Fiumi di parole per i “Pellicani” riuscita commedia dell’assurdo
Un allucinato avvincente romanzo quello de “i Pellicani” di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi e finalista al Premio Italo Calvino 2020. Il protagonista, Pellicani, un quarantenne – vestito grigio un po’ sdrucito, valigetta e portamento da uomo d’affari – ritorna vent’anni dopo nel quartiere dove si trova la casa del padre ottantenne. Nulla è come prima. A resistere alla furia speculativa della riqualificazione urbanistica è rimasto lo scheletro solitario dell’unico immobile disabitato. Solo in alto filtra da sotto la porta una flebile luce. È lì che avanza, tra rovine e oscurità, trovando alla fine disteso sul letto il padre, un vecchio rottame rinsecchito che se ne sta muto in balia di una donna che l’accudisce e di un televisore acceso sui cartoni animati.
Inizia da qui l’estraniante discorrere del protagonista sulla tirannia esercitata in privato dal padre, la sua furbizia, i possibili pensieri nel rivederlo dopo tanto tempo, assieme ai tentativi di accreditarsi agli occhi del padre come persona socialmente arrivata e abituata ai viaggi. Per darsi un tono ed essere credibile ostenta in continuazione la valigetta, con il ripetere che è di passaggio e di dover ripartire subito per la Cina. Uno scorrere torrentizio di considerazioni, riflessioni, sospetti, illazioni, accompagnati da ombre sullo sfondo di pareti scolorite, pianerottoli bui, appartamenti vuoti. Il tutto reso con immaginifica capacità narrativa dall’autore. Molteplici i registri stilistici: l’ironico, il comico, il sarcastico, il tragico-comico, il sentimentale, il cinico. Maschere che si rincorrono e si sovrappongono, nella rappresentazione del Pellicani padre, indicato come “il paralitico”, “l’imbecille”, “il furfante”, “il renitente”, rispetto al Pellicani figlio, proteso all’azione, al movimento, “verso l’anarchia della gioventù”.
In un originale gioco di specchi l’autore mette in scena il rifrangersi del protagonista nel dare corpo, immagine e parola agli altri pochi attori e al padre che, ad eccezione di qualche movimento di mani e di labbra, rimane indifferente a tutte le provocazioni. Un silenzio che gli appare un abbandono ozioso del vecchio e che suscita contraddittorie interpretazioni che finiscono per metterlo in crisi. Una riuscita commedia dell’assurdo, tra Pirandello, Kafka e Ionesco, malgrado qualche ripetuta critica alla società di mercato. E la vecchiaia come scarto o come furbesca ricerca di protezione. Una narrazione che sfuma nel sogno, nell’irreale, perfino nell’estraniamento del protagonista che finisce per non riconoscersi, indicandosi in terza persona.
Il romanzo i Pellicani di La Chiusa è un’opera prima dell’indubbio valore, come dimostra anche la segnalazione al Premio Calvino 2019. Altresì è un testo di non facile catalogazione, in quanto romanzo certamente rischioso per le sue scelte normative e fuori canone. Per farcene un’idea possiamo partire da una semplice e preliminare ispezione grafica.
Il libro è diviso in capitoli, segnalati da una numerazione in caratteri romani progressiva, ma a colpire è in primo luogo il pieno di queste pagine, pochissimi gli a capo, la narrazione pare organizzarsi in spazi metrici a forma di rettangoli in cui le parole si susseguono, non si trovano stacchi o segni dialogici o interventi di mimesi del parlato. Le frasi si susseguono le une dietro le altre, queste producono paragrafi e infine capitoli.
Ci si aspetta, quindi, alla lettura un romanzo, in cui la verbosità e l’onnipresenza di chi parla siano centrali, anzi onnicomprensive. La storia del romanzo è appunto il temporaneo ritorno a casa di un figlio, che chiameremo “giovane”, dopo 20 anni di assenza. Un lasso di tempo enorme, che però il giovane, non più tanto giovane a dire il vero, pare non aver vissuto e così torna nella sua vecchia dimora, pensando che tutto sia rimasto intatto. Al di là di una sostanziale rassomiglianza del quartiere, che lo accoglie, l’uomo, vestito in maniera trasandata e con una lisa valigetta 24 ore, simbolo di un lavoro che fu, trova il caseggiato dove ha vissuto in fase di decadimento e fatiscenza; nonostante questo si ostina a pensare che tutto sia come prima e prende le scale per raggiungere la casa del padre: trova il campanello “Pellicani”, il suo cognome, e entra. Nell’alloggio, che è irrimediabilmente il suo anche se più disordinato e dismesso, vive un uomo di circa 80 anni, un vecchio come lo definisce il protagonista, che assomiglia a suo padre, ma che non può essere lui, anche se il naso è proprio quello del vecchio Pellicani. Il romanzo è quindi la cronaca di questa convivenza tra il giovane e il vecchio all’interno dell’appartamento dei Pellicani.
Il testo si svolge quasi completamente all’interno delle mura dell’appartamento, così da giustificare proprio la struttura chiusa e asfittica dell’impaginazione del testo, non ci sono esterni, aperture di squarci, se non brevissimi, che indicano come il romanzo si risolva sostanzialmente in un lungo monologo del giovane. Il romanzo infatti è scritto in prima persona, una prima persona attraverso cui passa l’intera narrazione: lo stile e la scrittura sono notevoli, un vero pezzo di bravura e virtuosismo, soprattutto perché l’autore riesce a instillare in chi legge una sorta di sotterranea sfiducia nel narratore, e nel modo in cui racconta ciò che vede. Questa rottura del patto, ogni narrazione in prima persona prevede una tensione testimoniale a dire la verità, dà il colorito comico grottesco al romanzo, una sorta di sentimento del contrario, omaggio a Pirandello, che lo stesso La Chiusa cita indirettamente quanto appunto carica il naso del vecchio di tutta la possibile identità tra “padre” Pellicani e “vecchio” Pellicani. Nello stesso tempo la verbosità del romanzo in alcuni punti è anche il suo punto debole, questa logorrea dell’Io chiuso in se stesso avrebbe potuto essere gestita con più forza se l’Io narrante avesse accettato il dialogo con gli altri personaggi del romanzo che esistono solo in funzione della sua narrazione. Ciò detto i Pellicani è un ottimo esordio di un autore che speriamo presto di rileggere con la sua nuova opera.
Un uomo penetra in un palazzo fatiscente della periferia urbana perché spera di trovarvi ospitalità per la notte. Non si tratta di una scelta a caso perché nel palazzo dovrebbe abitare ancora il padre, con il quale si è lasciato vent’anni prima ( vent’anni il tempo canonico di ogni ritorno a casa) in modo piuttosto burrascoso per via di un suo prelievo forzoso dal comodino in cui il genitore era solito tenere il denaro contante. Vent’anni sono tanti, ma il nome sulla targhetta dell’appartamento, Pellicani, corrisponde. La sorpresa è che l’abitante, un vecchio paralitico, non pare assomigliare in nulla al padre, salvo nel naso.
Il giovane Pellicani non si perde d’animo, sebbene incerto se si tratti del caro parente o di un abusivo, decide di trattenersi più del previsto e intraprendere una drastica azione rieducativa in armonia con i valori individualistici della nostra società per far recuperare all’anziano disabile la propria indipendenza, o forse sarebbe più corretto dire per permettergli di conseguire la propria emancipazione.
Così prende avvio il romanzo I Pellicani di Sergio La Chiusa, finalista del premio Calvino 2019 e insignito della menzione speciale Treccani per la lingua, a proposito del quale va innanzi tutto notato che siamo di fronte a un’opera già matura, nonostante segni l’esordio dell’autore nel campo della narrativa. Romanzo picaresco sur place, per così dire, sembra voler rappresentare l’assurdità esistenziale di certe derive sociali ed etiche del nostro tempo in una situazione claustrofobica di un appartamento di un abitante solo, dotato di badante a mezzo servizio e di un figliol prodigo che si considera trattenuto lì dalla sua alta missione educativa. Se il protagonista e io narrante Pellicani junior appare erede dei picari nella sua disperata arte di arrangiarsi, nella sua tendenza autoaffabulatoria, e autoassolutoria, ha chiaramente dietro di sé i barboni beckettiani, specie quelli della trilogia o delle novelle. Del resto l’abbigliamento, un completo grigio topo e una valigetta 24 ore, che il protagonista sciorina con un certo compiacimento pare essere l’equivalente impiegatizio, nonostante le pretese manageriali, e più moderno della bombetta e del bastone da passeggio di un grande erede novecentesco dei picari ossia Charlot. In quest’ultimo, tuttavia, l’abbigliamento è funzionale a un’attitudine malinconica e dolce da clown bianco, qui l’ormai fatiscente vestiario rimanda a un Augusto che ha interiorizzato l’aggressività e la cialtroneria della società.
Così il programma didattico del giovane Pellicani, che al lettore potrà apparire una feroce forma di taglieggiamento del povero vecchio, è giustificato con una critica di ogni forma di assistenzialismo che tenderebbe, come spiegano gli specialisti del settore, a sviluppare pigrizia e inerzia nel soggetto. Ecco infatti come viene presentata dallo stesso interessato la sua missione in un passaggio che è un buon campione dell’intero testo: “Avevo capito che l’immobilità di Pellicani era un problema che non andava sottovalutato. Per sottrarsi seriamente all’assistenza era necessario mettersi in piedi, muoversi per proprio conto. La teoria e la provocazione intellettuale però da sole non potevano nulla, senza la prassi e l’esempio anche la dottrina più nobile diventa lettera morta, vanità per intellettuali rancorosi. Basta parole al vento! Basta vane dichiarazioni d’intenti! Prassi! Azione! Fu allora che escogitai esperimenti per mobilitare il paralitico. Decisi di agire in modo sottile, procedere per piccoli passi, introdurre minimi cambiamenti nelle abitudine quotidiane del vecchio. La donna di servizio, per esempio, lasciava un biberon pieno d’acqua sul comodino, a portata di mano. Lo notava sempre con un certo disappunto. Troppe comodità” ( pp. 84-85). Ineffetti il giovane Pellicani per stimolare all’azione il vecchio decide di svuotare il contenuto del biberon per costringerlo a muoversi fino alla cucina. E’ importante notare che sul linguaggio riposa il significato recondito dell’azione: qui viene adoperata una lingua infarcita di slogan e stereotipi mediatici main stream e del linguaggio politico e ideologico attuale, queste parole, come quelle successive in cui lo svuotamento del biberon viene ulteriormente giustificato con motivazioni umanitarie relative ai rischi per la salute derivanti dall’immobilità naturalmente evidenziano l’intima ipocrisia del personaggio e sul piano retorico si segnalano come una forma di eufemismo. Ora l’eufemismo è la principale strategia utilizzata nel discorso pubblico per presentare misure impopolari e ingiuste, dunque l’ipocrisia sociale è introdotta linguisticamente nel rapporto tra i due personaggi tramite il fatto che il protagonista mutua nel suo linguaggio le convenzioni e i modelli argomentativi del discorso ufficiale. Il discorso neoliberista, come ricordava Sloterdijk in un suo celebre libro, esorta a cambiare la propria vita ossia a migliorare le prestazioni ed ecco che Pellicani junior fa propri gli obiettivi della società, sentendosi autorizzato dal suo abbigliamento, suppongo, a imporre picarescamente l’onere del cambiamento della propria vita a un vecchio indifeso, i cui beni casualmente sono appetibili per lui. Per la verità la necessità di giustificare i vari passaggi del suo progetto educativo gli fanno talvolta anche riprendere un linguaggio più critico dei valori sociali dominanti, ma sempre con una costruzione linguistica che ha al centro l’eufemismo.
Non deve sorprendere che sia così perché la vitalità del personaggio risiede proprio nella sua natura picaresca di autore di espedienti per procacciarsi da vivere e che ha pertanto iscritto nel proprio DNA, e nella propria disperata cialtroneria, il ‘Franza o Spagna purché se magna’ adatto a quest’epoca. Proprio da ciò però risulta evocata potentemente la povertà morale e umana, di cui quella economica è nel contempo causa e conseguenza, della società attuale. L’appartamento dei Pellicani si trova in un palazzo fatiscente situato in un quartiere in cui la “ modernità era arrivata (…) con la sua smania di rinnovamento, e invece del noioso complesso residenziale costruito il secolo scorso c’era ora un’aperta area sterrata che lasciava molte più opportunità all’immaginazione e allo spirito imprenditoriale: mucchi di macerie, tubi, lamiere, piloni in calcestruzzo da cui spuntavano tondini di ferro..” ( p.6), così queste macerie rappresentante entusiasticamente dall’io narrante costituiscono un correlativo concreto del paesaggio morale e umano che si incontra nel libro. L’appartamento non è serrato ermeticamente nei confronti della realtà esterna, ma come una sorta di Minitalia o di Minioccidente la riproduce e il senso di claustrofobia che ne deriva è uno spiffero che viene da fuori.
In definitiva ci troviamo di fronte a un romanzo che riconcilia il lettore con il piacere della lettura perché racconta i casi degli uomini e il mondo che sta attorno a loro con grande libertà dai cliché editoriali e mediatici dominanti e con modi che sono specifici del linguaggio letterario.
Chi è il vecchio che ho davanti? Un’iniziazione in stile Beckett
Pellicani è uno strano personaggio e narratore, ha con sé solo una valigetta, quella con cui dovrebbe ripartire per i suoi traffici di import-export in Cina, quando trovandosi nella vicinanze di casa del padre decide di andarlo a trovare. Certo, fin dall’inizio ha un tono dubbioso tutto suo – «Ho detto mio padre? Lo ammetto, a volte mi lascio trascinare dall’entusiasmo» – che è l’anima dell’esordio di Sergio La Chiusa, I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione (Miraggi Edizioni), finalista al Premio Calvino nel 2019, menzionato speciale Treccani.
Pellicani figlio, ammesso che lo sia, entra in un appartamento e vi trova un vecchio non autosufficiente, una «viziata ameba» curata da una specie di badante, e decide di fermarsi. Per 15 capitoli, nell’ambiente claustrofobico, il protagonista cerca di capire e immaginare chi ha vicino: «Nel rovello della mente si erano aperte sin dall’inizio tre possibilità e non riuscivo a decidermi: A) un renitente, B) un rimbambito, C) un impostore».
Sono sono alcune delle tante maschere ipotetiche che Pellicani, oltre a quella di «papà», fa indossare all’altro anziano muto, dal ribelle all’attore, riflettendo tra sé e parlandogli, invano, ad alta voce. Sembra di essere capitati in un loquace spin-off italiano di un romanzo di Samuel Beckett: raro e affascinante per un’opera prima.
Un libro scritto a quattro mani nel momento in cui ciò che è scritto avveniva, nel ‘68, quel 1968 che è stato un periodo fervido di lotte e cambiamento. Pubblicato 50 anni dopo.
Non è un romanzo, non è una raccolta di racconti nemmeno di poesie, nell’ insieme è un po’ di ogni cosa. Sono dialoghi, scene di vita, contesti diversi nei quali si vive e ci si confronta con nuove modalità, a volte goffe, piene di voglia di ribellione e di cambiamento. Discorsi, pensieri sparsi su tutto: amore, rapporti “en passant“, studi e politica e soprattutto sperimentazione. Finalmente donne e uomini potevano vivere la libertà sessuale, rapporti da inventare, o su modelli dei vicini d’oltralpe che avevano forse cominciato prima. Situazioni non estranee a chi ha vissuto quegli anni o a ridosso, che visti con gli occhi di oggi fanno tenerezza ma anche ridere o fanno venire nostalgia. Al contrario di ora in quegli anni si voleva costruire, si avevano obiettivi, si avvertiva una forza sociale dirompente, c’erano i gruppi i grandi e piccoli problemi, ma la sicurezza di andare nella direzione giusta.
Leggendo questo libro, a volte sembra di trovarsi in una scena di Ecce Bombo di Moretti, situazioni in cui si spaccava il capello in quattro perché delle cose dei sentimenti, degli accadimenti bisognava parlare e parlare. O tacere e sviare di dare risposte o non trovarne.
Un panorama di flash e situazioni che letti ora danno la visuale reale del momento passato, proprio con gli occhi e le mani di chi in quegli anni,’68/‘69, all’ora ventenni, erano i protagonisti di quel periodo, che è stato un momento di crescita , il movimento studentesco era una fucina di idee e progetti, dal quale sono usciti anche grandi studiosi, e che visto oggi, da chi non l’ha vissuto, può sembrare un periodo o un movimento obsoleto.
Questo libro ha una grande ricchezza la memoria storica, scritta mentre la Storia succedeva.
Come in una pièce del teatro dell’assurdo, tutto si svolge in una sola notte, con i due protagonisti stipati in una stanza, come lo sono nelle 192 pagine del romanzo i vaniloqui del giovane e logorroico protagonista. Ragazzo che, completo grigio topo sdrucito e valigetta da manager piena di cianfrusaglie alla mano, si presenta la sera tardi a casa del padre dal quale era scappato vent’anni prima dopo avergli sottratto i risparmi dal comodino. Cerca ospitalità per la notte, prima di partire per la Cina, sostiene. Come il vecchio padre tradito (ma sarà proprio lui?), il lettore è rapito e trasportato dal turbine ciarliero del giovane che ipotizza, reinventa e trasfigura la banalità del reale che lo circonda. In libreria dal 13 ottobre I Pellicani si è guadagnato la menzione speciale Treccani 2019 come finalista al Premio Calvino.
che cosa succederebbe se l’agrimensore K. del “Il Castello” e il gestore di motel Norman Bates di “Psyco” confluissero in un unico personaggio, dandosi appuntamento davanti a un palazzo con la parvenza di essere a metà strada tra i due immobili delle rispettive storie? E se Pellicani – questo è il nome del protagonista del romanzo di cui vi sto per parlare -, fosse vestito quasi come un’icona magrittiana, in giacca e cravatta, e con una valigetta si presentasse in quell’ora serale in cui ogni strepito si è già consunto e le voci di dentro prorompessero all’improvviso?
“i Pellicani”, di Sergio La Chiusa (Miraggi edizioni), ha l’impeto fragoroso di un atomo d’idrogeno, che è un gas con la molecola più piccola e più leggera, ma che si muove molto velocemente verso l’alto e riesce a penetrare materiali normalmente impermeabili. L’ossigeno detonante è la giusta miscela di tensione, onirismo, mistero, tragico umorismo contenuti all’interno di una sola stanza, quella in cui è coricato il padre del protagonista, irriconoscibile se non per il naso pronunciato, quasi un marchio di fabbrica della stirpe Pellicani.
Noi di Pellicani figlio sappiamo ben poco, il necessario a scatenare universi fantastici popolati da forme e parvenze umanoidi. Vent’anni prima l’uomo ha rubato dei soldi al padre e da allora non l’ha più visto; è andato via dal lavoro sottraendo articoli di cancelleria; ora deve partire per la Cina. Non sappiamo in che luogo si svolga l’azione ma non ne abbiamo bisogno, perché tutto ciò che occorre al La Chiusa-demiurgo risiede nella sua maestosa capacità affabulatoria e nella sublime proprietà stilistica che fa di “i Pellicani”, già finalista alla XXXIIesima edizione del Premio “Italo Calvino” (menzione speciale Treccani), un libro d’insuperata bellezza, l’esordio più maturo e elegante dell’anno.
Se non bastasse quanto detto sin qui, il lettore sappia che riconoscerà Collodi, Shakespeare, Borges e la tragedia greca venati da contrappunti comici, al limite del grottesco.
“… perché invece di sparire, […] c’incaponivamo a esistere nonostante il cambiamento dei tempi e i progetti di riqualificazione?”. “… a un tratto ebbi come l’impressione che il vecchio intendesse sbarazzarsi di me e per ciò si fosse messo a puzzare a tutto spiano e a perdere liquidi…”. È un romanzo sulla fine della Bellezza, sull’inevitabile degradazione e sul mistero insito nella natura umana. Il vecchio Pellicani non è più il povero demente sdraiato su un letto e accudito, all’inizio, da una giovane badante, ma è l’emblema di una società disorientata, depotenziata, inaridita, immobile. L’espediente narrativo è la miccia che innesca in realtà una più ampia fluttuazione esistenziale, in cui La Chiusa s’interpone da eccelso narratore, come per la grande letteratura, in cui non c’è niente da raccontare, ma che sconfina in quella zona ellittica e portentosa del pensiero che scuote per lungimiranza e immaginifiche metafore conoscitive le anime esonerate dall’armonia.
Nuova #nonrecensione, in forma di bugiardino, per nuovo sorprendente libro in uscita. “I PELLICANI”, Sergio la Chiusa (Miraggi Edizioni 2020)
CONTENUTO Un uomo cammina tantissimo, frenetico e rocambolesco, fra memorie, deliri psicotici, e proiezioni fantasmagoriche, inciampando nelle macerie di un appartamento e di un’esistenza, anzi due.
AVVERTENZE Leggerlo equivale a salire su una bicicletta, lanciata a folle velocità su un percorso sconosciuto. Le prime pedalate lasciano senza fiato, ma in un attimo si prende il ritmo e ci si immerge nel piacere delle folate di aria in faccia. Il paesaggio è nitido, grazie a un uso della lingua magistrale e ipnotico. Il divertimento assoluto, così come l’intuizione di una realtà verosimile, al di là di ogni apparenza.
INDICAZIONI Per chi ha bisogno di muoversi, sperimentare, abbandonarsi e riprendere il controllo, con la certezza della sua inutilità.
POSOLOGIA: Da leggere tutto in un fiato, e lasciare agire con stupore.
ESTRATTO: “… era chiaro che non potevo sistemarmi da nessuna parte, sistemarsi era sommamente pericoloso, si correva il rischio di trovarsi ad accudire qualcuno, oppure, se non c’era nessuno da accudire nei dintorni, coricarsi, cadere nella trappola del letto e assumere senza pensarci la posizione dell’accidioso, entrare nel suo comodo stampo, che era poi come stendersi in una cassa da morto perché l’accidia, l’inoperosità, l’indolenza erano tutti strumenti di resistenza, d’accordo, ma se non si governavano a dovere alla lunga si tramutavano in attività letali… Circolare! Circolare! Questo era importante!”
Luca Quarin vive a Udine, dove è nato (1965) e dove si occupa di ambiente, design e architettura.Di sangue e di ferro (Miraggi edizioni, 2020)è il suo secondo romanzo. Il primo, Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017, vincitore del Premio Letteratura dell’Istituto Italia di Cultura di Napoli e del Golden Book Awards) era ambientato negli Usa, il secondo affonda le radici in patria, in Friuli, terra d’origine dell’autore. Scelta ben ponderata, che mescola realtà e finzione, come egli stesso ci spiegherà.
[Marco Quarin] Cominciamo dal titolo del tuo nuovo romanzo: Di sangue e di ferro. Se permetti lo sfrutterei subito per spiegare l’arcano dello scrittore Quarin intervistato da un altro Quarin: di sangue la lontana parentela, di ferro l’amicizia. Soddisfatta la curiosità del lettore, in breve cosa ci racconta la trama di Di sangue e di ferro? [Luca Quarin] Il protagonista del romanzo, Andrea Ferro, è un quasi cinquantenne che vive ancora come un ventenne: ciondola in un limbo indefinito facendo l’assistente in università, canta canzoni country in un locale di periferia, aiuta un amico a mandare avanti una casa editrice, insegue una vecchia adolescente come lui, Silvia, che lo abbandona in continuazione e fugge in altri luoghi del mondo, con altri uomini. Ma un giorno il suo disequilibrio si infrange. L’amico gli sottopone uno “strano romanzo”, che con il passare dei giorni si intrufola nella sua vita. L’agonia della nonna lo costringe a ritornare nella sua città d’origine. Comincia così la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare. Le vicende della destra eversiva negli anni settanta. L’attentato di Peteano, nel 1972, e il depistaggio che per dodici anni ha impedito di conoscerne i colpevoli.
Da dove è venuta la storia? Quando e come è nata? L’idea di questo romanzo è nata sei o sette anni fa da una serie di discorsi fatti con Bruna Graziani, la fondatrice del festival Cartacarbone, l’unico festival in Italia dedicato alla scrittura autobiografica, e dalla presentazione del libro di Walter Siti Resistere non serve a niente. Mi era rimasto il desiderio di dire la mia su autobiografia e autofinzione, provando che la prima è impossibile e la seconda immorale.
La strage di Petano del 1972, l’eversione nera nel Friuli terra di confine. Perché hanno attirato il tuo interesse? Perché è il prototipo di come i fatti diventano storia, a prescindere dalla verità. Le domande suscitate dall’esplosione del 31 maggio 1972 nella popolazione friulana e italiana in generale (che cosa è accaduto? che cosa sta accadendo? chi è stato?) hanno trovato nei mesi successivi una risposta che non aveva niente a che vedere con l’attentato – un attentato contro lo Stato compiuto da una cellula di neofascisti che non accettava la svolta neo-governativa di Almirante -: l’arresto di sei ragazzi goriziani e il conseguente processo. La verità è emersa dodici anni dopo, quando Vincenzo Vinciguerra ha confessato al giudice Casson i retroscena della vicenda, senza però riuscire a incidere sulla memoria storica tanto che ancora oggi si parla di Peteano come un momento della strategia della tensione, quando è stato l’esatto contrario.
Da un lato c’è la Storia (le date, gli eventi, i fatti ri-costruiti dagli storici) dall’altro le storie dei singoli che pochi, perlopiù romanzieri, raccontano. Cos’è per te la Storia? Borges sosteneva che fosse uno strumento per riprodurre la realtà, sottintendendo, forse, che realtà e verità difficilmente coincidono. Mi pare che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia esiste senza dubbio come necessità ed esiste anche come pratica. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo “struttura narrativa”, l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo di uscire.
Come collocheresti questa tua nuova opera rispetto alla precedente (Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017)? Dopo Il battito oscuro del mondo ho sentito il bisogno di sfidarmi su due temi che non ero stato in grado di affrontare, la mia esperienza personale e i luoghi in cui questa si è svolta. Volevo scrivere una storia friulana che avesse a che fare con me. Ne è venuto fuori un romanzo più intimo del precedente, come era ovvio, che guarda il mondo da un altro punto di vista, quello del racconto che ognuno di noi fa a sé stesso del proprio vissuto.
Da lettore, ho avuto l’impressione che la tua scrittura oscilli tra il diurno, in cui metti in gioco le tue idee, meglio ideali, e il notturno, in cui fai i conti con i demoni, con “i sosia che abitano nel profondo del nostro cuore”, per citare Magris. Se è così, è una scelta consapevole? La figura del sosia è molto presente nella mia scrittura, dai tre John Ogden de Il battito oscuro del mondo ai due Quarin di Di sangue e di ferro. Come l’identità si forma nel riverbero degli altri, così la scrittura si forma nel sonnambulismo della realtà, tra la luce del sogno e il buio di quello che accade, in un processo che è sempre incomprensibile benché si verifichi in continuazione.
Cos’è per te fare letteratura? “Nuotare sott’acqua trattenendo il fiato” (Francis S. Fitzgerarld) come suggerisce la copertina de Il battito oscuro del mondo? E cosa ne pensi dell’assioma calviniano “la letteratura vale per il suo potere di mistificazione, ha nella mistificazione la sua verità”? La letteratura è l’unico modo che conosco per cucire insieme tutto quello che bolle dentro di me e che nella realtà non riesce a trovare un posto comodo dove stare. Ricardo Piglia sosteneva che l’unica cosa reale che ci accade è la letteratura.
[Esce oggi per la collana “scafiblù” di Miraggi Edizioni il romanzo I Pellicanidi Sergio La Chiusa, finalista Premio Calvino 2019, Menzione Speciale Treccani. Ne presentiamo l’incipit e un estratto del secondo capitolo, preceduti dalla nota di Giulio Mozzi che accompagna il libro (it)]
Il giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. Tuttavia nell’appartamento il giovane Pellicani trova solo un vecchio. Somigliante un po’, questo è vero, soprattutto nel naso, a Pellicani padre. Ma un vecchio, insomma! Va bene che sono passati vent’anni… Parla, parla, il giovane Pellicani, raccontando tutto ciò che fa, tutto ciò che vede, l’appartamento, la biancheria stesa in una stanza, la donna che tutti i giorni viene a cucinare il minestrone al vecchio; parla, parla, il giovane Pellicani, e noi lettori siamo presi in questa sua infernale chiacchiera, nel suo ostinato non credere a ciò che vede, nel suo ipotizzare, reinventare, spiegare, trasfigurare la banale realtà che gli si presenta davanti: finché ci arrendiamo, smettiamo di farci domande, non ci interessa più se il vecchio nella casa sia o non sia Pellicani padre, se l’uomo nello specchio sia il vero Pellicani giovane o un impostore: ci interessa solo abbandonarci al fervore di questa inesauribile chiacchiera. Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.
Giulio Mozzi
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Non che avessi intenzione d’installarmi in casa sua, intendiamoci, ma i miei impegni m’avevano portato nei dintorni e mi pareva scorretto non andare nemmeno a vedere come se la passava. Tutto sommato era pur sempre mio padre. Mio padre? Ho detto mio padre? Lo ammetto, a volte mi lascio trascinare dall’entusiasmo. A ogni modo m’immaginavo la sorpresa: vedermi comparire dopo vent’anni, realizzato nonostante il suo scetticismo, e con tanto di completo grigio topo e valigetta da manager. Anche se va detto che il completo era un po’ sciupato, per via delle notti passate in trasferta, e la valigetta conteneva solo pochi articoli di cancelleria rubati in ditta tanto per non andarmene a mani vuote, e una mutanda di ricambio, anche, per gli appuntamenti importanti. Ma non ci avrebbe fatto caso: la gioia di rivedermi avrebbe messo in secondo piano i dettagli, e anche se c’eravamo separati in malo modo scambiandoci ingiurie sulle scale non m’avrebbe negato ospitalità per una notte. D’altra parte il tempo risolve tutto, risana i rancori, rimargina le ferite, e non era per nulla detto che rimuginasse an- cora sui risparmi che gli avevo prelevato dal comodino prima di partire, a titolo di liquidazione, per così dire.
« Mi trovavo a passare da queste parti per affari », avrei spiegato esibendo con noncuranza la valigetta, che ora stavo usando per ripararmi da una pioggerellina molesta che intanto che ragionavo sembrava rammentarmi con una certa minuziosa pedanteria che non avevo nemmeno un soprabito. Ma che importava il soprabito? Papà si sarebbe congratulato per la mia carriera di cui valigetta e completo grigio topo erano sintomi indiscutibili, io avrei minimizzato scrollando le spalle con aria superiore: « Ah, la valigetta dici? Sciocchezze, pensa che ho solo messo su un’impresa d’import-export, roba da nulla », e avrei chiesto se per caso c’era ancora il mio letto, lui sarebbe filato tutto contento a preparare la biancheria pulita per l’ospite illustre e tanti saluti. Al mattino sarei ripartito per la mia strada. Perché io, sia messo subito in chiaro, sono un individuo indipendente, e anzi metto l’indipendenza sopra ogni altro valore.
…
« Papà », mormorai, ma la parola mi era sembrata sconcia, e mi era morta sulla lingua lasciandomi un repellente sapore zuccheroso, come di sciroppo per la tosse. Mi ricomposi. Guardai meglio il tizio che, coricato su un letto matrimoniale, mi scrutava con due occhi terrorizzati. Mica era mio padre! Macché! Un vecchio era! E per di più aveva tutta l’aria di un paralitico, ridotto a un manichino dalla vita in giù. Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto? Avevo la tentazione di aggredire il vecchio abusivo, ma mi trattenni. D’altro canto le cose non erano per nulla chiare. Potevo, per esempio, essere capitato in casa d’altri. Il nome sulla porta non provava nulla. Mio padre non era certo l’unico Pellicani in circolazione. Poteva benissimo trattarsi di un altro Pellicani… Un altro Pellicani? Mi veniva da ridere a pensarci. Ma la cosa m’intrigava tutto sommato. Mio padre si levava subito di torno. Del resto, che voleva? Non ci vedevamo da vent’anni! Doveva intromettersi proprio ora? In ogni caso, restava da capire chi era costui. Un Pellicani legittimo? Uno che occupava il posto che gli competeva? Rinsecchito, prosciugato, ridotto per così dire all’osso, aveva invero una cert’aria da individuo non del tutto in regola: sembrava insomma un renitente, uno che resisteva illegalmente al mutamento dei tempi e invece di rispondere all’appello del mercato se ne stava per conto suo, dedito magari a una vita contemplativa che non era in linea con le politiche vigenti: mentre lo scrutavo sembrava muovere le mandibole a vuoto, come impegnato in una sua ruminazione incessante e puntigliosa.
« Buon appetito », dissi, e poi, per rassicurarlo, visto che mi fissava con un’aria preoccupata, aggiunsi che ero diplomato in ragioneria e che sapevo come comportarmi in casa d’altri, e rimarcai quel “casa d’altri” come per caricarlo di sottintesi, che però io stesso non avevo compreso. A dire il vero non avevo le idee chiare. Improvvisavo e stavo sul vago circa le ragioni della mia visita e in attesa che il vecchio rivelasse per primo le sue intenzioni investigavo, tastavo il terreno, chiedevo se non fosse imprudente passare la notte con la luce accesa e la porta aperta, se la luce non potesse per esempio attirare in casa individui molesti, e intanto gli camminavo per la stanza con la mia valigetta leggermente sgocciolante e notavo che intorno alla lampada da letto ruotavano come indemoniati certi insetti minuscoli: « Di questi tempi non si sa mai chi può capitarti in casa », continuavo allusivo, perché avevo come il sospetto che aspettasse qualcuno e che non avesse lasciato la porta aperta senza ragione. Il vecchio però non si lasciava scappare nulla. Doveva avere un carattere chiuso, reticente, e così ostinato che per convincerlo a svelare i suoi piani ci sarebbero volute tecniche d’interrogatorio avanzate, e manette, catene, cavi elettrici e altri strumenti sofisticati di cui ero sprovvisto. Anche se a dirla tutta sembrava più che altro un paralitico che aveva perso l’uso della parola, magari per merito di un ictus provvidenziale che gli aveva strappato per sempre i tormentosi dilemmi del linguaggio. Mentre investigavo tra le medicine ammucchiate sul comodino in cerca d’indizi, il vecchio, notavo ora, andava schiacciando con una mano una pallina antistress, come se la mia comparsa l’avesse messo in uno stato d’agitazione.
D’altro canto era comprensibile che diffidasse dello sconosciuto che s’aggirava per casa con la valigetta e che dal suo punto di vista d’ottantenne, e per di più paralitico, poteva passare per un messaggero dei tempi nuovi, uno di quei rottamatori che vanno casa per casa a raccattare ruderi e anticaglie da portare al macero, un angelo della morte insomma che per rendersi più accettabile e stare al passo coi tempi s’era mascherato da uomo d’affari invece di manifestarsi nel costume tradizionale di scheletro incappucciato con tanto di falce da tetro mietitore, che, montando un tristo cavallino grigio, anch’egli tradizionale, e quindi scheletrito e spelacchiato, sarebbe stato costretto ad arrancare inverosimile nel traffico sulla sua cavalcatura svogliata e claudicante e sorbirsi pure le lamentele degli automobilisti, anche per via degli escrementi che il cavallino disseminava per strada, come per protesta – e d’altra parte come non capirlo, il cavallino: la vecchiaia, i polmoni oppressi dall’inquinamento, nell’animo il peso di un lavoro a tempo indeterminato per cui non provava una vera vocazione e che per di più comprometteva la sua immagine pubblica, e mentre trasportava penosamente il suo impresario ossuto certo nell’intimo suo vagheggiava un’altra vita, e nonostante l’età avanzata, i reumatismi, i primi sintomi dell’artrosi, s’immaginava magari d’essere scritturato per uno spot pubblicitario su qualche marca di shampoo e galoppare libero di tristanzuoli ingombri su una sterminata spiaggia atlantica portando allegramente in groppa una bell’amazzone bionda coi capelli al vento, e le natiche carnose e compiacenti, invece del cinto pelvico dell’impresario che gli straziava la pelle e gli ricordava a ogni passo il suo triste destino di subordinato e messo di sciagure… Ebbene, dicevo? Ah, licenziato il riluttante e lagnoso cavallino, peraltro obsoleto per via degli sviluppi nel settore dei trasporti, era giunto con un comodo suv nero dai vetri oscurati, l’aveva lasciato in un parcheggio sotterraneo e si era presentato in modo discreto, con tutti gli attributi della legalità e del libero commercio, tra cui appunto una valigetta piena di contratti e moduli vari. Anche se il vestito a ben vedere era stropicciato e rivelava che a dispetto della valigetta il tizio era dedito a lavori sordidi e manuali: nella giacca si notavano persino strappi e scuciture che lasciavano trapelare in una mente immaginativa sospetti di dispute, anche violente: le resistenze dei soggetti ormai superati, vecchi testardi che non volevano liberamente sottoscrivere il contratto che veniva loro proposto, e invece di lasciarsi prendere con un mite cenno di consenso, polemizzavano sino all’ultimo e lottavano persino accanendosi ridicolmente con le unghie contro il vestito del rottamatore salito dal regno delle ombre. Normale quindi che il vecchio stesse sulle sue. D’altro canto, anche l’arrivo a ora tarda, notturna, era equivoco e non si sposava con la legalità, incline invece alle ore diurne. Diffidare delle apparenze! Diffidare! mi dicevo complimentandomi intimamente con il vecchio che restava chiuso in un mutismo impenetrabile.
A furia di diffidare però mi venne il sospetto che costui non solo non era mio padre, ma nemmeno si chiamava Pellicani, che il nome sulla porta era parte di una messinscena e che ero vittima di un’oscura macchinazione. Provai a chiamarlo per metterlo alla prova. « Pellicani », dissi come sovrappensiero, mentre, senza mollare la valigetta, ma con le pantofole ai piedi, mi aggiravo per la stanza simulando interesse per i mobili, « Pellicani », e subito con la coda dell’occhio vidi sulla specchiera la testa di Pellicani voltarsi verso di me. Caso? Coincidenza? Riprovai: « Pellicani », e poi ancora: « Pellicani », « Pellicani », « Pellicani », andavo ripetendo camminando intanto per togliergli punti di riferimento, e tutte le volte il vecchio ruotava la testa con un movimento meccanico, come inseguendo il suo nome che volava inafferrabile da un punto all’altro della stanza. Bisognava riconoscere che rispondeva correttamente agli stimoli. « Allora, sei proprio un Pellicani? », chiesi infine fissandolo in volto. Il vecchio sembrava acconsentire con gli occhi, che gli si erano illuminati, invasi da una specie d’orgoglio di casta. Doveva trattarsi di un Pellicani autentico. Un Pellicani doc, per così dire. Anche se restava un che di dubbio in tutta la persona.
Etnabook 2020 – Presentato oggi il programma e svelati i nomi delle sezioni ‘A ‘e ‘B – Enrico Morello’ del premio annesso “Cultura sotto il vulcano”
Il programma con gli ospiti
Venerdì 25 settembre, dove spicca anche un collegamento con Parigi con Giacomo Sartori a dialogare con Salvatore Massimo Fazio.
Ore 10.00-12:30 (Arcipelago delle storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per adulti
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Baret Magarian, Le macchinazioni (Ensemble). Modera Antonio Ciravolo
Ore 11.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Raffaele Montesano, Il cratere Dostoevskij (Lekton Edizioni). Interviene l’editore Emanuela Anna Calì. Modera Simone Belvedere
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Marisa Fasanella, Il male in corpo (Castelvecchi).Modera Valentina Carmen Chisari
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Sala CCP): “Una scuola del fumetto in Sicilia: la metamorfosi, da passione a opportunità lavorativa”, incontro a cura della Scuola del fumetto di Palermo
Ore 15:00-17:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per ragazzi
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura Auditorium Concetto Marchesi): Incontro con Luca Quarin, Di sangue e di ferro (Miraggi Edizioni). Dialoga con l’autore Daniele Zito
Ore 17.00 (Campus Athena): “Metamorfosi fumettose: inventiamo un personaggio!”. Incontro Etnakids – Fumetto Junior. A cura di Matilde Leonforte e della Scuola del Fumetto di Palermo
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Luca Vullo, L’Italia s’è gesta. Come parlare italiano senza parlare (Ultra). Modera Fernando Massimo Adonia
Ore 18.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): EVENTO SPECIALE, video intervista esclusiva a Giacomo Sartori, Baco (Exorma). A cura di Salvatore Massimo Fazio
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Franco Di Guardo, I siciliani I dolci I Savoia. Dai fasti del Regno d’Italia all’avvento della Repubblica: una tradizione dolciaria viva che ancora oggi permane (Algra Editore). Modera Fabia Mustica
Ore 18.30 (Attimi Lounge Bar – Sant’Agata li Battiati): incontro con Andrea Serra, La luna viola (Miraggi). Modera Salvatore Massimo Fazio.
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): serata inaugurale con premiazione del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il vulcano. Presentano: Ester Pantano e Paolo Maria Noseda
Sabato 26 settembre
Ore 09:00-11:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per ragazzi
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Sala CCP): incontro con Giorgia Landolfo, insegnante di Kundalini Yoga, “Medita, Scrivi, Trasformati”
Ore 11.00 (C.C. Katané): incontro con Gloriana Orlando, Un inconfessabile segreto (Algra Editore). Modera Lisa Bachis
Ore 12.00 (C.C. Katané): incontro Etnakids, “Color spots”. A cura di Matilde Leonforte
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Claudio Pelizzeni, In viaggio (Rizzoli – Illustrati). Modera Lucio Di Mauro
Ore 15:00-17:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per adulti
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): Catania Book Party, “Siamo tutti farfalle, la terra è la nostra crisalide”. A cura di Valentina Carmen Chisari
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Rosario Palazzolo, La vita schifa, (Arkadia Editore). Modera Luciano Modica
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Anna Giurickovic Dato, Il grande me, (Fazi Editore).Modera Lucio di Mauro
Ore 17.30 (CC Katanè, Libreria Mondadori): incontro con Sarah Donzuso, Da sempre e per sempre. Due amiche, un viaggio e un segreto, (Algra Editore). Modera Katia Scapellato
Ore 18.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro Etnakids, “Color spots”. A cura di Matilde Leonforte
Ore 18.00 (Salone Russo – CGIL Catania): “Insegnare la Storia, insegnare la cittadinanza”. Incontro con Salvatore Adorno(curatore) e Andrea Miccichè (autore), Pensare storicamente (Franco Angeli). Modera Rosa Maria Di Natale
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Costanza Di Quattro, Donnafugata (Baldini+Castoldi). Modera Mario Incudine
Ore 20.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Daniele Di Frangia (curatore) e Daniele Lo Porto (autore), Catanesi per sempre (Edizioni della Sera). Modera Francesca Calì. Al termine dell’incontro è prevista la consegna del Premio Etnabook a Daniele Lo Porto
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Sara Rattaro, La giusta distanza, (Sperling&Kupfer). Modera Paolo Maria Noseda
Domenica 27 settembre
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Giovanna Spitaleri, Il sole dentro me (Edizioni Lett. Il Tricheco); Salvatore Gazzara, Luce perenne (Edizioni Lett. Il Tricheco)
Ore 11.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Vera Ambra, Catania, alla scoperta della catanesità in forma di parole (Akkuaria Edizioni). Dialogano con l’autrice Daniele Lo Porto e Santino Mirabella
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Andrea Mauri, Contagiati, (Ensemble). Modera Simone Rausi
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): Catania Book Party, “Siamo tutti farfalle, la terra è la nostra crisalide”. A cura di Valentina Carmen Chisari
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Antonella Nocera, Metafisica del sottosuolo (Divergenze). Modera Marco Patrone
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Barbara Bellomo, Il libro dei sette sigilli (Salani).Modera Paolo Maria Noseda
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Antonio Caprarica, La regina imperatrice (Sperling&Kupfer), interviene l’avv. Piero Lipera Modera Federica Duello. Al termine dell’incontro è prevista la consegna del Premio Etnabook ad Antonio Caprarica
Ore 20.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): proiezione e premiazione della Sezione Booktrailer. Proclamazione dei vincitori e premiazione della sezione C del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il vulcano
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Dora Marchese, Nella terra di Iside. L’Egitto nell’immaginario letterario italiano (Carocci Editore). Dialogano con l’autrice Marilina Giaquinta e Maria Antonietta Ferraloro.
È un libro molto particolare e molto interessante è la sua struttura. I piani di lettura sono più di uno e tanti sono gli interrogativi di tipo filosofico che percorrono tutto il romanzo che verte fondamentalmente sulla verità, storica e individuale. Protagonisti sono Andrea Ferro uomo di mezza età che si trova ad Udine al capezzale della nonna, con cui è cresciuto,l’eversione nera in uno dei suoi più inquietanti episodi, la strage di Peteano (31 maggio 1972) e in parte lo scrittore stesso Luca Quarin (Nella foto in basso a destra).
Cercando di mettere ordine nella casa della nonna, Ferro si trova a dover mettere ordine anche nella sua vita e soprattutto in quella della sua famiglia. I suoi genitori muoiono in un incidente e lui rimane orfano a tre anni e cresce con i nonni paterni. E quello che piano piano viene alla luce, col quale non aveva mai voluto/saputo confrontarsi è il suo tormento. Altro tormento , come un grillo parlante, è Quarin che si rivolge a lui per la pubblicazione di un libro ,gli scrive mail e propone punti di vista, veri e propri quisillibus filisofici sulla narrazione, sulla scrittura e quant’altro relativo al libro che vorrebbe pubblicare. Si dipana nel romanzo una pagina di storia che si è protratta per anni prima di far venire alla luce una fitta trama di collegamenti e depistaggi legati all’attentato del 1972 che forse ha trovato una verità dopo più di dieci anni. A vario titolo erano coinvolti per ragioni opposte i nonni e i genitori di Ferro, ma il motivo del coinvolgimento è la scoperta con cui non è facile fare i conti. Scoprire una realtà difficile da digerire, pensare a come sarebbe stata la sua vita se, come è stato possibile che, chi erano davvero i genitori, i nonni, quanto erano implicati in una brutta storia?
Un tormento. E sebbene sembra chiaro che la verità relativa ad un evento storico è giusto che venga sempre a galla per giustizia dovuta, quella relativa alla propria storia familiare a posteriori è sempre dovuta? Parrebbe di sì, i conti dovrebbero sempre tornare anche se il costo è alto. Ma forse no, giova sempre scovare fino in fondo? Lo svelamento può cambiare il corso o le scelte di una vita adulta? Ferro vorrebbe dimenticare, lo scrittore può continuare a ricordare il passato. È un romanzo che fa riflettere molto. Nel romanzo Quarin riporta anche documenti ufficiali e contributi giornalistici che si intrecciano bene con la parte romanzata rendendo la lettura piacevole.
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