookie per garantirti un servizio migliore.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.