La vita che ristagna. Su “Still Life” di Adriano Padua
Still life, ancora vita: così il titolo dell’ultima opera di Adriano Padua, uscita per Miraggi nel 2017. Una raccolta articolata in sei sezioni, in cui il verso si confronta con una realtà magmatica, l’ambientazione urbana, il senso del precario, la violenza, e in conclusione con la presa di coscienza di un decadimento uni-versale, cioè incontrovertibile. Il manifesto in favore di una poesia che irrompi nella dimensione non consolante del reale, e acquisti valore proprio in quanto capace di perforarlo, in quanto performativa, è il lascito più importante di questo libro.
La vita, ovvero la palude
Per cominciare, occorre tenere presente lo scenario evocato dalla poesia di Padua a livello denotativo, sul piano della mimesis. Il motivo è nella relazione che la pratica poetica intesse con lo spettacolo in cui si inserisce: lo “scenario”, di fatto, non è uno scenario, ma un tutt’uno col fare poetico, dal momento che quest’ultimo sorge (e può sorgere solo) all’interno di un contesto umano degradato, e, contemporaneamente, verso quel contesto si dirige, col doppio fine – ma sono due facce della stessa medaglia – di criticarlo e di salvarlo catarticamente («non c’è una medicina ma la cura / del nostro male è la ferita stessa»). Volendo porre una teoria di fondo, si può considerare, a mio parere, che la poesia di Still Life sia eziologicamente e teleologicamente giustificabile attraverso l’idea di “mondo”, insieme sua origine e sua destinazione.
Questo mondo, come dicevo, compare in vesti lacerate. La città è l’ambiente in cui sono più facilmente osservabili le sue ferite, gli spazi in cui più chiaramente emergono la precarietà dell’umano, la sua caduta («buio deserto di città teatrale», «la città che è un teatro tranquillo di guerra», «una tempesta di persone perse / tra processioni ferme di cemento»), mentre la notte è la stagione più disposta a svelare la nudità di queste contraddizioni, proprio ottundendo le certezze vendute dal giorno. Alla notte è infatti dedicata l’intera sottosezione Intorno, notte, e il buio, proprio agendo come «sipario calato sul mondo», di quello indica le smagliature e la frammentarietà irriducibile, agendo come «madre non norma», cioè come origine oltre-sociale che «disvela […] delle case l’anomala quiete».
La verità dell’essere che coincide col proprio nascondimento – influsso probabilmente heideggeriano – è alla base, o tra le basi, di un’idea di poesia che scaturisce dalla necessità della nominazione, ma ciclicamente si dimostra incapace di eseguirla correttamente («lasciando cose come innominate», «dalla voce che grida strozzata il suo linguaggio distrutto», «è dovere di dire le cose / non compiuto»). Tornerò nel finale alla ragion poetica del libro; per ora basti questa considerazione: che il mondo è palude nel senso di luogo indefinito, bucherellato, e perciò pantano in cui è difficile muoversi; ma anche nel senso di «acqua senza genere» che costantemente si infiltra e riappare nelle zone che sfuggono alla faticosa attività di nominazione operata dalla poesia. Still Life vuol dire questo: che la vita è una pozza che ristagna e la poesia non riesce a bonificarla del tutto; che alla base del libro c’è una scissione insanabile tra linguaggio e materia.
La misura orale
Vista in questo modo, la poesia di Padua non può che caratterizzarsi per una forte tendenza all’oralità. Il dato più significativo in questo senso è che l’autore affianca all’attività di poeta quella di performer: le stesse poesie di Still Life hanno una trasposizione live in cui i versi, pronunciati con ritmo lento e scandito, ma anche tagliente, si innestano su arrangiamenti in chiave post-rock (quasi immediatamente il pensiero va, ad esempio, ai Massimo Volume). E del resto anche all’interno del libro i riferimenti alla musica abbondano: nei numerosi eserghi che accompagnano le aperture delle sezioni e sottosezioni dell’opera, accanto a poeti e prosatori (“classici” o contemporanei), troviamo riferimenti alla musica pop/alternativa (Le luci della centrale elettrica) o rap (Kaos One, DJ Gruff).
Ecco, l’influsso del rap è a mio avviso davvero decisivo, in questo libro, tanto per la denuncia e la condizione di marginalità sociale che sono, come si sa, alla sua origine, quanto per il tipo di verso adottato da Padua, spesso disteso (del resto le pagine sono stampate in orizzontale, generano un impatto visivo che ricorda – almeno a me – il Pagliarani de La ballata di Rudi) e con schemi ritmico-rimici incalzanti grossomodo regolari. La scrittura di Padua è predisposta alla recitazione, alla voce, si intesse su cadenze di accenti calcolate con precisione (spesso supportate anche dalla struttura dell’endecasillabo), sulla frequenza assidua di omoteleuti, paronomasie, rime, assonanze e consonanze (ad esempio, già nel primo testo, a intervalli omogenei, troviamo: «sorta», «sepolta», «vedute», «luce», «contraddice», «descritte», «scaturisce», «contratto», «scatto»…).
La poesia, ovvero l’arma
Quello di Padua è perciò una sorta di toasting poetico, da cogliere però non solo nella “forma” della sua fattualità estetica ma – congiuntamente con quella – soprattutto nella sua natura situazionale. Voglio dire: mi sembra che Still Life sia performativo nel senso più denso del termine, voglia far incarnare la poesia in un reale posto nel mondo, e rintracci nella misura orale la pista migliore per riuscirci.
Riprendendo lo schema posto a monte, per cui il poetico si origina dallo squilibrio del mondo e verso quello si dirige con l’obiettivo – fallito – di nominarlo, e così di ricongiungersi con esso, quella di Padua potremmo definirla poetomachia: la poesia si configura come colluttazione, come arma sfoderata contro una realtà che pare impossibile da richiamare dentro il linguaggio («qualcosa che colpisca dentro gli occhi», «martirio», «mani insanguinate», «le parole coltelli tra i denti»); una poetomachia giustificata sul piano metafisico dalla non coincidenza tra essere e linguaggio, ma anche, sul piano storico, dalla necessità avvertita di protestare contro una certa idea di poesia, che banalizza la portata eversiva della poesia stessa («scrivere […] non è mettere il cuore / in pace»).
È in questa chiave, dunque, che si può osservare l’andamento della scrittura di Padua come un andamento parabolico, dove la poesia è il vertice, il punto più lontano dal mondo, che però proprio verso il mondo si sforza di andare. Denunciando gli spasimi del linguaggio e ricercando la voce come presenza, Still Life pone il poetico nei termini di un tramite sciamanico (che rimane, comunque, una Preghiera (senza Dio)) teso al recupero dell’origine, per via di uno scontro con la (e l’attraversamento della) realtà materiale e sociale.
Campi magneto-semantici. Su “Pagina bianca” di Gianluca Garrapa
Per leggere Pagina bianca di Gianluca Garrapa (Miraggi Edizioni, 2020) è necessario mettere da parte l’intero orizzonte d’attesa codificato per la poesia (per lo meno quella comunemente intesa). Concetti – e pratiche – come quello di versificazione o di struttura strofica vengono meno di fronte a un approccio con la testualità (prima che con la lingua) tutto fondato sul sabotaggio – della struttura linguistica, del significato, dell’ordine tipografico.
Perciò voglio qui proporre un metodo di lettura diverso, rispetto a quello “tradizionale”; più adeguato al testo di Garrapa, che lo affronti trasversalmente invece che linearmente, nello stesso modo in cui l’autore espone la massa semantica a flussi di energia che la orientano, spezzano, organizzano in forme sempre diverse. Individuerò, dunque, le principali caratteristiche di quelli che potremmo chiamare i campi magneto-semantici su cui l’autore fonda di volta in volta un nuovo sistema di senso poetico.
Rifrazione
La prima proprietà dei campi magneto-semantici di Pagina bianca è la rifrazione, ovvero una rottura lieve, una sfasatura che rende non esattamente corrispondenti, fuori fuoco gli elementi che compongono un testo. In forme diverse, questa sfasatura, o glitch, è tipica delle prime quattro sezioni che compongono il libro.
In sabato – che nella forma tipografica anticipa, insieme a paese, anche i “circuiti” di cui parlerò più avanti – la sfasatura rende inutilizzabili le categorie narratologiche di fabula e intreccio: siamo infatti di fronte a un certo scenario e una certa “storia” (le vicende legate a una giornata di sabato, tra cena, dopocena e incontri), ma il flusso narrativo e la stessa possibilità per il lettore di costruire in maniera univoca il soggetto del racconto sono del tutto sabotati da pervasivi scardinamenti del linguaggio, come giustapposizioni nominali, congiunzioni svincolate, distorsioni delle coniugazioni verbali, agglutinazioni di parole e così via fino alla (quasi) totale abolizione della punteggiatura e delle maiuscole. La successiva paese applica le medesime deformazioni alla dimensione nazionale, ripercorrendo – con, sempre, una linearità interrotta dalle sfasature – la storia d’Italia.
Se in sabato e paese assistiamo, però, a quel paroliberismo spazio-grafico che sarà tipico anche delle ultime sezioni, in due e tre la rifrazione si amalgama invece su forme di testo più strutturate. In due potremmo rintracciare una costruzione a episodi, micro-racconti, o perlomeno un ambiente che potremmo definire prosa. La langue sfasata persiste, ma notiamo qui subito una reintroduzione della punteggiatura (prima sporadica e quasi del tutto ridotta al punto interrogativo), che sembra tuttavia aver perso la propria funzione di organizzatore sintattico ed essersi ritirata tutta nel proprio valore ritmico (al punto da comparire dove non dovrebbe, separando ad esempio preposizioni o sintagmi strettamente connessi fra loro). Per contro, in tre il testo sembra assumere una forma simile a quella poetica (controprova una certa, seppur lieve, apertura intimistica, come in alieni), con dei versi riconoscibili e il rientro all’interno di uno schema (sempre libero, comunque) della spazialità sregolata dei testi precedenti.
Permeabilità
La seconda proprietà è invece la permeabilità, ovvero l’attitudine di un dato elemento a magnetizzarsi – dunque, semanticamente, a caricarsi al punto da acquisire una polarità di senso. È questo un impianto interpretativo con cui può leggersi la sezione Egli, sorta di cerniera tra una prima parte (incentrata soprattutto sulla “rifrazione”) e una seconda (composta da testi che chiamerò “circuiti”).
Egli conserva infatti alcune caratteristiche dei testi precedenti, e in particolare della sezione due, di cui riprende la punteggiatura libera e la struttura in prosa, nonché la divisione in “episodi” – segnalati tutti da un titoletto che contiene il pronome “egli”. Già dai titoletti, tuttavia, si nota come proprio la natura di “egli” – la natura di pronome – venga messa a dura prova da uno stress referenziale che lo destabilizza e in fin dei conti priva della sua funzione essenziale. Accanto a titoletti prodotti all’interno dell’orizzonte previsto dalla lingua (ad esempio, Egli pranza), ne compaiono altri paradossali e di assoluta discordanza verbale (Egli piove, egli la Clerici, Egli non ha senso scrivere oggi che è domenica, Egli è domenica).
Le prose introdotte dai titoletti, allora, non fanno altro che estendere, situare in uno spazio-tempo e in un flusso (anti-)narrativo i paradossi su cui i titoletti si fondano. In quelli – come nei calembours e nelle freddure molto frequenti in Garrapa – si verifica quella permeabilità di senso, sia anche assurdo, cui l’autore sottopone il linguaggio. Egli si manifesta come contenitore vuoto, pro-reale più che pro-nominale, dunque magneticamente attratto da ogni altra categoria o oggetto linguistico; e proprio questa accessibilità lo eleva a segno universale, comporta una ironica e insieme incontrovertibile pronominalizzazione del cosmo e, infine, il suo svuotamento.
Circuiti
Sulla forza delle proprietà magneto-semantiche individuate, le restanti sezioni (lapaginabianca, date), congiuntamente con le prime due, generano una serie di testi che seguono la vena fondamentale del libro; ovvero quella che fa dialogare le parole con lo spazio della pagina e dunque anche col bianco tipografico. Questa spazialità verbo-visiva configura tali testi come dei circuiti, in cui la forza magneto-semantica è organizzata secondo uno schema preciso dettata da polarità e direzioni di senso degli elementi, dagli effetti delle loro attrazioni.
Interpretandole così, queste parole sparse sul foglio appaiono effettivamente uguali ai disegni di campi semantici, appunto, stesi sulla lavagna di una scuola. Anche se nei campi di Garrapa, al contrario di quelli della lavagna, non è possibile rintracciare un effettivo nucleo semantico da cui scaturiscono gli altri termini (ma ci si avvicina a questo, ad esempio, nella pagina in cui al centro compare «ragazzi&ragazze») e le relazioni tra i vocaboli risultano spesso oscure, dettate più da una matrice inconscia o estetica che dalle strutture linguistiche, questi circuiti rompono egualmente l’ordine, la linearità, la logica in favore del caotico, della radialità, dell’aleatorio.
A questa dimensione, Garrapa aggiunge la significazione dello spazio bianco, che determina un certo orientamento del senso e dell’espressione proprio a livello topo-grafico: l’effetto di rapidità, ad esempio, è costruito (come nel testo che comincia con «luce») non dalla sintassi o dal significato, ma dall’avvicinamento tipografico dei termini; la parola si carica di densità semantica, e simbolica, quando è visivamente isolata, e non quando è rafforzata da una sintassi o da una punteggiatura.
Pagina bianca – che significativamente non riporta i numeri delle pagine (allargando così la significazione del bianco anche al paratesto: e infatti l’indice ha la forma di uno dei “circuiti”) – è dunque composto da campioni di magma, da testi fondati su relazioni che non si limitano al sema, ma chiamano in causa anche i legami “magnetici”, post-linguistici e fisici, che li costruiscono. Il bianco che chiude il libro (segnalato a destra così: «: pagina bianca») ne è la saturazione definitiva; il vuoto significato che permea l’intero mondo-libro.
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